di Antonio Errico
Probabilmente è anche un libro per l’estate. Certamente non è un libro per la vacanza: quando si è distratti, attratti dall’effimero, buttati a fare niente; non è un libro da sotto l’ombrellone ( con questa calura, poi). Perché è un libro dalla terribile bellezza, che trascina sul fondo della riflessione a volte dolorosa, un romanzo da vertigine, forse anche inquietante, un racconto del profondo, del sereno, lucido tormento.
Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar uscì in Francia nel 1951. In Italia arrivò pochi anni dopo. La genesi del romanzo, il suo senso essenziale, il suo sviluppo, Marguerite Yourcenar li chiarì nei “Taccuini”. Non c’è dubbio che si possa leggere “Memorie” senza leggere i “Taccuini”. Però si pende tanto, si perde molto. Si perde il significato che Yourcenar attribuisce alla scrittura, alla letteratura che si confronta con la Storia.
Scrive la Yourcenar nei Taccuini che voleva rendere un’esistenza nota, compiuta, definita – ammesso che un’esistenza così ci possa essere – in modo da abbracciarne con un solo sguardo l’intera traiettoria. Ma soprattutto cogliere il momento in cui l’uomo che ha vissuto quella esistenza la pesa, la esamina, ed è in grado di giudicarla anche se solo per un istante.
Questo fa fare all’imperatore Adriano. Lo pone delicatamente – o lo scaraventa?- di fronte a se stesso, al suo mondo, ai valori, le scelte, gli affetti, la fama, il potere, la memoria, le passioni, il passaggio dell’età, la consapevolezza di com’era il suo corpo, di come si trasforma giorno dopo giorno, minuto per minuto.