Diario dossenese (ottobre 1997-giugno 1998) 1. Ottobre

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Siamo giunti oggi, una giornata magnifica, limpida e serena, senza foschia, con l’auto carica di bagagli. Ci siamo fermati, prima di giungere a Dossena, provenendo da San Giovanni Bianco, sul ciglio della strada per far riprendere Giulia che soffre di mal di auto, e per ammirare dall’alto il magnifico paesaggio della valle del Brembo, tra San Giovanni e San Pellegrino. Silenzio tutt’intorno, e suono di campanacci dai prati: le mucche pascolavano beate. Abbiamo respirato a pieni polmoni. Eravamo contenti. Io sentivo e sento tuttora che sta per iniziare una nuova avventura. Che tutto questo sia di buon auspicio?

2 ottobre 1997

Prima ora di lezione, in prima media: faccio leggere all’allievo X il riassunto scritto a casa, tenendomi il quaderno sotto gli occhi, e non posso fare a meno di interrompere ripetutamente l’allievo per correggerlo. È il mio compito, per il quale sono pagato, ma lui dà segni di impazienza, pensa che io sia un pedante, che a me nulla vada bene, che lo giudichi un ignorantello. Io non penso tutto questo e glielo dico apertamente, ma vedo che è inutile. Allora sorvolo su molti errori ed improprietà lessicali o espressive nella seconda parte del riassunto, e lo mando a posto dandogli un BUONO. Non è contento, e lo sento mugugnare a bassa voce che il professore avrebbe dovuto leggere più attentamente la seconda parte del riassunto. Faccio finta di niente.

Ripenso al mio rapporto con mio padre, quando, dopo avergli sottoposto le mie scritture (e non vedevo l’ora di farlo), mal sopportavo di vedermi correggere ad ogni parola, ad ogni giro di frase. Adesso sono io nel ruolo di mio padre e, come lui, ho usato infine tutta l’indulgenza di cui sono capace. In verità, che cosa avrei dovuto fare?

Nel pomeriggio giro nei boschi di Dossena con Ornella e Giulia, accompagnati da tre baldi giovani di terza, orgogliosi del loro ruolo di guide fidate. Ho dovuto vincere la mia esitazione, prima d’accettare l’invito degli allievi, e poi gli scrupoli di mia moglie. In realta gli scrupoli erano anche miei, tant’è che ho voluto farmi accompagnare da tutta la famiglia. Potrebbero nascere pettegolezzi, voci ecc., pensavo, specialmente in un paesino piccolo come Dossena. Abbiamo raccolto castagne, che ora (ore 19.30) Ornella sta cucinando. Giulia è felice, come sempre, d’essere in compagnia. Mia figlia è gaia, e il nome che le abbiamo dato sembra fatto apposta per lei.

Penso alla storia che vorrei scrivere: il titolo dovrebbe essere Il lupo di Dossena; dovrebbe parlare di una improvvisa e sconvolgente quanto strana – poiché i lupi in queste zone sono estinti da tempo – apparizione d’un lupo nell’inverno 1997-98 a Dossena, e delle conseguenze che questo evento porta con sé. Il cuore del racconto dovrebbe consistere nell’incontro del lupo con un ragazzo o con un gruppo di ragazzi; e poi con il mondo degli adulti. Già da ora avverto il pericolo di scadere nel patetico  nel naturalistico-sentimentale.

Ho scritto l’inizio, e mi sembra promettere bene.

4 ottobre 1997

Visiterò la locale chiesa madre dedicata a San Giovanni Battista che oggi ho appena visto, poiché il parroco stava chiudendo. Un tempo Dossena era luogo di transito dei mercanti (via mercatorum), e centro florido. Ne rimane traccia nei dipinti del Veronese, di Rizzo da Santacroce, di Paolo Rubens, di Palma il Vecchio e di altri che adornano la chiesa.

