Anche il ritmo del verso è seguito più che altro a orecchio, come per un’automatica consuetudine: le concessioni a misure metriche tradizionali sono l’inevitabile sedimento di una tradizione più o meno alta e nobile – non solo italiana, anzi disponibile a suggestioni di area anglosassone e francese – che Pagano, malgrado la sua postura rinunciataria, non riesce del tutto a disperdere e a far tacere. Perché in fin dei conti è proprio la poesia, nonostante tutti i suoi ‘guasti’ e le sue ipocrisie, a fare da collante a una realtà esterna e interiore percepita come in frantumi.
Il libro si presenta come l’itinerario di un disincanto, un diario poetico intimo, e allo stesso tempo impersonale («nutrivi di poesia la tua ferita / di appunti in penombra – adesso // la poesia degli altri / è la sutura che divide il tuo fuori / dal di fuori che hai dentro»), il cui oggetto privilegiato è appunto l’asettica auscultazione del proprio e dell’altrui corpo. Pagano ne registra, come in un referto clinico («a ogni esperimento ti misuro e / ti osservo»), le disfunzioni, l’inarrestabile decomposizione («i corpi sono esauribili»), e infine la livida, oggettuale oscenità della morte. La storia personale retrocede, così, a gelida anamnesi; le relazioni con gli altri si risolvono nella chimica di «scambi quotidiani di fluidi corporei» e così via. Ma dietro l’apparente, anatomico rigore di questa cifra cinica cova un’inquietudine segreta, che l’autore ritiene opportuno e decoroso non esibire in pubblico: uno spazio davvero privato (privato anche dell’afflato lirico) in cui la consolazione – o più esattamente l’illusione – della poesia, se mai c’è stata, se mai è transitata nelle pieghe meno appariscenti delle vicende ‘fisiologiche’ riferite, nell’aura di quelle corporeità cosali, ormai è sublimata e intestimoniabile.
Si tratta, credo, di un meccanismo di rimozione, ossia di un modo per distrarre l’attenzione da eventi traumatici annichilenti, difficili da metabolizzare e perciò relegati nei ripostigli dell’indicibile e riemersi soltanto nella scheggia lavica di singoli particolari che rievocano il magma ancora ribollente di quelle drammatiche esperienze. Lo sguardo dell’autore è sempre obliquo, laterale, perché l’incandescenza di quel dolore rischierebbe di accecarlo. Il centro del discorso non è perciò l’evento traumatico in sé; è piuttosto la disillusa, minuziosa descrizione di un frammento sfuggito a quell’insieme, o piuttosto di un transito fra uno stato di (precario) equilibrio e un altro, declinato, per esempio, nel motivo ricorrente dell’attesa: le corsie e le sale d’aspetto di un ospedale, «quell’attesa senza attesa / dei luoghi dove si salpa», o ancora, come si legge nella prosa introduttiva, «le attese di partenze che conoscono la speranza e la preferiscono alle certezze».
[Prefazione, in Luciano Pagano, Soluzioni fisiologiche, Montecassiano (MC), Vydia Editore, 2020, pp. 7-9]