Come dire: spendo per mangiare, poi butto via una parte degli alimenti, e di concerto il denaro che mi sono costati.
Non basta ancora. Oltre che ad essere un autentico disastro economico (più di 8 miliardi di
euro di cibo buttati via all’anno, secondo lo specifico Rapporto 2014 Waste Watcher!), questo spreco consumistico è devastante, e ai limiti del criminale, per la disparità sociale che comporta. A fronte di miliardi di persone che possono permettersi di buttare via il superfluo ci sono infatti, e purtroppo, centinaia di milioni di emarginati che sono privi del necessario, e muoiono per denutrizione e malattie sopravvenienti.
Come direbbero i nostri padri: Lu bbinchiatu nu cride a lu ddesciunu. Quando invece – se la solidarietà non fosse una semplice parola per riempirsi la bocca o la coscienza – se risparmiassimo e dessimo il denaro o il cibo eccedente agli affamati, anziché buttarlo via, concorreremmo, in qualche misura, a eliminare la fame nel mondo. Sillogismo che potrebbe apparire semplicistico, ma non lo è. Purché ci siano – come sempre ci dovrebbero essere – le giuste volontà e le azioni corrette in quella precisa direzione.
Va ancora detto che la tradizionale economia domestica della civiltà contadina d’un tempo era, in generale – e indipendentemente dai diversi livelli di reddito e di ricchezza –, molto più virtuosa di quella di oggi. “Sparagna la farina quandu la mattra è china…” non era solo un proverbio, ma un principio morale ed esistenziale consolidato e indiscutibile, essendo diffusamente accettato e praticato dall’intera comunità.
In casa nostra – come in quasi tutte le case di allora – non si buttava mai nulla. E se un pezzetto di pane era destinato ai rifiuti, perché rinsecchito e ammuffito al punto da renderlo davvero immangiabile, allora, prima di buttarlo via lo si baciava. Quasi come una reliquia. Un segno, per così dire, di religiosità pagana, peraltro non riscontrabile, che io sappia, nella tradizione di altre regioni italiane.
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All’Expo 2015 di Milano, nella Giornata Mondiale dell’Alimentazione, di tale spreco hanno recentemente parlato il segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon (definendolo «una vergogna non più sostenibile») e il nostro presidente Mattarella («Nutrire il pianeta è la sfida epocale che abbiamo di fronte, inseparabile dalla parola ‘pace’»).
Anche Papa Francesco, in varie occasioni, ha richiamato le potenze mondiali a operare nel modo migliore per una maggiore e ottimale “giustizia distributiva” delle risorse del pianeta.
Com’è noto, la FAO (Food and Agricolture Organization), fondata nel 1945 a Quebec, Canada, e dal 1951 con sede a Roma, è l’Organizzazione mondiale che ha il compito di migliorare la vita delle popolazioni rurali e di contribuire alla crescita economica, sviluppando i settori dell’alimentazione e dell’agricoltura, al fine di ridurre la fame nel mondo. Ne sono membri 191 Paesi più l’Unione Europea.
I paesi in maggiori difficoltà sono attualmente quelli a sud del Sahara, altri in Asia e in Medio Oriente (qui a causa di catastrofi naturali e persistenti conflitti bellici), mentre crescono i fabbisogni in Cina e in India. Ma è un fatto che negli ultimi vent’anni il problema fame è stato risolto per 200 milioni di persone.
Di malnutriti ne restano ancora 800 milioni. La sfida è da qui al 2030: l’anno in cui la fame nel mondo sarà azzerata. Un sogno straordinario e grandissimo, ma realizzabile.
Ne è certa la direttrice esecutiva del World Food Program, Ertharin Cousin, che – da oggi e fino a quella data – ha invitato tutti a fare con impegno la propria parte, moltiplicando le risorse, ed eliminando gli sprechi: «Immaginate solo la sera in cui nel 2030 nessun bambino, donna o uomo andrà a letto affamato».
Un bell’augurio, che facciamo convintamente nostro.