Nel tempo libero ricopio un mio diario dell’ ’84, e mi riscopro giovane e ancora illuso, per quanto talvolta dissimuli il disincanto d’un uomo vissuto. Chissà se tra tredici anni potrò rileggermi, e chissà quale impressione ne ricaverò. Allora ero uno studente, oggi lavoro in modo precario da dieci anni e non ho ancora finito di studiare. Sono diventato marito e padre. Molta acqua sembra essere passata sotto i ponti, ma io ancora mi sento insoddisfatto e per nulla realizzato. Mi sembra di vivere ai margini del mondo associato, dove nulla può essere intrapreso, ed ogni iniziativa è destinata al fallimento. Non credo più in nulla, il mio nichilismo e il mio disincanto sono totali. Non credo che il mio insegnamento abbia (che ad esso si dia) alcun valore, e penso anzi che l’insegnamento sia il lavoro destinato ai falliti. Ho speso anni della mia vita a studiare un argomento in cui credo di aver raggiunto una verace conoscenza, ma tutto ciò non interessa nessuno. Ho scritto poesie, che nessuno legge, che nemmeno mi sento di proporre a qualcuno perché siano pubblicate. Nell’odierna babele non sarebbero che una voce tra infinite voci. Ho riunito il lavoro ventennale di mio padre in un’opera organica e coerente sulla città di Galatina, ma non si riesce a trovare un editore che voglia pubblicarlo, sicché probabilmente non se ne farà nulla. Insomma, non voglio fare il piagnone, ma credo veramente che a questo mondo bisogna avere le strade aperte oppure tanta fortuna; e a me mancano le une e l’altra.                 

Continuo il racconto Il lupo di Dossena.

7 ottobre 1997

Durante il corso d’aggiornamento noioso nella scuola media di San Pellegrino, tenuto da una pedagogista bruttina ed insignificante, ho scritto alcune parole che possono tornare utili per il racconto. È il momento in cui il lupo compare al ragazzo di Dossena.

La bruttina mi ha ispirato anche una gaia poesiola che intitolerò Botta e risposta

In questo modo cerco di sopravvivere.

10 ottobre 1997

Dario Fo è premio Nobel per la Letteratura. Indipendentemente dal giudizio sull’autore, che non conosco (se non in quanto attore), penso che il vizio di fondo consista nel premiare qualcuno che sia riconosciuto da un grande pubblico, che sia televisivamente presente sulla scena massmediatica. Chi è Luzi, che, pur vivendo in solitudine, c’è rimasto male lo stesso, e chi è Carmelo Bene, che si vanta d’aver fatto la grande rivoluzione del teatro e dice che avrebbero dovuto premiar lui?

Penso che oggi la letteratura per esistere debba essere ancilla della TV che costituisce il “potere forte”; di fatto, essa non è più autonoma. Ma non era così anche presso la corte del Duca di Ferrara? Certo che sì, e tuttavia essa si esprimeva autonomamente, con i suoi mezzi espressivi, non usandone altri. La letteratura era essa stessa celebrativa del potere, encomiastica; oggi invece, pur essendo altrettanto celebrativa del potere, per avere effetto, deve essere ripresa, aiutata, filtrata dalla TV. Di qui il suo ruolo ancillare. L’encomio letterario deve essere adottato dal più potente mezzo televisivo.

Sembra riprodursi in età moderna la situazione medievale, in cui la letteratura era considerata ancilla teologiae. Nel medioevo si privilegiava l’aspirazione a Dio, oggi, mutatis mutandis, la teatralità dell’evento, che deve impressionare la massa, deve fare audience. Il silenzio in cui viene prodotta la letteratura deve essere soccorso dallo strepito del teatro (amplificato dalla TV).

Il sospetto è dunque che gli accademici di Stoccolma abbiano premiato più l’attore che l’autore, o l’autore in quanto attore teatrale, che la televisione ha reso popolare. 

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Discutendo l’anno scorso con i miei allievi, chiedevo loro quale differenza passi tra un’opera d’arte e la sua riproduzione tecnica. Ipotizzavo la perfetta riproduzione dell’opera d’arte, e non riuscivo a vedere alcuna differenza estetica tra l’originale e la duplicazione. I miei allievi insistevano che mi sbagliavo, poiché l’originale, dicevano, è sempre l’originale, che nessuna copia potrà mai sostituire. Ribattevo che questa loro considerazione dell’originalità dell’opera d’arte aveva un sapore feticistico, e che da gran tempo la sacralità dell’arte era stata infranta da una più approfondita analisi estetica. Non li ho convinti.

