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L’11 ottobre ho scritto a mio padre. Il mio lettore, se mai ci sarà, è un curioso, e dunque gli piacerà sapere che la lettera inviata il 12 ottobre u.s. non è ancora arrivata, sicché ho creduto bene di informare per telefono mio padre di ciò che intendevo dirgli. Ho trascurato solo di parlargli della “d” eufonica.
4 novembre 1997
Collegio docenti, ore 14.30 – 18.00. Ne approfitto per comporre Foglia d’autunno. Chi mai potrebbe dire che questa poesia è autobiografica?
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Scrivo per i Versi di scuola, Prigioniero.
7 novembre 1997
C’è da meditare a lungo sulla psicologia di gruppo, ovvero sulle reazioni apparentemente strane di un insieme di persone di fronte ad un’intimazione, ad un ordine ecc.
Mia difficoltà a tenere disciplinata la classe: decine di rimproveri, minacce di note e note sul registro ecc., a nulla valgono. Mando alla lavagna un allievo col compito di segnare i buoni e i cattivi: dove non è riuscita l'”autorità” del professore, riesce la scrupolosa denuncia di un compagno. Mia insipienza, si dirà. Non lo nego. Tuttavia devo dire che questi casi “strani” mi sono già capitati in tutt’altre circostanza.
Scorribande notturne d’estate nelle strade deserte, a mare, di noi giovani sedici-diciassettenni, venti, trenta persone, alla fine degli anni Settanta. Passa un tale in auto: e noi giù urla, gridi, parolacce: si ferma: noi ammutoliamo all’istante: abbassa il finestrino: noi gli chiediamo scusa: ragazzi bene educati, si dirà; nient’affatto: paura, pura e semplice paura. Ma avremmo potuto farlo a pezzi, se fosse sceso dalla macchina. A questo però non abbiamo pensato; abbiamo avuto semplicemente paura di ciò che non conoscevamo, e cioè del motivo che dava tanta sicurezza al personaggio in macchina.
Così oggi, in classe, è accaduto che il nome dell’allievo scritto sulla lavagna da un compagno suscitasse timori indicibili per le punizioni ignote che sarebbero seguite.
8 novembre 1997
Passano le giornate senza che nulla accada. Io ho la chiara sensazione di vivere fuori del mondo, e non perché Dossena sia un posto fuori mano, il che comunque è vero, ma perché la mia situazione o il mio destino mi relegano fuori d’ogni circuito vitale in cui possa realizzarmi a pieno. Penso che sia errato paragonarmi ad una parte piccolissima di un grande meccanismo a me sconosciuto (come ho già scritto in un altra pagina di questo diario), perché questa parte sarebbe pur sempre necessaria al congegno, almeno per il tempo in cui è vitale. A volte, invece, penso che dovrei paragonarmi alla ruota di scorta di un’automobile, che rimane per lungo tempo inutilizzata, e rischia di arrugginirsi o di sgonfiarsi e d’essere, al momento del bisogno, inutilizzabile. I miei lunghi studi, il mio desiderio di sapere, le mie ricerche sembrano occupare un’attesa che rischia di prolungarsi troppo e alla fine di essere vana. Attendo che cosa? o chi? Continuo a vivacchiare, e intanto sento il peso degli anni.
Giovinetto di dieci anni ero in ansia perché nulla avevo fatto di positivo nella vita, e mi consolavo (scusando me a me stesso) dicendo che ero ancora troppo giovane a paragone di chi aveva scritto o pubblicato qualche opera lodevole. Così fino a venticinque anni ed oltre. Ora credo che cominci a essere troppo tardi, che la mia vita sia ormai segnata, e che le illusioni della giovinezza farò bene a dimenticarle, e che non ho più scuse. Ho trentaquattro anni, e non ho prodotto nulla per cui essere apprezzato. Sono padre di una bambina e presto lo sarò di due figli, a cui fra qualche anno dovrò dar conto della mia vita. La lotta deve iniziare; ma, questo è il punto, da dove deve iniziare, e verso quale direzione devo dirigere le mie energie, per quale causa, per quale fine, o, addirittura, contro quale nemico?
