Su questo sfondo
cittadino si muovono
dunque vari personaggi, tutti delineati con efficacia e adeguati al contesto, dalle comparse ai personaggi principali. Tra le prime Ciccio, il parassita
del bar Barberino, il locale
situato “tra una torre merlata e il lungo portico del centro”, luogo
di pettegolezzo e di trame. Ciccio, moderna versione del Curculio plautino, è sempre in agguato a scroccare bevute
e spiccioli. A lui si affianca Anselmo,
l’attaccabrighe del medesimo
bar. Particolare attenzione Paolo
dedica alla presentazione della varia umanità che si muove nella sala d’attesa delle Poste e in quella dell’Agenzia delle Entrate, delineata con essenziali, perfette pennellate.
Entra in scena
per primo Lorenzo
Vitali, che potremmo
considerare protagonista; scrittore per molti aspetti
fallimentare nelle sue ambiziose velleità
di successo letterario che persegue quasi con inerzia;
istrionico, si nasconde
dietro una maschera
(ancora un riferimento al teatro) nel presentare il suo libro “Oppido
nascosta”. Nel corso del romanzo avrà un attacco di cuore durante la corsa del
sabato, giornata dedicata al footing,
a cui non rinuncia neppure mentre “lo
scirocco inopportuno oltraggia la
bellezza naturale del paesaggio, come una macchia di unto su un abito nuovo”. Si
riprenderà presto, grazie al
tempestivo intervento del dottor Menonna, anche lui appassionato podista, che
lo soccorre. Accanto a Lorenzo la protettiva madre, la sorella Luana,amante del sindaco Mino Tornabuoni ilquale invece morirà per l’infarto che lo coglie al momento
dell’arresto, accusato di concussione,
abuso di ufficio, turbativa d’asta. Lorenzo lavora part -time presso Nunzio
Leone,
editore e tuttofare, che sfrutta i suoi dipendenti e truffa gli
scrittori che gli si affidano, “estorcendo” loro
denaro con l’illusione di garantire il successo. Può considerarsi co-protagonista
Fabrizia Aristefano, l’ambiziosa e vendicativa nipote dell’indegno, depravato parroco Don Aristarco Aristefano, Arciprato,dapprima
insoddisfatta operatrice di call center, poi impiegata da Nunzio Leone. Vi sono poi Federico Gattamelata, figlio
del barone Alfonso
Gattamelata; il giovane,
che ha una relazione piena
di ombre con Fabrizia, è
implicato in loschi traffici di droga che, in un momento di esaltazione, confida all’amante. Una famiglia, quella dei “nobili” Gattamelata, in cui i legami sono improntati all’opportunismo ed alla ipocrisia.
Helena,
lussuriosa moglie svedese
del barone; bella, ammirata, corteggiata e desiderata, tradisce
abitualmente il marito, tra gli altri
regolarmente con “Diacca” lo stalliere di origine gallese, il cui nome
reale è Peter “(…) ma lei- spiega
l’autore– lo chiama Diacca, assecondando
un’astuta perversione, una forma di raffinatissimo dispetto. “Diacca” infatti è
la versione contratta ed
italianizzata di David-Herbert – le cui iniziali sono appunto D H- subliminale omaggio
a D.H. Lawrence, autore dell’Amante di Lady Chatterley. Così ogni qualvolta il Gattamelata chiama
il subordinato, è come se dichiarasse a se stesso e agli altri la propria, “cornutaggine”. Diacca è anche amante
di Alberta. Gattamelata, la depravata figlia del Barone. Fuori dalle righe è il personaggio del capofamiglia, appunto Alfonso Gattamelata, il cui cognome ricorda il celebre capitano di
ventura. Lussurioso, adorno di gioielli, grasso “…con i suoi centodieci chili, indossando solo un perizoma, sembra un lottatore di sumo”, può
ricordare il Trimalcione del Satyricon
di Petronio. È borioso, compiaciuto delle nobili origini,
cultore di alchimia
e culti esoterici, al punto
da aver fondato
una setta esclusiva dedicata all’antica divinità
egizia Astarte, in onore
della quale viene celebrato un
orgiastico rito pagano il 24 luglio
con stupro e il cui ministrante è proprio il Gattamelata che violenta la ragazza scelta, di solito una prostituta. Nel
racconto la ragazza prescelta come sacerdotessa/vittima della violenza rituale è invece Fabrizia che nel secondo atto riesce a ribaltare la situazione; si innesca così un meccanismo di ricatti che porterà all’epilogo finale.
