Il primo tempo della narrativa di Brancati matura dunque in un clima di profonda fascinazione nei confronti del fascismo. Dell’Amico del vincitore (1932), Dondero mette in risalto i riferimenti ascrivibili a un immaginario di matrice futurista, individuabili per esempio nella scelta di temi ricorrenti come l’esaltazione del volo e del progresso tecnologico; o nel generale «timbro avanguardista» (p. 14) ricalcato sui manifesti marinettiani; o ancora nelle caratteristiche di uno dei personaggi principali, Giovanni Corda, descritto come una sorta di alter-ego del Duce per il piglio militaresco e autoritario, la prestanza fisica, la risolutezza ecc. L’analisi si concentra poi su un connotato determinante del personaggio, e cioè l’attivismo, elemento che secondo Dondero può essere utilizzato come un termometro efficace per misurare il grado di compromissione della narrativa brancatiana con l’ideologia, la retorica, l’immaginario di regime. «Con la figura di Giovanni Corda, – spiega lo studioso – si tocca l’apice dell’entusiasmo di Brancati nei confronti dell’attivismo e della vera e propria mistica del “fare”. L’attivismo, infatti, rimarrà comunque al centro della riflessione e della pratica creativa di Brancati, per tutta la prima parte della sua produzione; ma col tempo esso perderà la connotazione straordinariamente positiva» (p. 19).
Già con Singolare avventura di viaggio, composto nel 1933 e pubblicato l’anno successivo, si preannuncia infatti una svolta che troverà compimento nelle opere maggiori. Nel breve romanzo, l’attivismo del protagonista Enrico Leoni, più che realmente vissuto, è auspicato come rimedio alla corruzione morale. A quest’altezza, scrive Dondero, «il germe che corroderà la considerazione positiva dell’attivismo è ormai penetrato nella narrativa di Brancati» (p. 22).
Un definitivo allontanamento dalla retorica dell’attivismo – che si deve interpretare, sul piano intellettuale e politico, come definitivo affrancamento di Brancati dal fascismo – si registra poi nel primo romanzo maturo, Gli anni perduti, composto fra il 1934 e il 1936, in un periodo che per l’autore è di profondo travaglio interiore: «questo romanzetto – spiega lo stesso Brancati in un’importante lettera del 1942, indirizzata al suo professore di liceo Francesco Guglielmino – è stato scritto in un periodo molto nero della mia vita: di crisi, si direbbe con una brutta parola moderna. Era la prima volta che vedevo tutta la stupidità dell’attivismo e di coloro che, non avendo un serio modo di vivere, trovano, negli attivisti, medici o guide miracolosi» (brano riportato a p. 24).
Attraverso il filtro della comicità e dell’ironia, che fanno il loro primo ingresso nella narrativa brancatiana, permettendo così di stabilire una netta cesura fra una prima e una seconda fase della sua produzione, l’attivismo del protagonista viene ora apertamente dileggiato: come spiega Dondero, «l’attivismo, che aveva consentito a Giovanni Corda di intraprendere una fulgida carriera politica, e che aveva costituito l’àncora di salvezza dall’immoralità per Enrico Leoni, [è] ormai divenuto un connotato comico della figura di Francesco Buscaino» (p. 26).
Ma se negli Anni perduti il comico era soltanto uno dei registri utilizzati da Brancati, nel romanzo successivo, Don Giovanni in Sicilia, composto nel 1940, pubblicato da Rizzoli nel 1941 e poi da Bompiani nel 1942, ricoprirà un ruolo decisamente più centrale. Nel Don Giovanni l’attivismo si rovescia nel suo contrario, cioè nel tipico ‘gallismo’ brancatiano, che rappresenta, secondo Dondero, il «culmine dell’attività contemplativa e immaginativa, ma contestualmente culmine dell’inattività pratica, della passività» (p. 30).