Io ho fatto il vuoto intorno a me, ho distrutto la mia vita precedente, abbandonando gli amici, da quando, dopo i venticinque-ventotto anni, ho deciso quale strada intraprendere: le lettere, per cui valeva la pena cambiare tutto, distruggere tutto il passato, non lasciare nulla di vivo. Ho indirizzato tutte le mie energie verso le lettere, a tal punto che ora non so fare null’altro. Ma io non voglio, non posso professare le lettere in questo modo!
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Inizio a leggere l’Autobiografia di quel buon uomo di Monaldo Leopardi. Trovo che sia molto interessante. Essere padre di cotanto figlio non è impresa facile, agli occhi dei posteri. Vedasi Bernardo Tasso a confronto del figlio Torquato. Monaldo tuttavia ha una sua misura, un suo modo d’essere curioso e originale, in fondo, ed è questo che probabilmente più importa, nella vita e nelle lettere.
13 novembre 1997
Ornella si sottopone alla prima ecografia: il feto ha sei-sette settimane e sembra “molto vitale”, secondo le parole del dott. Leidi, ginecologo dell’ospedale di San Giovanni Bianco, lo stesso che ha assistito alla nascita di Giulia. Abbiamo sentito il battito amplificato del cuore del feto e lo abbiamo visto sul monitor, ben chiuso nell’utero materno. Sembra tutto ancora molto lontano e irreale. Giulia, da noi preparata ad assistere all’ecografia, pensava che il fratellino o la sorellina sarebbe nato/a subito. Sua delusione. Ornella sta bene, e tutti siamo contenti.
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Inizio a leggere Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano maggio1995 [cito dalla terza edizione del luglio 1975]. Alle pp. 14-15 leggo: “La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui ][ essi vivono. Questo fenomeno fa sì che la presenza e l’attività degli storici, il cui compito è di ricordare ciò che gli altri dimenticano, siano ancor più essenziali alla fine del secondo millennio di quanto mai lo siano state nei secoli scorsi. Ma proprio per questo motivo gli storici devono essere più che semplici cronisti e compilatori di memorie, sebbene anche questa sia la loro necessaria funzione”.
Mi sembra molto importante il metodo dello storico inglese di considerare come un unico periodo il “trentunennio” che va dal 1914 al 1945, e cioè la prima e la seconda guerra mondiale come episodi del medesimo drammatico ciclo storico.
14 novembre 1997
A grande richiesta degli alunni, visione a scuola del film di Stephen Spielberg, Scindler’s list. Inultimente per giorni e giorni ho detto loro che a me sembra un film diseducativo; la communis opinio è più forte d’ogni buona ragione. Ma che Scindler sia un buon americano travestito da buon tedesco, che la violenza esibita dai pazzi nevrastenici nazisti, pur essendo documentata storicamente, nel film acquisti un sapore hollywoodiano, e dunque appaia gratuita, e finisca col suggerire la falsità della rappresentazione e col negare la storicità delle stragi, tutto questo e altro ancora nessuno potrà togliermelo dalla mente. A me il film pare profondamente, sottilmente diseducativo, esteticamente brutto, per l’incapacità manifesta del regista di tenere celati i suoi artifici e per la rozzezza dei sentimenti che induce a provare. Esso si riduce in definitiva ad una esaltazione mal mascherata delle virtù del capitalista danaroso che, contro la ferocia del nemico (qui i nazisti) col suo denaro compra mille e cento vite umane, e certo di più ne avrebbe comprate se avesse avuto altri soldi. Questi è Scindler: il capitalista americano buono travestito da tedesco eccezionalmente buono.
Ricreare le atmosfere dei campi di concentramento, la violenza, l’odio e gli immani massacri di milioni di individui è come ricreare le atmosfere inumane dell’epoca dei dinosauri, significa tentare la rappresentazione dell’impossibile, dell’inenarrabile, dell’indicibile, ciò che può accadere al prezzo di rozzi e goffi patetismi che non differiscono di molto da un film all’altro. Il Tirannosaurus rex che cerca di mangiare il bambino non è meno odioso del comandante del lager che assassina dall’alto della sua villa gli sfortunati prigionieri. Questi due personaggi suscitano nello spettatore lo stesso sentimento di paura e di rincrescimento, da cui il regista, alla fine, con smaccata catarsi, ci libera con la una conclusione edificante quanto grossolana: la natura non può subire irresponsabili mutamenti genetici; chi salva la vita d’un uomo salva il mondo intero, come recita il Talmud. Ma intanto tutto questo segna la mistificazione della realtà che non prevede nessuna catarsi, poiché la natura è sempre manipolata (essa si automanipola), e perché quel sacrosanto precetto del Talmud è ogni giorno, sempre, ignorato. Tutto questo dovrei insegnare senza alcun intento moralistico, ma pare che l’insegnamento debba avere un intento moralistico per essere recepito. Ma io credo che la morale non abiti nella storia, né nella natura e neppure nella società.
