Su “Le storie dello scirocco” di Paolo Vincenti

Su questo sfondo cittadino si muovono dunque vari personaggi, tutti delineati con efficacia e adeguati al contesto, dalle comparse ai personaggi principali. Tra le prime Ciccio, il parassita del bar Barberino, il locale situato “tra una torre merlata e il lungo portico del centro”, luogo di pettegolezzo e di trame. Ciccio, moderna versione del Curculio plautino, è sempre in agguato a scroccare bevute e spiccioli. A lui si affianca Anselmo, l’attaccabrighe del medesimo bar. Particolare attenzione Paolo

dedica alla presentazione della varia umanità che si muove nella sala d’attesa delle Poste e in quella dell’Agenzia delle Entrate, delineata con essenziali, perfette pennellate.

Entra in scena per primo Lorenzo Vitali, che potremmo considerare protagonista; scrittore per molti aspetti fallimentare nelle sue ambiziose velleità di successo letterario che persegue quasi con inerzia; istrionico, si nasconde dietro una maschera (ancora un riferimento al teatro) nel presentare il suo libro “Oppido nascosta”. Nel corso del romanzo avrà un attacco di cuore durante la corsa del sabato, giornata dedicata al footing, a cui non rinuncia neppure mentre “lo scirocco inopportuno oltraggia la bellezza naturale del paesaggio, come una macchia di unto su un abito nuovo”. Si riprenderà presto, grazie al tempestivo intervento del dottor Menonna, anche lui appassionato podista, che lo soccorre. Accanto a Lorenzo la protettiva madre, la sorella Luana,amante del sindaco Mino Tornabuoni ilquale invece morirà per l’infarto che lo coglie al momento dell’arresto, accusato di concussione, abuso di ufficio, turbativa d’asta. Lorenzo lavora part -time presso Nunzio Leone, editore e tuttofare, che sfrutta i suoi dipendenti e truffa gli scrittori che gli si affidano, “estorcendo” loro denaro con l’illusione di garantire il successo. Può considerarsi co-protagonista Fabrizia Aristefano, l’ambiziosa e vendicativa nipote dell’indegno, depravato parroco Don Aristarco Aristefano, Arciprato,dapprima insoddisfatta operatrice di call center, poi impiegata da Nunzio Leone. Vi sono poi Federico Gattamelata, figlio del barone Alfonso Gattamelata; il giovane, che ha una relazione piena di ombre con Fabrizia, è implicato in loschi traffici di droga che, in un momento di esaltazione, confida all’amante. Una famiglia, quella dei “nobili” Gattamelata, in cui i legami sono improntati all’opportunismo ed alla ipocrisia. Helena, lussuriosa moglie svedese del barone; bella, ammirata, corteggiata e desiderata, tradisce abitualmente il marito, tra gli altri regolarmente con “Diacca” lo stalliere di origine gallese, il cui nome reale è Peter “(…) ma lei- spiega l’autore– lo chiama Diacca, assecondando un’astuta perversione, una forma di raffinatissimo dispetto. “Diacca” infatti è la versione contratta ed italianizzata di David-Herbert – le cui iniziali sono appunto D H- subliminale omaggio a D.H. Lawrence, autore dell’Amante di Lady Chatterley. Così ogni qualvolta il Gattamelata chiama il subordinato, è come se dichiarasse a se stesso e agli altri la propria, “cornutaggine”. Diacca è anche amante di Alberta. Gattamelata, la depravata figlia del Barone. Fuori dalle righe è il personaggio del capofamiglia, appunto Alfonso Gattamelata, il cui cognome ricorda il celebre capitano di ventura. Lussurioso, adorno di gioielli, grasso “…con i suoi centodieci chili, indossando solo un perizoma, sembra un lottatore di sumo”, può ricordare il Trimalcione del Satyricon di Petronio. È borioso, compiaciuto delle nobili origini, cultore di alchimia e culti esoterici, al punto da aver fondato una setta esclusiva dedicata all’antica divinità egizia Astarte, in onore della quale viene celebrato un orgiastico rito pagano il 24 luglio con stupro e il cui ministrante è proprio il Gattamelata che violenta la ragazza scelta, di solito una prostituta. Nel

racconto la ragazza prescelta come sacerdotessa/vittima della violenza rituale è invece Fabrizia che nel secondo atto riesce a ribaltare la situazione; si innesca così un meccanismo di ricatti che porterà all’epilogo finale.

