Forse per “L’ordine del tempo”: il saggio in cui si scopre che uno scienziato qualche volta si lascia sorprendere da pensieri comuni e dica, per esempio, che come funziona il tempo ancora non lo sappiamo veramente, che la sua natura resta il mistero più grande, che strani fili lo legano ad altri misteri irrisolti: la natura della mente, l’origine dell’universo, il destino dei buchi neri, il funzionamento della vita. Forse non c’è un solo istante in cui non ci accada di pensare al tempo che abbiamo avuto, a quello che abbiamo, a quello che speriamo di poter avere; ci accade così, spesso senza nemmeno un’occasione consapevole; ci accade perché in fondo siamo un impasto di tempo, perché ad esso dobbiamo dare conto di quello che facciamo o non facciamo, di quello che siamo, che non siamo, che vorremmo essere, oppure non essere. Adoriamo il tempo e ne abbiamo terribilmente paura; a volte ci sembra di avvertirne la seduzione e a volte la sua ingiuria. Pensiamo passato presente futuro in ragione del nostro essere, del nostro esistere. Talvolta si presume che un fisico, uno scienziato, pensino le cose, in questo caso pensino il tempo, soltanto quale oggetto del loro cercare, non come gli altri esseri umani, quelli piccoli piccoli. Allora ci si meraviglia, quasi, che in esergo ad ogni capitolo, Rovelli ci metta dei versi tratti dalle Odi di Orazio, che ad un certo punto faccia riferimento al Qohelet, o a Rilke, ad Hofmannsthal, a Buddha, a Proust.
Rovelli ci racconta che, in fondo, il tempo è quel mistero che ci circonda, in cui siamo sprofondati, che noi stessi siamo, che cerchiamo di indagare con diverse maniere, con una scienza o con una poesia, e che tutte le volte che si svela appena una parte minuscola del mistero, si resta affascinati dalla bellezza intuita, sospettata, di tutto quello che rimane da scoprire, che forse non si potrà mai scoprire completamente. Una delle poche certezze che si hanno sulla materia del tempo è che non è mai esistito generale, condottiero, guerriero, non c’è stata armata, esercito, flotta, falange d’urto o battaglione di arditi, che siano stati in grado di vincere una battaglia contro il tempo. Allora tanto vale tentare d’ingannarlo. Con la consapevolezza che anche il tentativo dell’inganno non è altro che una misera illusione. Uno pensa che lo scienziato che si confronta con il mistero del tempo, lo faccia soltanto con una razionalità rigorosa. Poi scopre che non è questo l’unico modo, e si conforta. Arriva all’ultima pagina del libro di Rovelli e si accorge che un fisico si ritrova in accordo con Agostino, con la sua affermazione che il canto è consapevolezza del tempo; che il canto è il tempo. Che la sorgente del tempo è nel canto del violino della “Missa Solemnis” di Beethoven. Poi riprende Qohelet, e scrive: “Si rompe il cordone d’argento, la lucerna d’oro s’infrange, si rompe l’anfora alla fonte, la carrucola cade nel pozzo, ritorna la polvere alla terra”. Le ultime righe sono sue. Dicono: “E va bene così. Possiamo chiudere gli occhi, riposare. E tutto questo mi sembra dolce e bello. Questo è il tempo”.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 11 agosto 2024]