15 novembre 1997
Ho scritto in una pagina di questo diario che all’incirca sui venticinque-ventotto anni ho allontanato tutti gli amici per dedicarmi alle lettere. La mia affermazione appare gratuita dal momento che le amicizie non impediscono certo la professione delle lettere, ma anzi possono stimolarne la passione, spingere chi le professa a rivelare ad altri il significato delle proprie opere, perché queste non vengano ridotte a mero esercizio svolto nel chiuso di uno studiolo. Ebbene, io ritengo che tutto questo sia vero, e che i miei finora non sono stati che degli esercizi di letteratura, di critica, di poesia, che importano nulla e a nessuno perché a nessuno sono noti. Ma credo anche che la fase distruttiva e solipsistica della mia vita sia stata necessaria per la mia formazione perché attraverso di essa ho trovato una strada da seguire, una certa misura nella vita e nella poesia, un certo tono, che altri, se lo riterrà, analizzerà e definirà meglio di me. Io ho distrutto tutto, perché questa rappresentava la mia discesa alle Madri, per usare un’espressione suggestiva, un fare i conti fino in fondo con me stesso e col mondo, senza risparmiare nessun colpo. Dirò di più: io ho dovuto distruggere tutto il mio passato, poiché la lontananza da casa, quello che chiamo con un po’ di vittimismo il mio esilio, mi hanno indotto, come per una reazione orgogliosa tesa a negare l’evidenza della costrizione a cui soggiacevo, a fare io stesso tabula rasa delle mie amicizie, anche dei miei affetti. Ora occorre che io ricostruisca un rapporto positivo col mondo, sopra il mondo, non sotto. Il luogo deputato a questa ricostruzione non può che essere la politica. Riprenderò questo discorso.
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La politica: essa è l’ambito che il letterato deve fuggire come la peste, poiché egli ha bisogno di solitudine, e di quella tranquillità d’animo che gli può consentire l’esercizio della sua attività. La mia politica, dunque, non vuol essere la rappresentazione di interessi di ceto, di classe, o di corporazione, ma la libera espressione del mio pensiero nello scambio di opinioni e di idee con gli altri uomini che il caso o le circostanze mi offriranno. Il mio scetticismo, il mio nichilismo, la mia disillusione giovanile mi hanno portato lontano da tutto ciò, mi hanno indotto a guardare con disincanto e con disinteresse alle vicende che mi accadevano intorno, quasi come se non mi riguardassero affatto. E pensare che fino a diciott’anni leggevo meticolosamente tutti i giornali e organizzavo tutte le assemblee, gli scioperi e i cortei della mia scuola e cittadini! Ora non è a questo che tendo, rievocando il termine politica, poiché se pensassi di essere attivo politicamente (nel senso comune della parola), dovrei pensare anche alla rinuncia all’esercizio delle lettere, il che equivarrebbe al mio fallimento. Io credo invece che la mia politica potrà consistere nel recupero di un rapporto positivo con gli altri, ma questa volta (ecco la novità) senza che io mi aspetti nulla dagli altri, come accade nella mia prima giovinezza. Forse è questa la maturità che spero, credo di aver raggiunto in questi anni di buio, di studio, di sofferenza. Qual è il fine che mi propongo di raggiungere, è presto detto. Penso che solo il recupero di un rapporto positivo col mondo possa restituirmi il sentimento di appartenenza a una comunità di uomini di cui, dapprima il mio nichilismo post-adolescenziale e poi la mia ormai decennale lontananza da casa, mi hanno defraudato.
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Scrive Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, cit., p. 96: “La forza dei movimenti rivoluzionari consisteva nella forma di organizzazione comunista, nel “partito di tipo nuovo” leninista, una formidabile innovazione dell’ingegneria sociale del XX secolo, paragonabile all’invenzione degli ordini monastici e cavallereschi nel Medioevo cristiano”.
