di Guglielmo Forges Davanzati
Nel dibattito sull’autonomia differenziata, si solleva spesso la questione del calcolo dei cosiddetti residui fiscali, cioè della differenza fra il gettito fiscale prodotto in una Regione e la spesa pubblica erogata nella stessa a beneficio dei residenti. Un residuo fiscale positivo indica che le spese eccedono le entrate. I sostenitori dell’autonomia differenziata mettono in evidenza la presunta ingiustizia fiscale su base territoriale, ovvero il fatto che le Regioni del Sud hanno un residuo fiscale positivo e negativo lo hanno quelle del Centro-Nord. Questa evidenza servirebbe a mostrare che, pur ricevendo ingenti risorse dallo Stato centrale, il Mezzogiorno è incapace di gestirle in modo efficiente, così che la sua arretratezza è da imputare proprio alla scarsa qualità del suo ceto politico e della sua dirigenza amministrativa. Il calcolo dei residui fiscali ha, poi, anche una connotazione per così dire etica, di matrice meritocratica, dal momento che tende a mostrare che chi produce di più (le Regioni del Nord) riceve meno servizi e che lo Stato italiano è eccessivamente generoso verso i territori più poveri.
Posta la questione in questi termini, viene dedotto che la responsabilizzazione della classe politica meridionale – da realizzarsi mediante il decentramento istituzionale – è il solo strumento adatto a produrre sviluppo del Mezzogiorno, evitando la reiterazione delle fallimentari politiche basate sui trasferimenti su base centralizzata. È all’economista statunitense James Buchanan che si deve, nel 1950 (Federalism and fiscal equity, in “American Economic Review”), l’origine della categoria del residuo fiscale, concepita inizialmente sulla base del principio dell’uguale trattamento fra pari: l’equità distributiva si realizzerebbe quando l’ammontare di spesa pubblica che si riceve eguaglia ciò che si trasferisce allo Stato in termini di tasse pagate.