Altri personaggi in ordine sparso: Otello, l’autista del Gattamelta, il losco dott D’Autilia, commercialista affermato stempiato, “corpulento e ricco”, Susanna Indraccolo, l’amante del parroco, concupita anche dal Gattamelata che peraltro nutre rancori verso il “plebeo” padre di lei per motivi di interesse e di prestigio; Irene, Antonio Tommaso,quest’ultimo “ottimo critico letterario, però il suo ego ipertrofico gli fa perdere la misura”. Irene e Antonio lavorano, come Lorenzo, presso l’editore Nunzio Leone. Il barman Barbarino, padrone del bar omonimo, Tina,personaggio a cui è dedicato ampio spazio: vive isolata, chiusa nel suo mondo, che trova il limite simbolico e invalicabile nella finestra, unica compagnia la gatta Circe. Emergono i corrotti notabili del paese, il dott. Poso neurochirurgo e il dott. Muccio odontoiatra e lo stesso tenente dei Carabinieri Leonida Marsicano.
Vi sono Samantha e Giovanna Simeis, aspiranti scrittrici, disposte a tutto per il loro scopo, Germano D’Alessandris, Assessore alla Cultura, Angela Pacini, potente editor milanese dell’Anteprint, importante casa editrice della città meneghina. Angela, donna lussuriosa, è amante di Lorenzo, che raggiunge spesso ad Oppido Traglignano e a cui promette il successo letterario in cambio dei favori sessuali. Fanno la loro comparsa Gismunda, la fida perpetua (di manzoniana memoria), il sacrestano Mario,spettatore “impietrito” dei segreti tormenti e dei vizi di don Aristarco. Vi è Zeno Consenti,celebre scrittore che dal nord ha scelto come buen retiro una contrada di Oppido, Campomarina, dove, in beata solitudine, scrive i suoi romanzi di successo. Si tratta di un personaggio dai contorni sfumati, quasi misterioso, che sembra “assente” di fronte a Lorenzo il quale invece, inviato ad intervistarlo, sembra quasi in ipnosi e gli sciorina tutti i più banali luoghi comuni delle interviste culturali. Il nome dello scrittore ha un chiaro riferimento al personaggio di Svevo e lascia aperta la possibilità anche di identificalo o di considerarlo solamente un personaggio-simbolo. Compare anche Moreno Morellonella parte di se stesso come inviato di “Striscia la Notizia”, giunto ad Oppido Tralignano quando scoppia lo scandalo della setta segreta, dei loschi traffici e dell’indegnità del parroco, intrusione degli immancabili media, simbolo di una invadente modernità che sfrutta la prurigine provinciale.
Si raccontano passioni, vizi
inconfessabili di corruzione, di depravazione morale; si parla di inerzia,
di illusioni, di inganni, tradimenti; si
parla della vita, indulgendo
sull’ambizione letteraria, il mondo dell’editoria, della cultura, del rapporto libri
e pubblico e della ricerca
del successo. Protagonista è anche lo scirocco,il vento di sud est che, come cantava
l’antico poeta Alceo (VII –VI
sec. a.. C.) “fiacca mente e ginocchia”. L’influenza dello scirocco sulla mente
è del resto parte di cultura generale, come testimonia il termine “sciroccato” che significa persona confusa, distratta, imprevedibile, stordita appunto dallo scirocco. Lo scirocco, vento spesso simbolo di aridità, fiacchezza, ha affascinato, poeti e letterati. Tra questi tra lo stesso Dante che paragona il vento che fa stormire le foglie, piegandole verso occidente, nella fitta foresta dell’Eden all Ëolo scilocco che soffia nella pineta di Classe (Purgatorio, Canto XXVIII, vv. 1- 21). Citano lo scirocco Dino Campana nei “Canti Orfici”: “Era una melodia, era un alito? Qualche cosa era fuori dei vetri. Aprìi la finestra: era lo Scirocco: e delle nuvole in corsa al fondo del cielo curvo (…) si ammucchiavano nella chiarità argentea dove l’aurora aveva lasciato un ricordo dorato.”, ed anche Montale: “O rapido ventare di scirocco/che l’arsiccio terreno gialloverde/ (“Ossi di Seppia”). Nell’ architettura siciliana dei palazzi nobiliari questo vento ha suggerito ai costruttori la presenza di una sotterranea “stanza dello scirocco”. Essa è una stanza dove rifugiarsi e cercare refrigerio, nei giorni di scirocco e da spazio, per così dire, meteorologico, finisce per diventare spazio metaforico, un luogo fuori dal tempo. La stanza dello scirocco ha ispirato romanzi omonimi: quello nel 1986 del calabrese Domenico Campana (1929-2022), scrittore, sceneggiatore, giornalista, da cui è stato tratto nel 1998 il film, sempre omonimo, per la regia di Maurizio Sciarra, e quello del 2016 della siciliana Cristina Cassar Scalia, classe 1977.
Lo scirocco come un fil rouge percorre tutto il romanzo di Paolo Vincenti, come sfondo e anche come leit motiv di momenti significativi: “(…) Grava lo scirocco sulle strade e sulle case, nemmeno una brezza, un refolo di vento a spezzare quel tutto compatto nell’immobile calma (…)”.