Ottimo paragone, direi, capace di far comprendere bene come sia stata strutturata la macchina organizzativa che ha inquadrato nel Secolo breve quasi metà dell’umanità, dirigendone e consumandone aspirazioni sogni e desideri.
17 novembre 1997
La mia cultura, la mia formazione, il mio modo di pensare affonda le radici negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta. Probabilmente questo spiega quanto di ostinatamente utopico vi sia nel mio modo di vedere le cose; e come all’utopia si accompagni un senso di delusione, di impossibilità, di negazione. Io sono venuto formandomi quando il PCI vinceva le elezioni, rischiava il sorpasso, quando il PCI temeva la gestione di quel sorpasso. Ricordo bene che io mi chiedevo con amarezza, dopo ogni vittoria, come mai una forza così grande come il PCI stesse relegata all’opposizione.
Ora sono andati al potere i contestatori, coloro che rimproveravano (e giustamente) al PCI i suoi timori, le sue esitazioni, le sue collusioni col potere della Democrazia cristiana, il compronesso storico ecc. Ora hanno il potere i cinquantenni, che nel ’68 avevano vent’anni, e sono miei fratelli maggiori, e sono fratelli buoni, e vorrebbero far salire tutti sul loro carro, e molti sono già saliti. Costoro non hanno timori, non hanno remore, non sono come il vecchio PCI che rimase sempre all’opposizione e governò solo di straforo; costoro hanno un solo padrone: il popolo: costoro sono demagoghi. Dunque, bisogna stare attenti, perché la demagogia, come sapevano gli antichi, è l’anticamera della tirannide.
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La televisione è lo strumento privilegiato della demagogia. Ecco perché il potere politico può fare a meno dei giornali, può cedere molti luoghi del potere, ma non può fare a meno della televisione, perché attraverso di essa può ingannare il popolo.
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La risonanza data in questi giorni dai telegiornali al problema della pedofilia rivela bene qual sia il suggerimento che i mass media danno a tutti e genitori: non fidatevi di nessuno, fate vivere i vostri figli come reclusi, e che conoscano solo i genitori, i quali faranno bene a dubitare e sospettare persino dei parenti, zii, zie, nonni, nonne, nonché di loro stessi, reciprocamente. Sicché alla fine sarà lei, mamma televisione, l’unica mamma insospettabile, l’unica di cui i genitori si potranno realmente fidare; e allora potranno chiudere a chiave in casa il proprio figlio, e andarsene finalmente al cinema.
18 novembre 1997
Leggo Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve, cit., e lo trovo ben scritto e appassionante.
19 novembre 1997
È giunta la prima neve, non molta, per la verità, ma fine e persistente, ed ha imbiancato tutto il paesaggio. I ragazzetti (alcuni miei allievi), come in un racconto di Dickens, hanno festeggiato con urla sotto la mia finestra lanciandosi palle di neve.
Stamani siamo stati a San Giovanni Bianco, in ospedale, per le analisi di Ornella. Conosceremo l’esito venerdì prossimo (oggi è mercoledì, mio giorno libero).
Nel pomeriggio ricopio il mio diario del 1985. Non lo trascrivo, ma lo riscrivo, perché in molti luoghi il mio modo di scrivere mi appare, a tredici anni di distanza, scorretto e improprio, ed in alcuni casi, il pensiero addirittura oscuro. Mi dico che per scrupolo filologico non dovrei fare una cosa simile, ma dovrei limitarmi a ricopiare fedelmente quanto scrissi, come fanno i severi copisti editori di opere. In realtà, questa sarebbe nel mio caso una vera assurdità, poiché io con i miei materiali passati opero come scrittore, non come filologo, nella convinzione che qualunque opera non sarà mai scritta una volta sola, ma sarà soprattutto riscritta, più e più volte. Mi propongo forse di rendere pubblico il mio diario? Il mio proposito, se anche esistesse, non conterebbe nulla. Fatto è che io quelle cose le ho scritte, ed ora le sto riscrivendo perché, anche chiarendo il mio pensiero passato (in questo consiste la mia riscrittura), trovo lumi nel presente, e questo mi appaga.
22 novembre 1997
Ieri abbiamo ritirato in ospedale l’esito delle analisi di Ornella. Tutto procede per il meglio. Lunedì 24 novembre, alle ore 16.00 abbiamo un appuntamento con il dott. Leidi per la visita ginecologica.
