La spesa pubblica per l’istruzione aumenta costantemente a partire dal secondo dopoguerra, con forte accelerazione negli anni Settanta. Fra il 1971 e il 1984 passa dal 2.9% del Pil al 4.8%, raggiungendo nel 1984 il valore più alto. Da allora si stabilizza intorno a una percentuale del 4.5% per ridursi dopo il 2009 in modo consistente. Un leggero aumento dei finanziamenti si registra solo dopo il 2016, ma non si recupera il livello precedente ai tagli dei primi anni Duemila e soprattutto aumenta il precariato della ricerca.
Lo schema del Decreto Ministeriale del Ministro Bernini relativo all’assegnazione del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), recentemente acquisito dalla Conferenza dei Rettori, dal CUN e dal Consiglio degli Studenti, prevede una decurtazione di circa 500 milioni al sistema universitario, equivalente al 5,6% in meno rispetto all’anno scorso.
Si tratta di una misura che regge su motivazioni molto discutibili e che danneggia in modo rilevante l’economia italiana nel suo complesso, oltre a penalizzare gli studenti e le loro famiglie per l’accresciuta tassazione che gli Atenei – soprattutto quelli meridionali – devono imporre per ripianare i bilanci. SVIMEZ quantifica in oltre il 20% la percentuale di studenti meridionali iscritti a sedi universitarie del Nord, con una conseguente perdita di Pil stimata nello 0.20% su base annua per le regioni meridionali. Il nostro sistema universitario eroga, in percentuale, meno della metà delle borse di studio della media europea (10% a fronte del 25%). Le motivazioni che vengono di norma addotte per generare risparmi a danno del sistema universitario sono tre:
1) La necessità di contenere deficit e debito pubblico. Si tratta di una motivazione discutibile per la seguente ragione. L’istruzione, come è ampiamente noto, contribuisce in modo rilevante a tenere elevata la produttività del lavoro e, dunque, il tasso di crescita. La riduzione delle spese per l’istruzione, per conseguenza, riducendo il tasso di crescita, tende ad aumentare, non a ridurre, il rapporto debito pubblico/Pil, cioè a produrre l’effetto esattamente opposto a quello desiderato. L’effetto è tanto maggiore quanto maggiore è il moltiplicatore fiscale, che, inoltre, cresce nelle fasi recessive.
2) La necessità di assecondare il calo demografico. Si può osservare, per contro, che Paesi con la nostra stessa struttura della popolazione (in particolare, Germania e Giappone) spendono più di noi per formazione e istruzione.
3) L’opportunità di contrastare i professori fannulloni. Anche questo argomento è statisticamente falso, dal momento che, come documentato recentemente da OCSE, le pubblicazioni dei ricercatori italiani hanno ampia diffusione, in termini di citazioni, nel panorama internazionale (https://www.roars.it/la-buona-scienza-italiana-locse…/). La riduzione delle spese per le Università finisce per assecondare un modello di sviluppo, particolarmente nel Mezzogiorno, basato sulla moderazione salariale e sul lavoro poco qualificato, in assenza di innovazioni e di avanzamento tecnico e su una specializzazione produttiva in settori a basso valore aggiunto. Si ricorderà, a riguardo, l’emblematica dichiarazione di Silvio Berlusconi, per il quale “se facciamo le migliori scarpe del mondo, perché pagare gli scienziati?”. Uno dei fattori che ha contribuito al calo della produttività del lavoro in Italia è la perdita di capacità innovativa, che è fortemente dipendente dalla riduzione della spesa, sia pubblica sia privata, in formazione, istruzione e ricerca scientifica. Si può ricordare che il nostro Paese si è impegnato a destinare alla spesa in R&D l’1.52% del Pil, nell’ambito della strategia Europa 2020. Se confermata, la decisione del Governo ci allontana ancora di più da questo obiettivo.
[“La Gazzetta del Mezzogiorno”, 28 luglio 2024]