La seconda parte del libro, intitolata «Il gallo non ha cantato». Sul Bell’Antonio, è quasi interamente dedicata al romanzo più celebre di Brancati, pubblicato a puntate nel settimanale «Il Mondo» fra il febbraio e maggio 1949 e, in volume, nel maggio dello stesso anno, presso Bompiani. Dondero si concentra dapprima sulle numerose connessioni fra la narrativa e la scrittura giornalistica di Brancati, praticata assiduamente su testate importanti come il «Corriere della Sera», «Il Tempo» e «Il Mondo», evidenziando come sia «frequentissimo rinvenire nei suoi romanzi non solo uno sviluppo di temi che nella precedente produzione narrativa erano presenti in forma acerba, ma anche la ripresa diretta di materiali pubblicati precedentemente in opere di carattere sia narrativo sia giornalistico-saggistico» (p. 96). Nel Bell’Antonio, Dondero individua tre tipi di relazioni fra il romanzo e gli articoli, e cioè: l’anticipazione di alcune parti del romanzo, presentate, anche in forma di racconto autonomo, nelle terze pagine dei giornali; il recupero, nel romanzo, di «materiali narrativi pubblicati nei giornali anche diversi anni prima, dunque certo non pensati originariamente quali sue parti» (p. 61); e infine il riuso di materiali provenienti da precedenti articoli di carattere non narrativo.
Dondero si sofferma poi sulle varianti che si possono riscontrare fra la versione presentata in rivista e quella in volume, il cui alto numero incuriosisce vista la già ricordata concomitanza delle due pubblicazioni. Oltre alle classiche varianti di carattere stilistico ed espressivo, lo studioso fra notare la quasi totale assenza, nella versione uscita sul «Mondo», del turpiloquio e di riferimenti espliciti al sesso e alla religione, scelte tutte riconducibili a una sorta di blanda censura esercitata evidentemente allo scopo di non turbare il senso del pudore dei lettori, di certo più numerosi rispetto ai potenziali acquirenti del volume. Questa pur «amichevole censura», che costrinse lo scrittore siciliano a operare una frettolosa revisione dei brani ritenuti più compromettenti, permette a Dondero di concludere che «la libera volontà di Brancati venne limitata: il che […] ci costringe a riconsiderare l’immagine di piena libertà (e laicità) che contrassegna oggi la rivista» (p. 80).
Dal Bell’Antonio, come è noto, è stato tratto il celebre film omonimo del 1960, diretto da Mauro Bolognini, sceneggiato da Pasolini e interpretato da Marcello Mastroianni e Claudia Cardinale. A questo film d’autore ne seguirono altri, più commerciali, sempre adattati dalle sue opere: Don Giovanni in Sicilia di Alberto Lattuada, interpretato da Lando Buzzanca (1967), Paolo il caldo di Marco Vicario, con Giancarlo Giannini (1973) e La governante di Gianni Grimaldi, con Turi Ferro (1974).
Dopo aver ricordato queste pellicole, il volume di Dondero si conclude con un focus sulle sceneggiature di Brancati, il quale aveva collaborato, nel tempo, a una trentina di film. Questo lavoro veniva svolto essenzialmente per motivi economici, e perlopiù con insofferenza, come si evince, per esempio, dal seguente passaggio tratto da Paolo il caldo (1955): «Io scrivo […] una pagina ogni mattina per sentire se il mio cervello, dopo l’odioso lavoro di sceneggiatura del pomeriggio e della sera, durante il quale si è mescolato ad altri cervelli in un mucchio di materia grigia tanto grosso e gonfio quanto inerte e stupido, viva ancora di vita propria» (brano riportato a p. 86). In realtà, come spiega Dondero, «non sempre l’attività di sceneggiatore dovette risultare indigesta» (p. 88), specialmente nelle occasioni in cui Brancati si trovò a collaborare con artisti di prim’ordine, come per esempio Luigi Zampa, con il quale realizzò, fra le altre cose, la trilogia che comprende Anni difficili (1948), Anni facili (1953) e L’arte di arrangiarsi (1954), per il quale scrisse interamente da solo, per la prima volta, soggetto e sceneggiatura.
Secondo Dondero, L’arte di arrangiarsi, contrariamente a quanto affermato da altri critici che se ne sono recentemente occupati, è il più originale, si potrebbe dire il meno brancatiano dei suoi film; e ciò per via di alcune caratteristiche del protagonista (il quale vuole ottenere un successo pratico con le donne, non le vagheggia soltanto, come facevano abitualmente, invece, i protagonisti dei romanzi principali); per la rappresentazione del potere politico (che nel film è molto meno aggressiva); e infine per la rappresentazione delle grandi vicende storiche (che nel film sono molto sfocate): «Nel primo film di cui si sentiva totalmente responsabile – conclude Dondero – credo Brancati abbia cercato di rinnovare almeno in parte il bagaglio delle tematiche tradizionalmente sue […] e abbia ricercato nuovi spunti nella scrittura giornalistica e in zone meno significative della propria narrativa» (p. 96).
[in «Oblio», a. XIII, n. 47, pp. 476-478]