Faccio vedere a scuola un film di Luis Malle, Arrivederci ragazzi, contrapponendolo a Scindler’s list. Ai ragazzi è piaciuto, perché indubbiamente è un bel film; solo, alla fine uno di loro mi ha chiesto quale fine avrebbe fatto il protagonista ebreo arrestato dai nazisti. Voleva che gli dicessi che sarebbe stato ucciso. Ne deduco che i miei allievi sono vampiri, assetati di sangue.
Dopo due mesi e mezzo di lavoro, ricevo lo stipendio comprensivo degli arretrati. Se non avessi avuto una piccola scorta di denaro, avrei dovuto far debiti. Ecco in che condizione sono costretti molti, moltissimi dei cosiddetti “educatori”. Sostengo a spada tratta che ogni riforma della scuola deve passare attraverso la fine di queste situazioni umilianti, e che ogni discorso sulla didattica, sulle strategie di recupero, sull’aggiornamento ecc, sono inutili, se il docente non può vivere serenamente (dal punto di vista economico).
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Ricopio dalla rubrica Scritta appena ieri del Corriere della sera di qualche giorno fa questa frase che mi sembra molto veritiera:
“Io credo che il singolo individuo si senta minacciato dagli altri e per questa ragione abbia paura di essere toccato dall’ignoto e che cerchi di proteggersi in ogni modo da un contatto con l’ignoto, creando attorno a sé delle distanze, cercando di non avvicinarsi troppo agli altri esseri umani. Tutti gli uomini hanno avuto questa esperienza di cercare di non toccare gli altri, del fatto che è sgradevole essere urtati da estranei. Nonostante tutte le misure precauzionali l’uomo non perde mai completamente la paura del contatto. Ed ecco che bisogna constatare il fatto molto sorprendente che nella massa l’uomo la perde del tutto. Si tratta di un paradosso veramente importante. L’uomo si libera dalla propria paura del contatto solo quando in una massa si trova accanto ai propri simili in modo fitto, quando da ogni lato è circondato da altri uomini, così che egli non può assolutamente più sapere chi è che lo opprime. In questo momento egli non teme più il contatto con gli altri. È il capovolgimento della sua paura del contatto; e io credo che una delle ragioni per cui gli uomini si fanno volentieri massa, si ritrovano volentieri in una massa, è il sollievo che essi provano per questo capovolgimento della paura del contatto”.
Elias Canetti a Theodor W. Adorno, 1962, in Oltre la politica, Bruno Mondadori.
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Eric J. Hobsbawm ne Il secolo breve, cit., p. 279 si chiede: “Dunque chi fu responsabile della Guerra fredda?”. E risponde a p. 280: “(…) il tono apocalittico della Guerra fredda (…) proveniva dall’America”, poiché “in gioco non era la minaccia ipotetica di un dominio comunista mondiale, ma il mantenimento della supremazia statunitense”.
Gia a p. 277 aveva scritto: “Diversamente dall’URSS, gli USA erano una democrazia. Purtroppo bisogna dire che tra i due contendenti era proprio la democrazia americana la più pericolosa”.
Il che valga a sfatare il pregiudizio per cui la democrazia sia contraria alla guerra.
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Commentando la morte del generale La Horz durante l’assedio di Ancona nel 1799, Monaldo Leopardi scrive parole nelle quali puoi avvertire un che di autobiografico, scritto a mo’ di autogiustificazione per il proprio operato onesto anche se non geniale, di uomo sedentario che non annovera tra le sue virtù l’eroismo. Dice il padre di Giacomo: “Ebbe genio e coraggio grandi, ma bisogna averli impiegati bene assai per non abbrividire all’aspetto di quella morte, e il fine per lo più tragico degli avventurieri persuade che non sono infelici coloro ai quali non si è presentato un campo vasto per ispiegare il proprio ingegno“. [Cito dalla sua Autobiografia, Edizioni dell’Altana, Roma, 1997, p. 192. Il corsivo è mio].
24 novembre 1997
Come ho già anticipato, oggi Ornella si è sottoposta a una nuova ecografia e alla visita ginecologica del dott. Leidi. Il feto (ma che brutta parola per designare mio figlio/a!), di settimane 9,2, misura cm. 2,61, presenta già una conformazione fisica perfettamente riconoscibile: testa, braccia, gambe ecc. Tutto procede regolarmente. Il prossimo appuntamento con il dottor Leidi è fissato nei primi giorni del nuovo anno dopo l’Epifania.