In questi giorni il terremoto dell’Umbria e delle Marche ha seriamente danneggiato la basilica di San Francesco, e gli affreschi di Giotto e Cimabue. Ne è nata una querelle stucchevole: se gli aiuti debbano essere distribuiti ai terremotati, ovvero se prima si debba pensare a restaurare la basilica.

Mi chiedo: se dovesse crollare la basilica di Assisi, che cosa l’umanità perderebbe? Possibili risposte: 1) un monumento storico e artistico; 2) un luogo di culto e di preghiera; 3) una meta turistica.

Ma se fosse possibile ricostruire tale e quale la basilica, quale conseguenza trarremmo? Risposte possibili: 1) Riavremmo il monumento storico e artistico tale e quale; 2) riavremmo un luogo di culto  e di preghiera; 3) riavremmo una meta turistica.

Quel che si vuol dire, allora, è che la perfetta riproduzione dell’opera d’arte annulla l’effetto della distruzione naturale, del terremoto, delle alluvioni ecc., e dimostra come il feticismo dell’opera d’arte non sia che un bisogno indotto nell’uomo, di cui si può fare a meno, a vantaggio della comprensione estetica e storica dell’opera d’arte.

Va da sé che occorre prima aiutare i terremotati e poi ricostruire la basilica.

11 ottobre 1997

Lo scorso inverno e la scorsa estate mi sono dedicato alla raccolta ed alla cucitura degli articoli di mio padre perché credo che il suo lavoro abbia un suo valore di testimonianza che non deve andare perduto. All’incirca un quarantennio di storia galatinese, entro la storia nazionale, è ripercorso e ripensato secondo criteri su cui si può discutere, ma che hanno una loro coerenza e un loro significato. Scriverò a mio padre perché si decida a pubblicare il libro.

13 ottobre 1997

Riporto questa poesia scritta oggi perché testimonia bene il nostro stato d’animo a Dossena.

A Dossena

Stiamo a Dossena,

come sulla gobba d’un cammello.

14 ottobre 1997

Il mondo della politica degli uomini è arbitrario e fallace. Quando l’Alighieri fece parte per se stesso e si allontanò dal mondo, si propose di vivere per un mondo e in un mondo che, al contrario, fosse assoluto e veritiero: la visione della Divina Commedia nasce da qui. Ma i valori politici più autentici non furono rinnegati, bensì anch’essi furono assolutizzati e visti in una prospettiva non transeunte, dotati di connotati trascendenti e divini. Chiesa e Impero divennero le due colonne sulle quali Iddio intendeva fondare il suo essere nel mondo, che gli uomini mal comprendevano o insidiavano blasfemi. Questo è il messaggio del De Monarchia.

Anche qui si vede chiaramente come l’Alighieri operava: mai rigettando le sue vecchie idee, ma rielaborandole ed approfondendole, coerentemente allo sviluppo del suo pensiero e della sua visione del mondo.

17 ottobre 1997

Scrive Benedetto Croce, Conversazioni critiche, serie III, Bari, Laterza, 1932, p. 203: “In Dante il didascalico ora prende il disopra sul poeta, ora, e più di frequente, ne viene soverchiato; e questa lotta appartiene allo spirito dantesco nel suo effettivo unificarsi, dividersi e riunificarsi. Il poeta Dante attua via via le sue sintesi poetiche ed è quello che è, perchè ha di fronte quel Dante didascalico, e il didascalico è quello che è perché ha di fronte quel commosso poeta; e l’uno è altrettanto positivo e serio quanto l’altro”.

