1) Il primo argomento, ormai superato, ma che merita di essere ricordato, faceva riferimento al fatto che il Reddito di Cittadinanza disincentiva l’offerta di lavoro (si ricorderà la metafora dei “divanisti”). L’indagine empirica più recente a riguardo è di Confartigianato, che stima l’aumento del labour shortage in Italia dell’8% fra il 2022 e il 2023. Il reddito di cittadinanza è stato abolito e il problema, dunque, non solo non si è risolto, ma si è accentuato.
2) Il secondo argomento rinvia alla celebre espressione del ministro Tommaso Padoa-Schioppa nel 2009 dei giovani “bamboccioni”, ridefiniti dal ministro Elsa Fornero nel 2012 “choosy” (eccessivamente esigenti). Anche questo argomento è fuori fuoco, almeno nel caso italiano e per quanto riguarda il settore privato. Per comprenderlo, partiamo dall’evidenza empirica, riferita al nostro mercato del lavoro. I salari reali, in Italia, si sono ridotti del 2.9% dal 1990 al 2020, su fonte ISTAT, unico caso nell’ambito dei Paesi OCSE. a fronte del +33% della Germania, del 31% della Francia e del +6% della Spagna. La riduzione della quota dei salari sul Pil, nel nostro Paese, è stata la più alta nell’area OCSE (12% dal 1970 al 2013), seconda solo alla Spagna (14%). La compressione dei salari dei lavoratori italiani è stato anche l’effetto della crescita relativa dell’incidenza di settori produttivi poco sindacalizzati (per esempio, il turismo, soprattutto nel Mezzogiorno), e, dunque, con riduzione del potere contrattuale del lavoro anche in altri settori. In Italia, è elevata e crescente la percentuale di lavoratori con contratto a tempo determinato sul totale dei lavoratori dipendenti, che è passata dal 10% del 1993 al 17% del 2022. C’è anche da considerare, a riguardo, che i lavoratori dipendenti italiani lavorano mediamente più ore dei loro colleghi dei principali partner europei (sono impegnati più ore dei francesi, dei tedeschi e degli olandesi). Non è difficile comprendere che bassi salari e cattive condizioni di lavoro (anche connesse a un’ampia diffusione dell’economia sommersa, nel confronto con l’Unione Europea) scoraggiano la ricerca del lavoro e incoraggiano le migrazioni: ISTAT stima che oltre un milione di italiani sono emigrati negli ultimi dieci anni, soprattutto nella fascia d’età compresa fra i 20 e i 34 anni. È interessante osservare che, leggendo il fenomeno in una dinamica di lungo periodo, al calo dei salari, in Italia, ha corrisposto il calo dei tassi di partecipazione, passati dal 40,8% del 1993 al 23.8% del 2020, su fonte ISTAT. A destituire di fondamento la teoria dei bamboccioni c’è, poi, anche una duplice constatazione. Innanzitutto, sono le stesse imprese a richiedere esperienza acquisita prima dell’assunzione e soprattutto sono proprio le imprese italiane a praticare il labour hoarding (il “tesoreggiamento del lavoro”), tendendo a preferire, come evidenziato nell’ultimo Rapporto ISTAT, lavoratori over 50, il cui tasso di occupazione è, infatti, in aumento. In secondo luogo, come rilevato da Eurofound, la maggiore carenza di personale si ha nella sanità e nei settori coinvolti nella transizione verde e digitale: la prima, in Italia, è prevalentemente pubblica, le seconde sono marginali nella nostra economia.
3) Confindustria, infine, fa dipendere il labour shortage dalla denatalità. Se è vero che il fenomeno innegabilmente esiste, è anche vero che non solo, in linea teorica, il problema – ben presente alle Istituzioni europee – potrebbe essere attenuato semplificando le procedure di riconoscimento dei titoli di studio degli immigrati e potenziandone l’inclusione. Peraltro è proprio ciò che le Istituzioni europee raccomandano a riguardo, ovvero la piena attuazione di misure di regolarizzazione, rinviando al “The New Pact on Migration and Asylum” del 2020.
4) L’insistenza governativa sul mismatch qualitativo è basata sulla convinzione che il nostro sistema formativo sia inadeguato per l’occupabilità (la recente riforma Valditara asseconda questa richiesta). Questo argomento tace un’evidenza: la gran parte dei nostri imprenditori ha un titolo di studio basso (quasi il 40% ha solo la licenza media inferiore) e che, come rilevato da ISTAT, i datori di lavoro poco istruiti tendono a preferire lavoratori poco istruiti. Contano, poi, le reti relazionali per l’allocazione dei posti di lavoro e la carenza di personale, nel caso italiano, deriva anche dal basso tasso di partecipazione delle donne.
[“La Gazzetta del Mezzogiorno”, 11 agosto 2024 ]