Giulia, intanto, cresce e impara molte cose. Ha imparato perfino le lettere e i numeri della tastiera che io utilizzo. Quando mi metto a scrivere, viene a sedersi su di me, e chiede di scrivere anche lei. Io pronuncio una lettera dopo l’altra in ordine alfabetico, associando a ogni lettera un nome a lei familiare. Per esempio A di albero, B di balena, C di casa, ecc. Giulia ricorda in questo modo la tastiera a memoria; e dire che ha solo due anni e sette mesi.
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La politica è il regno dell’opinabile, del mutevole, del precario. Io invece ricerco la verità, la certezza, la stabilità. Dunque, indubbiamente la politica non fa per me. Eppure, seguo con molta attenzione il dibattito politico, leggendo per esempio gli articoli degli opinionisti del “Corriere della sera”, Stefano Folli in testa. Mi affascina di costoro proprio la capacità di fermare coll’inchiostro in una colonna di giornale, che per sua natura vale un sol giorno, le fluttuazioni della politica, le onde mutevoli del dibattito in corso, i ghirigori e gli arabeschi dei moderni tribuni, dotando questo mondo liquido e finanche aereo di un senso, ahimè, destinato presto a svanire. Il loro compito sembra simile a quello del metereologo che racconta la situazione del tempo, illustrandone la carta su cui alta e bassa pressione si fronteggiano, determinando la situazione metereologica della nostra presente o futura giornata. In questo senso, il commentatore politico ci avverte del clima politico che stiamo vivendo e che vivremo nell’immediato futuro, ma nulla ci può dire di quel che accadrà nel regno della politica tra due o tre giorni, poiché tutto è destinato a mutare. Eppure, l’importanza della sua funzione è notevole, poiché noi viviamo, o ci illudiamo di vivere, oltre che nella dimensione eterna (per chi ha una fede), anche in quella che dura lo spazio della vita d’un uomo (settanta, ottanta, novant’anni), e in quella decennale (per chi, sfortunato, ha un Bot), annuale (scandita dai festeggiamenti di fine anno), stagionale (le quattro stagioni), e mensile (lo stipendio), settimanale (la domenica), fino a giornaliera, in cui le opinioni di chi ci informa fungono da faro, sappiamo bene quanto fallace. Sicché, alla fine del giorno, valga ancora la lettura delle fantasmagorie dell’Orlando furioso, fallace anch’essa, ma all’insegna del classico.
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Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve, cit., p. 341: “Il mutamento sociale più notevole e di più vasta portata della seconda metà del secolo, quello che ci taglia fuori per sempre dal mondo del passato, è la morte della classe contadina.”
26 novembre 1997
Ho scritto una poesiola che Giulia dovrebbe imparare a memoria e recitare durante il banchetto di Natale. S’intitola Poesia di Natale.
27 novembre 1997
Ho telefonato a Enrico, mio vecchio compagno d’università. Non lo sentivo da più di un anno. Suo figlio ha compiuto sei anni. Mi ha spedito un suo racconto che troverò a casa, a Galatina, quando tornerò per le vacanze natalizie. Forse gli manderò le mie poesie, una volta che avrò terminato di sistemarle. Mi sono impegnato a dirgli che cosa penso del suo racconto, come ho già fatto altre volte.
29 novembre 1997
Ho trascorso questi ultimi giorni intento a riordinare in sezioni le mie poesie, previa selezione di alcune di esse che mi sembrano leggibili. Ho intitolato le sezioni in questo modo: Poesie dei tramonti e delle sere, Poesie delle notti, Poesie d’amore; Poesie della disperazione; Nuovi sargofaghi; Versi urbinati; Marine; Versi di scuola; Versi militari; Poesie dell’attesa; In Val brembana; Congedo.
Non escludo che qualche altra sezione possa essere aggiunta, né queste che ho finora ordinato sono definitive, poiché molte poesie, pur soddisfacendomi, non le ho incluse in nessuna delle sezioni elencate, e del resto è possibile che la mia vena poetica non sia del tutto esaurita e che quindi col tempo si aggiunga qualche altra poesia a quelle già scritte in passato.