Questa affermazione critica è profondamente vera, poiché giunge a chiarire i due elementi costitutivi dell’opera dantesca, i confini del territorio dantesco, i cardini su cui ruota il mondo dell’Alighieri. Il “didascalico” e il “poeta”, secondo la definizione di Croce, non sono altro che le personificazioni rispettivamente della prosa e della poesia presenti nella Vita Nuova. Allo stesso modo, nel Convivio, alla poesia corrisponde un commento ordinato a  chiarire il senso delle canzoni; per non parlare poi della Commedia, ove, pur essendo ricondotta a unità la vecchia scissione, permane la distinzione tra brani dottrinari o “didascalici”, come vuole il Croce, e brani poetici che intervengono come puntuali exempla.

Questo nesso noi crediamo che la critica dantesca non abbia ancora ben messo in luce, questo rapporto essenziale, che fu dapprima, nelle opere giovanili e della prima maturità, scontro duro e condotto con ferma intransigenza, e conserva nella Commedia tutta la sua drammaticità, riscontrabile nell’accurata strutturazione del racconto che si fonda sui referti di un narratore reduce da una lunga esperienza salvifica che lo ha visto attore e protagonista. Noi abbiamo dimostrato che questo dramma ha lontane origini e un’antica genesi, che nasce da profonde, viscerali motivazioni, acclarate dalla nostra analisi della Vita Nuova e del Convivio.

Ma a chi importa tutto ciò? Non alla gente comune, e neppure agli accademici.

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Quando penso a quel che rimarrà fra un milione di anni sulla terra, quando sconvolgimenti d’ogni tipo, terremoti, maremoti, diluvi universali avranno cancellato ogni orma umana, e le testimonianze d’una civiltà chiamata umana saranno coperte sotto una coltre di terra alta centinaia di metri, irrangiungibili, allora comprendo meglio anche i confini dell’estetica. Il terremoto di Assisi è un evento che può darci la possibilità di pensare a fondo questo rapporto tra eventi catastrofici e arte, tra natura e arte, al di là e al di fuori di ogni considerazione moralistica, patetica e sentimentale dei fatti occorsi.

Io credo che se si considerano arte e natura come due termini antitetici, si rimane irretiti in una logica vetusta, improduttiva e sterile.

In realtà il nostro senso estetico deve tenere conto dell’estrema possibilità che tutto venga meno, che un evento catastrofico determini improvvisamente la scomparsa dell’opera d’arte. Essa alllora ci appare come una esperienza fenomenologica conclusa e contingente, che soltanto una forzatura di pensiero può costringerci a considerare come un valore assoluto  e intriso di sacralità. Il nostro senso estetico non ne è diminuito, anzi risulta arricchito dalla consapevolezza che l’uomo è essere transeunte, e la sua ricchezza deriva proprio dal senso della morte che gli è fedele compagna. Difatti l’uomo ha in comune con tutte le cose terrene proprio la morte.

Rifletterò ancora su questo argomento.

21 ottobre 1997

Riscrivo nel computer il mio diario del 1984. Sono passati tredici anni, e mi scopro diverso e sempre uguale. Diverso per circostanze, maturità, condizioni di vita. Come ho già detto in un’altra pagina di questo diario, uguale rispetto al passato è il senso della precarietà della mia esistenza, che non sono stato in grado in tanti anni di eliminare, almeno per assicurare a chi ora vive con me un modo di vita più tranquillo e sereno. Probabilmente questa situazione non cambierà, certamente non cambierà il sentimento che ho io della vita. Ho capito in questi anni che nelle persone difficilmente cambia l’originario sentimento del vivere. Ripenso a quando avevo dieci anni, venticinque anni fa, a quando tremavo al ricordo di un brutto sogno, oppure piangevo nel letto di notte al pensiero che sarei rimasto solo, un giorno, senza i miei genitori. E mi accorgo che non è cambiato nulla, in questi anni, che il mio tempo sarà sempre uguale, scandito dalle stesse angosce, dagli stessi turbamenti, e nulla potrà intervenire di nuovo. Capisco che una vita si ripete sempre uguale, e che i cambiamenti possono essere solo di natura esteriore, non interiore. Il sentimento del vivere non può variare, poiché probabilmente da esso dipende l’unità della nostra persona, la nostra individualità. Noi portiamo dentro il nostro dolore, ed è esso la nostra carta d’identità.