Altri personaggi in ordine sparso: Otello, l’autista del Gattamelta, il losco dott D’Autilia, commercialista affermato stempiato, “corpulento e ricco”, Susanna Indraccolo, l’amante del parroco, concupita anche dal Gattamelata che peraltro nutre rancori verso il “plebeo” padre di lei per motivi di interesse e di prestigio; Irene, Antonio Tommaso,quest’ultimo ottimo critico letterario, però il suo ego ipertrofico gli fa perdere la misura”. Irene e Antonio lavorano, come Lorenzo, presso l’editore Nunzio Leone. Il barman Barbarino, padrone del bar omonimo, Tina,personaggio a cui è dedicato ampio spazio: vive isolata, chiusa nel suo mondo, che trova il limite simbolico e invalicabile nella finestra, unica compagnia la gatta Circe. Emergono i corrotti notabili del paese, il dott. Poso neurochirurgo e il dott. Muccio odontoiatra e lo stesso tenente dei Carabinieri Leonida Marsicano.

Vi sono Samantha e Giovanna Simeis, aspiranti scrittrici, disposte a tutto per il loro scopo, Germano D’Alessandris, Assessore alla Cultura, Angela Pacini, potente editor milanese dell’Anteprint, importante casa editrice della città meneghina. Angela, donna lussuriosa, è amante di Lorenzo, che raggiunge spesso ad Oppido Traglignano e a cui promette il successo letterario in cambio dei favori sessuali. Fanno la loro comparsa Gismunda, la fida perpetua (di manzoniana memoria), il sacrestano Mario,spettatore “impietrito” dei segreti tormenti e dei vizi di don Aristarco. Vi è Zeno Consenti,celebre scrittore che dal nord ha scelto come buen retiro una contrada di Oppido, Campomarina, dove, in beata solitudine, scrive i suoi romanzi di successo. Si tratta di un personaggio dai contorni sfumati, quasi misterioso, che sembra “assente” di fronte a Lorenzo il quale invece, inviato ad intervistarlo, sembra quasi in ipnosi e gli sciorina tutti i più banali luoghi comuni delle interviste culturali. Il nome dello scrittore ha un chiaro riferimento al personaggio di Svevo e lascia aperta la possibilità anche di identificalo o di considerarlo solamente un personaggio-simbolo. Compare anche Moreno Morellonella parte di se stesso come inviato di “Striscia la Notizia”, giunto ad Oppido Tralignano quando scoppia lo scandalo della setta segreta, dei loschi traffici e dell’indegnità del parroco, intrusione degli immancabili media, simbolo di una invadente modernità che sfrutta la prurigine provinciale.

Si raccontano passioni, vizi inconfessabili di corruzione, di depravazione morale; si parla di inerzia, di illusioni, di inganni, tradimenti; si parla della vita, indulgendo sull’ambizione letteraria, il mondo dell’editoria, della cultura, del rapporto libri e pubblico e della ricerca del successo. Protagonista è anche lo scirocco,il vento di sud est che, come cantava l’antico poeta Alceo (VII –VI sec. a.. C.) “fiacca mente e ginocchia”. L’influenza dello scirocco sulla mente

è del resto parte di cultura generale, come testimonia il termine “sciroccato” che significa persona confusa, distratta, imprevedibile, stordita appunto dallo scirocco. Lo scirocco, vento spesso simbolo di aridità, fiacchezza, ha affascinato, poeti e letterati. Tra questi tra lo stesso Dante che paragona il vento che fa stormire le foglie, piegandole verso occidente, nella fitta foresta dell’Eden all Ëolo scilocco che soffia nella pineta di Classe (Purgatorio, Canto XXVIII, vv. 1- 21). Citano lo scirocco Dino Campana nei “Canti Orfici”: “Era una melodia, era un alito? Qualche cosa era fuori dei vetri. Aprìi la finestra: era lo Scirocco: e delle nuvole in corsa al fondo del cielo curvo (…) si ammucchiavano nella chiarità argentea dove l’aurora aveva lasciato un ricordo dorato.”, ed anche Montale: “O rapido ventare di scirocco/che l’arsiccio terreno gialloverde/ (“Ossi di Seppia”). Nell’ architettura siciliana dei palazzi nobiliari questo vento ha suggerito ai costruttori la presenza di una sotterranea “stanza dello scirocco”. Essa è una stanza dove rifugiarsi e cercare refrigerio, nei giorni di scirocco e da spazio, per così dire, meteorologico, finisce per diventare spazio metaforico, un luogo fuori dal tempo. La stanza dello scirocco ha ispirato romanzi omonimi: quello nel 1986 del calabrese Domenico Campana (1929-2022), scrittore, sceneggiatore, giornalista, da cui è stato tratto nel 1998 il film, sempre omonimo, per la regia di Maurizio Sciarra, e quello del 2016 della siciliana Cristina Cassar Scalia, classe 1977.

Lo scirocco come un fil rouge percorre tutto il romanzo di Paolo Vincenti, come sfondo e anche come leit motiv di momenti significativi: “(…) Grava lo scirocco sulle strade e sulle case, nemmeno una brezza, un refolo di vento a spezzare quel tutto compatto nell’immobile calma (…)”.