Una
considerazione a parte merita lo stile di Paolo che ogni volta mi sorprende
e suscita ammirazione. Uno stile che in tutti i suoi scritti sa catturare il lettore
per la capacità di plasmarsi in modo originale
sulle storie e sulle argomentazioni, attraverso un creativo plurilinguismo
che spazia in svariati ambiti. Anche questa caratteristica viene contenuta nel termine “commedia”, sottotitolo del romanzo.
In esso, questo inconfondibile stile mi ha colpito in particolare per il suo “nitore”. Uno stile sempre più immediato, limpido che “descrive” anche le situazioni più scabrose con disincantato distacco, con l’evidenza della verità di ciò che semplicemente “è”, “accade”. Uno stile a cui Paolo aggiunge il dono
della sua particolare elegante
ironia che sorride, a tratti implicita, a tratti corrosiva, tra le righe, della
cura nella sapiente scelta delle
parole, il tutto coniugato con una profonda eclettica cultura, “metabolizzata”
al punto da filtrare, direi con nonchalance, nella “tessitura” delle
pagine rendendole uniche, e di diversi livelli
possibili di lettura, quasi il sigillo del “divertimento” letterario di
Vincenti. Uno stile che sa vestirsi anche di colori e di poesia:
“Il parco piano piano
riprende il suo verde intenso,
mentre fino ad allora vi trionfava il color zafferano che
richiamava le luci di altre vite, rimandava bagliori di lontane atmosfere”;” Nuvole color seppia
si addensano minacciose”; “Lorenzo guarda
la torre
cinquecentesca, irradiata da riflessi grotteschi , che pare un lugubre gigante contro il cobalto del cielo”. Riesce ad interessare anche il tatto come in “secolari ruvidi ulivi”, un “verso” vero e proprio che è immagine di potenza sensoriale, sottolineata da assonanze (della “i” e della “u”) e consonanze (della “r”), nonché dalla musicalità graffiante della possibile sinalefe tra ruvidi e ulivi.
Mi hanno colpita nel romanzo le descrizioni in cui spesso l’autore utilizza una struttura a climax degli enunciati e degli aggettivi, un modello che a me piace molto perché, a mio avviso, riesce a cogliere le sfumature della realtà. Vari gli esempi. Si è citata la descrizione della città “sbiadita, spiattellata, sbrindellata”; potrei selezionare ora la descrizione della citata Tina, personaggio ambiguo, per molti aspetti inquietante, il cui destino rimane aperto; solo apparentemente secondario, svolge un preciso ruolo nello spannung del racconto. Ricamatrice, mestiere affascinante dal sapore antico ereditato dalla madre: “A trent’anni si sentiva già come un fiore avvizzito, un biglietto scaduto, un treno passato (….) a quaranta era magra , pallida , emaciata”. Ancora un altro esempio: “Il risveglio della domenica di Oppido Tralignano ha qualcosa di soprannaturale. pretestuoso, fantasmagorico, premonitore, ma anche di salmastro, sfrigolante, salmodiante”.
La conclusione del libro è aperta.
Ogni lettore potrà pensare una conclusione. Si tratta di una nuova illusione, di un inganno ipocrita o di un
progetto e, perfino, di una speranza? Per Oppido Tralignano si è parlato nei termini usali della
provincia, statica, “necrotica” per
usare una parola del libro, oppressa e oppressiva, come il calore
appiccicoso dello Scirocco. Io tra le righe ho letto, forse con un’interpretazione ardita, anche altro.
Alla fine qualcosa si muove, i personaggi fanno delle scelte e il “potere”, pur ottenuto attraverso il ricatto e una forma di vendetta, viene assunto
da una donna che detta le sue regole; si prospettano scenari
di un possibile successo letterario. Mi pare con ciò di scorgere,
al di là forse delle stesse intenzioni dello scrittore, un inizio di consapevolezza, qualcosa che da lontano
somiglia alla speranza e così la voglia dichiarata di restare nella propria terra, non solo per inerte pigrizia o pretestuosa
affermazione, ma come percezione d un valore sociale e civile. Il discorso finale di Lorenzo è pertanto
del tutto ipocrita e velleitario o può
essere interpretato anche, almeno da qualche lettore, con il beneficio del
dubbio, quasi un invito ad una
possibilità futura da conquistare con un impegno
al cambiamento? Peraltro lo stesso Paolo è rimasto nel suo
Salento e da qui, con scritti di vario tipo, spaziando dai romanzi ai saggi fino alla poesia, ha smascherato ipocrisie, ha fustigato con ironia e sarcasmo i costumi,
senza edulcorare, ma con una lucidità
che non sfocia tuttavia nel
nichilismo, ma induce piuttosto alla riflessione e certo si nutre del sogno della speranza,
forse remota e utopica, di un mondo migliore. Dall’indolenza alla “resipiscenza”
si potrebbe dire, usando parole del testo. Se
lo scirocco incombe, “ c’è sempre finalmente in arrivo la tramontana fresca.
Non è tutto, non è nemmeno poco, ma bisogna
pur accontentarsi”.