La «ricerca impossibile» di Carmelo Bene

Già dai tempi del Caligola (1959) e delle prime esibizioni – da Addio porco al Cristo 63, attraverso Amleto, Pinocchio ei versi di Majakovskij, sui quali ritornerà più volte nella sua carriera – Bene sviluppa una ricerca sperimentale frenetica, immediatamente attenzionata da osservatori del calibro di Flaiano e Arbasino, che presuppone un «rapporto stretto, inestricabile, fra arte e vita» e che non si limita solo a destabilizzare il linguaggio teatrale ma si estenderà ben presto anche a quello letterario (Nostra Signora dei Turchi nasce dapprima come romanzo, nel ’66) cinematografico (i cinque film girati fra il 1968 e il ’73),  radiofonico (le Interviste impossibili, 1973,e una Salomè, 1975) e televisivo (un Amleto e Bene! Quattro diversi modi di morire in versi, entrambi registrati nel 1974).

È proprio a questa altezza che avviene, secondo Petrini, un cambio di passo nel percorso artistico di Bene, nel frattempo diventato, da ragazzo terribile, Maestro riconosciuto del teatro italiano e internazionale, complici anche i decisivi incontri, in Francia, con Klossowski e Deleuze.

Da allora in poi la recitazione sarà intesa da Bene come «momento propriamente di poesia, dunque per eccellenza musicale». «Nel suo lavoro», continua Petrini, «si osserva ora con maggior frequenza il prevalere delle sottolineature liriche e simbolistiche sul carattere parodico e grottesco»; lo stile si fa meno conflittuale e provocatorio; l’attore-artifex, sempre più spesso da solo sul palco, ha ora come unica ‘compagnia’ un portentoso sistema di amplificazione ­– e un pubblico al seguito – degno di una rockstar.

Sono gli anni delle ricerche sulla phoné e della «svolta concertistica», che condurranno alla stagione dell’Hyperion (una rara registrazione è annunciata a maggio per l’etichetta Tactus), del Manfred, dell’epica Lectura Dantis di Bologna di fronte a centomila persone. E poi ancora Majakovskij, Leopardi, Campana…

Una ricerca sulla musicalità della voce, e sull’impossibilità della rappresentazione, che porterà, negli anni Ottanta, alla raggelante poetica della «macchina attoriale», applicata in lavori come Lorenzaccio (1986)e La cena delle beffe (1989), quindi al decennio conclusivo della sua attività, che si contraddistingue, secondo Petrini, per uno stile più rabbioso e cupo.

Passando per il «trionfale fallimento» (l’ossimoro è di Edoardo Fadini) della Biennale di Venezia 1988-’90, ulteriore sfida alla ‘società dello spettacolo’. Paradossalmente lanciata dall’interno di una delle sue cattedrali più imponenti. Del resto, come spiega Bene: «Bisogna impugnare la contraddizione, bisogna vivere soltanto la contraddizione e vivere solo la crisi».

[«Repubblica Bari», 19 maggio 2022]

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