Una considerazione a parte merita lo stile di Paolo che ogni volta mi sorprende e suscita ammirazione. Uno stile che in tutti i suoi scritti sa catturare il lettore per la capacità di plasmarsi in modo originale sulle storie e sulle argomentazioni, attraverso un creativo plurilinguismo che spazia in svariati ambiti. Anche questa caratteristica viene contenuta nel termine “commedia”, sottotitolo del romanzo. In esso, questo inconfondibile stile mi ha colpito in particolare per il suo “nitore”. Uno stile sempre più immediato, limpido che “descrive” anche le situazioni più scabrose con disincantato distacco, con l’evidenza della verità di ciò che semplicemente “è”, “accade”. Uno stile a cui Paolo aggiunge il dono della sua particolare elegante ironia che sorride, a tratti implicita, a tratti corrosiva, tra le righe, della cura nella sapiente scelta delle parole, il tutto coniugato con una profonda eclettica cultura, “metabolizzata” al punto da filtrare, direi con nonchalance, nella “tessitura” delle pagine rendendole uniche, e di diversi livelli possibili di lettura, quasi il sigillo del “divertimento” letterario di Vincenti. Uno stile che sa vestirsi anche di colori e di poesia: “Il parco piano piano riprende il suo verde intenso, mentre fino ad allora vi trionfava il color zafferano che richiamava le luci di altre vite, rimandava bagliori di lontane atmosfere”;Nuvole color seppia si addensano minacciose”; “Lorenzo guarda la torre

cinquecentesca, irradiata da riflessi grotteschi , che pare un lugubre gigante contro il cobalto del cielo”. Riesce ad interessare anche il tatto come in “secolari ruvidi ulivi”, un “verso” vero e proprio che è immagine di potenza sensoriale, sottolineata da assonanze (della “i” e della “u”) e consonanze (della “r”), nonché dalla musicalità graffiante della possibile sinalefe tra ruvidi e ulivi.

Mi hanno colpita nel romanzo le descrizioni in cui spesso l’autore utilizza una struttura a climax degli enunciati e degli aggettivi, un modello che a me piace molto perché, a mio avviso, riesce a cogliere le sfumature della realtà. Vari gli esempi. Si è citata la descrizione della città “sbiadita, spiattellata, sbrindellata”; potrei selezionare ora la descrizione della citata Tina, personaggio ambiguo, per molti aspetti inquietante, il cui destino rimane aperto; solo apparentemente secondario, svolge un preciso ruolo nello spannung del racconto. Ricamatrice, mestiere affascinante dal sapore antico ereditato dalla madre: “A trent’anni si sentiva già come un fiore avvizzito, un biglietto scaduto, un treno passato (….) a quaranta era magra , pallida , emaciata”. Ancora un altro esempio: “Il risveglio della domenica di Oppido Tralignano ha qualcosa di soprannaturale. pretestuoso, fantasmagorico, premonitore, ma anche di salmastro, sfrigolante, salmodiante”.

La conclusione del libro è aperta. Ogni lettore potrà pensare una conclusione. Si tratta di una nuova illusione, di un inganno ipocrita o di un progetto e, perfino, di una speranza? Per Oppido Tralignano si è parlato nei termini usali della provincia, statica, “necrotica” per usare una parola del libro, oppressa e oppressiva, come il calore appiccicoso dello Scirocco. Io tra le righe ho letto, forse con un’interpretazione ardita, anche altro. Alla fine qualcosa si muove, i personaggi fanno delle scelte e il “potere”, pur ottenuto attraverso il ricatto e una forma di vendetta, viene assunto da una donna che detta le sue regole; si prospettano scenari di un possibile successo letterario. Mi pare con ciò di scorgere, al di là forse delle stesse intenzioni dello scrittore, un inizio di consapevolezza, qualcosa che da lontano somiglia alla speranza e così la voglia dichiarata di restare nella propria terra, non solo per inerte pigrizia o pretestuosa affermazione, ma come percezione d un valore sociale e civile. Il discorso finale di Lorenzo è pertanto del tutto ipocrita e velleitario o può essere interpretato anche, almeno da qualche lettore, con il beneficio del dubbio, quasi un invito ad una possibilità futura da conquistare con un impegno al cambiamento? Peraltro lo stesso Paolo è rimasto nel suo Salento e da qui, con scritti di vario tipo, spaziando dai romanzi ai saggi fino alla poesia, ha smascherato ipocrisie, ha fustigato con ironia e sarcasmo i costumi, senza edulcorare, ma con una lucidità che non sfocia tuttavia nel nichilismo, ma induce piuttosto alla riflessione e certo si nutre del sogno della speranza, forse remota e utopica, di un mondo migliore. Dall’indolenza alla “resipiscenza” si potrebbe dire, usando parole del testo. Se lo scirocco incombe, “ c’è sempre finalmente in arrivo la tramontana fresca. Non è tutto, non è nemmeno poco, ma bisogna pur accontentarsi”.

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