Ogni poesia è seguita dalla data dell’anno di composizione, sicché poesie del 1986 convivono nella stessa pagina con poesie scritte nel 1997, cioè undici anni dopo. Le unisce il tema: la sera, il tramonto, la notte, la disperazione, l’amore, ecc.. Il lettore, se vorrà, dovrà ricostruire da sé l’itinerario poetico seguito, e comunque avrà la possibilità di comparare poesie sullo stesso argomento scritte in età differenti. È inutile dire che questa operazione serve innanzitutto a me; e, del resto, chissà se mai le mie poesie vedranno la luce degli occhi di un lettore. Sto chiarendo a me stesso il senso del mio lavoro poetico che ormai percorre l’arco di un quindicennio, dalle prime prove dei primi anni Ottanta che, non soddisfacendomi, ho in gran parte strappato, alle poesie dei miei giorni che strappo o conservo, a seconda dei casi. Nelle poesie che sto sistemando sono rappresentati tutti i momenti fondamentali della mia esistenza, dai tempi dell’università, a quelli del servizio militare, dal monotona vita scolastica ai giorni trascorsi in riva al mare durante le vacanze estive, e soprattutto quelli che io chiamo i miei momenti contemplativi, nei quali sembra che la verità del mondo affiori per lasciarsi cogliere nella sua semplice essenza. La mia poesia è autobiografica nel senso completo della parola. E di chi io potrei parlare, se non di me stesso? Io non ho esperienza che di me stesso, e credo tuttavia non che la mia esperienza sia esemplare né che sia possibile additarla a modello, ma che solo la poesia che noi abbiamo vissuto possa essere vera poesia. I due termini vivere e poetare rimandano certamente a due realtà autonome, ma questo non vuol dire che siano antitetici e che tra le due realtà non ci sia comunicazione. Anzi, è vero l’opposto. La poesia è fatta di eventi che diventano parola, di fatti occorsi per nostra volontà o per puro caso che diventano frase, di casualità che diventano necessità nella scrittura poetica.
Seguendo il percorso personale, la mia poesia spazia nei diversi canti d’Italia, da Galatina a S. Giorgio a Cremano, dalla Brianza alla Val brembana, dalle spiagge del Salento alle colline marchigiane di Urbino. Mi rendo conto che il paesaggio è addirittura assente nella mia poesia. La mia poesia è analitica e conoscitiva, nel senso che vi si analizzano momenti particolari dell’esistenza, e questa analisi mi consente di capire meglio il mio essere nel mondo. Se qualche volta ho indicato i luoghi della mia poesia è solo perché amo a distanza di tempo rammentarli, e così anche le date poste in calce alle poesie mi riportano all’anno della composizione, alla situazione determinata in cui nacque l’idea poetica. Al lettore comune diranno forse ben poco, e giustamente, dal momento che una data non serve alla comprensione del senso fondamentale della poesia.
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Si dice del poeta che ha una vena poetica, si usa cioè un termine minerario, del tipo vena d’oro, d’argento, ecc., per designare la preziosità del rinvenimento poetico. Come l’oro, l’argento ecc., così anche il verso si rinviene, e solo dopo faticoso scavo. Preziosa come l’oro, l’argento, ecc., dunque, è la poesia. Peccato che spesso il termine poeta si usi in contesti ironici.
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Perché pochi leggono la poesia? Perché spesso la poesia è illegibile, è fatta e pubblicata proprio per non essere letta, a dispetto di quanti vorrebbero cimentarsi nella lettura. Mi chiedi perché? Perché è una cosa troppo preziosa, che non tutti possono leggere, in ottemperanza alla legge della disuguaglianza umana. Su cento dame addobbate con luccicanti gioielli, sta certo che novantanove portano strass e bigiotteria, una sola diamanti e oro. Così la società si dota di novantanove poetucoli che con le loro scemenze nauseano i malcapitati, e di un solo vero poeta conosciuto a pochi o a nessuno.
Ma il mercato librario per realizzare meglio il suo fine che è quello di vendere, non dovrebbe proporre solo veri poeti? Ebbene non è così, perché il mercato non si occupa di poesia, e viceversa.
30 novembre 1997
Ho continuato anche oggi a riordinare le mie poesie.
Rileggo quanto ho scritto ieri, e mi convinco che è necessario aggiungere qualcosa.