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Continuo il racconto Il lupo di Dossena.

28 ottobre 1997

Riporto alcune valide affermazioni (da cui nessuno scrittore dovrebbe mai prescindere nell’esercizio della sua scrittura) di Giulio Mozzi tratte dal suo intervento al Convegno organizzato dal mensile “Letture” intitolato “Per la narrativa tra Novecento e nuovo millennio” (che si terra Mercoledì 29 ottobre a Milano), anticipato in parte sulle colonne del “Corriere della sera” di martedì 28 ottobre 1997, p. 31:

“[…] Leviamoci dalla testa che lo scrivere sia una missione. La missione è una cosa che la persona non si dà da sé, ma che riceve: dall’altro e, solitamente, dall’alto. La missione quindi è, per sua natura, completamente amorale: si fonda solo sull’essere stata ricevuta ed è pertanto autoritaria, sorda, maniaca, indistruttibile. La missione non può essere che missione di verità, e chi si attribuisce la missione si attribuisce inevitabilmente il possesso della verità, benché ciò si dica normalmente, nella forma del “servire la verità”. […]

Leviamoci dalla testa che lo scrivere sia una funzione. Se qualcuno è ancora così stupido da credere che la sua esistenza sia completamente eterodiretta, gli chiedo di alzarsi e di uscire da questa sala. La parola funzione è solo un travestimento della parola missione: se io sono in missione per conto di dio, è evidente che io sono una funzione di dio. Disgraziatamente l’idea di funzione contiene l’idea d’irresponsabilità: la rotella non è responsabile del meccanismo, l’impiegato non è responsabile dell’ufficio, Priebke non è responsabile di Hitler. Con i servi della verità si può ancora parlare, a volte; con i funzionari della verità conviene stare ben zitti, perché ogni nostra parola sarà usata contro di noi”.

29 ottobre 1997

Quest’autunno, dopo un inizio splendido, è divenuto eccezionalmente gelido. Stamani, alle ore 8.00, il termometro segna – 4°.

30 ottobre 1997

Continuo a riscrivere i miei diari del 1984-85. Occupo così i pomeriggi, oppure leggo l’Orlando furioso. L’episodio di Pinabel, il traditore, che piange per la perdita della sua amata, non convince, poiché l’amore di un traditore non può essere sincero. Probabilmente anche questa è la leggerezza ariostesca.

Ornella attende un bambino. Quando l’abbiamo saputo, ieri sera, un complesso stato d’animo si è impadronito di noi. L’attesa di un bambino comporta tanta felicità, la strana sensazione che tutto debba ancora compiersi, il riaprirsi della vita a possibilità insospettabili, ma anche la coscienza delle proprie responsabilità, del proprio destino che non riguarda più solo noi, e l’amarezza per la nostra precarietà che non accenna a finire, e che inevitabilmente il nascituro avrà in sorte nascendo. Bisogna prepararsi a lottare, per la difesa della propria prole dalle insidie del mondo, proprio come fanno gli animali.

Non sappiamo ancora come chiamarlo o chiamarla: il feto è ancora troppo piccolo nel grembo di mamma Ornella.

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Descrivo il bambino di Dossena, Berto.

31 ottobre 1997

Un allievo fannullone che stenta perfino a stare zitto in classe (III media): vengo a sapere dal parroco, l’unica autorità riconosciuta del paese, che spesso Valentino (questo è il suo nome) per lunghi periodi sostituisce il padre – che non sta tanto bene – nell’opera di mungitura delle vacche, di pulitura della stalla ecc. ecc. Possiede sette vacche, e il parroco mi dice che non è un lavoro facile per un ometto di tredici anni. Ma questo mio alunno è un tipo sveglio, e se la cava bene. Spesso si assenta “per giustificati motivi”. Dopo aver saputo queste cose, lo guardo con occhio diverso. So che il suo comportamento in classe è più che corretto, che lui è lì perché costretto, e che non gli si può chiedere proprio nulla. Non è dunque un fannullone, ma un coatto.

(continua)

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