di Gianluca Virgilio
Novembre
3 novembre 1997
Nei momenti di stanchezza, quando la fatica del giorno trascorso ancora mi consente di pensare al senso della mia vita in piena lucidità, penso talvolta, e forse con estremo realismo, che la mia vita non sia altro che una piccolissima parte di un gran meccanismo che lavora incessantemente per uno scopo a me sconosciuto; e dunque che, quando la mia stanchezza non avrà più il conforto di una notte di riposo, allora quel gran meccanismo non si incepperà, ma senza alcun problema il pezzo usato e usurato sarà espulso e uno nuovo ne prenderà il posto immancabilmente.
Questo pensiero talvolta mi sorprende nel mio giorno libero, per esempio durante la spesa settimanale in un supermercato; tra mille persone intente alla stessa operazione, è facile pensare che la mia sia la condizione dello schiavo moderno, che lavora tutta la settimana, e approfitta del giorno di libertà per procurarsi il più elementare e necessario tra i beni che occorrono alla sopravvivenza: il cibo.
E dire che nelle scuole si insegna che la schiavitù è terminata nel secolo scorso!
Che proprio questa condizione mi accomuni a tutti gli altri esseri umani, non può essermi di conforto, ma può indurmi all’esercizio della rassegnazione, premessa per il conseguimento della serenità d’animo.
Non sembri strano che io non prenda nemmeno in considerazione l’idea di poter indagare qual sia il gran meccanismo, né lo scopo per il quale è stato ordinato ad operare in tal modo. E’ così misera e piccina la nostra condizione che questo non è possibile. Noi possiamo solo registrare i nostri pensieri, che per forza di cose sono slegati dal contesto a noi sconosciuto. La nostra conoscenza è limitata alla nostra esistenza. Probabilmente è proprio questa limitatezza che determina l’impossibilità di sfuggire alla condizione di moderni schiavi.