Che la poesia sia un lavoro artigianale che si nutre di fatica e di esercizio, che nessuno mai abbia pensato di impiantare un’industria per la fabbricazione della poesia, come si impianta una fabbrica di scarpe o di ombrelli, credo che siano verità accolte da tutte le persone di buon senso. La poesia è prodotta fuori da ogni mercato, ed è pertanto irrispettosa delle regole del mercato. La legge della domanda e dell’offerta, se è valida per chi costruisce scarpe o ombrelli, non conta nulla per chi scrive versi. Si potrebbe obiettare che anche chi scrive versi vorrebbe veder venduto il suo libro nelle edicole o nei supermercati o nelle librerie; e questo è certamente vero. Ma ciò non toglie che la poesia non è prodotta dal e nel mercato, bensì dal poeta che agisce ai margini del mercato. Il poeta è un consumatore e un lavoratore come gli altri uomini, è soggetto attivo e passivo del mercato, ma in quanto poeta esso è stato e sempre sarà fuori da ogni mercato, poiché la sua attività di poeta si svolge fuori dall’ambito in cui si muovono le altre merci. La riprova di questa marginalità della poesia ci è fornita dalla considerazione che volgarmente la circonda; a questo proposito si può benissimo ripetere quanto affermarono gli avventori dell’osteria milanese sul conto di Renzo ubriaco, quando dissero che era un poeta, in senso ironico e dispregiativo.
La poesia si potrebbe caratterizzare come una metattività, e questo per due motivi: in primo luogo, perché non è, come avrebbero detto gli uomini del Medioevo, un’attività lucrativa; in secondo luogo, perché è proprio della poesia la riflessione generale sulle attività dell’uomo, sull’essere dell’uomo nel mondo. Omero non fece la guerra di Troia, ma la cantò. La poesia sembre fatta apposta per coloro che riescono a ritagliare per essa uno spazio altrimenti inutilizzabile. Il mercato certamente interviene a far proprio il lavoro del poeta, con la pubblicazione dei versi, determinandone al fama, cioè il successo o l’insuccesso.
Qual è il fine della poesia? Potremmo rispondere che il fine della poesia è quello di dire la condizione dell’uomo, ma questa risposta ci sembra alquanto vaga. Il fine della poesia è nel provare al lettore che gli eventi della vita possono essere ancora tradotti in espressioni dotate di senso, in un linguaggio particolare che è quello della tradizione poetica. Difatti anche un’opera di narrativa o di filosofia potrebbe fornirci questo senso della vita, ma in nessun caso potrebbe fornircelo con il linguaggio poetico che per l’appunto – e non paia questa un’inutile ripetizione – è proprio solo della poesia.
Non è importante dunque il messaggio in sé, bensì la volontà ferma, determinata, indiscutibile di tramandarlo in quella particolare forma che è la poesia.
Naturalmente, aggiungiamo che il vero poeta deve augurarsi che i propri versi vengano diffusi attraverso il mercato, perché questo è l’unico modo per accedere agli occhi del lettore. Ma il lettore dovrà essere criticamente acuto, se non vorrà scambiare i giochi di parole spesso oscuri ed insignificanti con la luce della poesia. L’oscurità della vera poesia nasce sempre da un eccesso di luminosità, mai dai contorcimenti nevrastenici degli imbrattacarte. E probabilmente un tal lettore c’è già, dal momento che di libri di poesie se ne vendono pochi, con qualche salutare eccezione.
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A proposito degli extracomunitari che il decreto Prodi sta ricacciando dall’Italia, io mi sento di dire che la nostra civiltà è degna erede del più brutale fascismo e nazismo. Un uomo che fugge dalla propria patria, agisce come un disperato senza terra e senza futuro, come un infelice che di fatto non ha più una patria. Respingerlo non è da paese civile, ma da cinici difensori del proprio egoistico benessere. I cattolici soprattutto dovrebbero mettersi la mano sulla coscienza, perché vedono e tacciono. E dovrebbe mettersi la mano sulla coscienza anche la sinistra italiana, la sinistra dell’Ulivo, buonista e piagnona!
Ci sono migliaia di persone che non hanno neppure un lembo di terra dove posare i piedi, e vengono ricacciate come lebbrosi dai governi delle nazioni civili, quando, invece, leggo su “La Repubblica” di oggi, p. 15, i Benetton posseggono in Patagonia 837 mila ettari di terra.
Ho scritto la poesia dal titolo Umanità.