Il vecchio batté le mani e, alle donne avvicinatesi di corsa, tortoreggiò qualcosa con i suoni gutturali.
Prese il commissario per mano: «Vai, ruski, tendone. Dormi poco-poco. Poi pilaf mangi.»
Caddero tutti come some pesanti nel calore fumoso dei tendoni, dormirono come dei morti sino al crepuscolo. I kirghisi, nel frattempo, cucinarono un ricco pilaf, che offrivano insistentemente, carezzando amichevolmente i soldati Rossi lungo le schiene con le scapole appuntite.
«Mangia, ruski, mangia! Tua si è asciugata un po’. Mangia – tua, sano sarà!»
Mangiavano voracemente, ingozzandosi, soffocandosi con i bocconi grossi. I ventri si gonfiavano del pilaf grasso, in molti cominciavano a sentirsi male. Correvano all’aria aperta, nella steppa, si ficcavano le dita tremanti nella gola, si liberavano lo stomaco e si gettavano nuovamente sul cibo. Fiacchi e sudati, cotti dal caldo e dal cibo, si addormentarono un’altra volta.
Non stavano dormendo soltanto Marjutka e il tenente.
Marjutka si era accomodata vicino ai carboni ardenti del focolaio e non aveva oramai neppure la memoria delle sofferenze attraversate.
Aveva tirato dalla borsa il moncone recondito del lapis e stava tracciando lentamente le lettere sopra una pagina di un inserto illustrato della rivista “Novoe vremja”6, ottenuta, qui nel villaggio, a furia di insistenti preghiere, da una donna kirghisa. Sull’intera pagina era pubblicato un ritratto del ministro delle finanze, il conte Kokovtsev e, attraverso la fronte alta del ministro e la sua barbetta chiara a pizzo, si stendevano sempre più obliquamente, come nel malcaduco, le righe scritte di Marjutka.
Attorno alla cinta di Marjutka c’era, attorcigliata come prima, una briglia del cammello, l’estremità opposta della quale legava fortemente le mani del tenente incrociate dietro la schiena.
Per un’ora soltanto Marjutka aveva slegato la briglia, per permettere al tenente di saziarsi di pilaf, ma non appena aveva cessato di mangiare e si era staccato dal paiolo, lo aveva legato di nuovo.
I compagni rossi ridacchiarono: «E’ proprio come un cane al catenaccio.»
«Marjutka, hai preso una cotta? Legalo, legalo forte, il moroso tuo. Se no, non si sa mai, si presenterà sul tappeto volante, dritto dritto dal cielo, la principessa, Maria Marevna, e te lo porta via, il tuo diletto.»
Marjutka non li degnò neppure di una replica.
Il tenente stava seduto, appoggiando una spalla al palo del tendone. Seguiva incuriosito con le sferette blu oltremare gli sforzi difficoltosi del lapis.
Si spostò con il corpo in avanti e a voce piana, domandò: «Cosa stai scrivendo?»
Marjutka gli diede uno sguardo di sbieco da dietro una ciocca di capelli ramati caduta sugli occhi.
«E a te, che ti preme?»
«Forse hai bisogno di farti scrivere una lettera? Potresti dettarla – te la scrivo io.»
Marjutka rise sommessamente.
«Ma sentitelo, com’è sveltone! E secondo te, dovrei slegarti le mani, per poi farmi dare un pugno in faccia o una botta in testa, per farmi stendere, e tu intanto fuggi! Per chi mi prendi, furbacchione? E di aiuto tuo non ho bisogno. Non sto a scrivere una lettera, ma dei versi.»
Le ciglia del tenente si spalancarono a ventaglio.
«Dei ver-si! Tu scrivi le poe-sie?»
Marjutka interruppe le convulsioni del lapis ed arrossì vivamente.
«E cos’è che spalanchi tanto gli occhi? Eh? Cosa credi, solo per te è ovvio ballare i minuetti, invece io sono una cafona, stupida? Non sono più stupida di te!»
Il tenente allargò i gomiti, le sue mani erano legate dietro.
«Non ti considero affatto una stupida. Soltanto mi prende la meraviglia. I tempi di adesso sono adatti alle poesie?»
Marjutka lasciò il lapis da parte. Rovesciò bruscamente la testa, sciogliendo sulle spalle il bronzo-ruggine dei capelli.
«Curioso sei – a guardarti! E secondo te, le poesie vanno scritte in mezzo ai piumini? Ma se ho l’animo che mi bolle? Se sogno di descrivere nei versi come, infreddoliti e affamati, ci trascinavamo per le sabbie? Tutto il sangue metto in queste poesie. E solo che non vogliono pubblicarle. Mi dicono, che debbo studiare. Ma il tempo dov’è che lo trovi per lo studio? Dal cuore proviene, nella semplicità!»
Il tenente sorrise lentamente: «Mi potresti declamare qualcosa! E’ molto interessante. M’intendo di poesia.»
«Non capiresti. Hai il sangue signorile, sdolcinato. A te piacerebbero quelle, dove si parli dei fiorellini e delle femmine, io invece scrivo sempre della povera gente, della rivoluzione» – disse Marjutka malinconicamente.
«Perché credi che non sono in grado di capire?» – ribatté il tenente.
«E’ probabile che le tue poesie mi saranno estranee per il contenuto, ciò nonostante una persona è sempre in grado di capire un’altra.»
Marjutka, esitando un po’, mise il ritratto di Kokovtsev sottosopra. Abbassò gli occhi.
«Se è così, accidenti a te, allora ascolta! Non ridere però. Forse, il tuo babbo insieme ai precettori t’istruiva sino a vent’anni, invece io ad ogni cosa sono arrivata da sola.»
«No!.. Parola d’onore, non riderò, stai tranquilla!»
«Dunque, senti! Qui c’è tutto descritto. La battaglia con i cosacchi, come ci siamo inoltrati nella steppa.»
Marjutka diede un colpetto di tosse. Abbassò la voce sino al tono basso e, roteando gli occhi furiosamente, pronunciava le parole chiaro e tondo:
Ci attaccarono i cosacchi bianchi,
quei carnefici di corte dello zar,
ma ricevettero il fuoco di mitraglia
dai nostri combattenti rossi – temerari assai!
Una marea c’era di cosacchi bianchi,
da farci ritirare dall’impari battaglia.
Qui Evsjukov, il nostro commissario, ci ordinò,
il cerchio delle canaglie bianche con l’impeto sfondar.
E si sparava senza sosta a quei vigliacchi,
giacché noi eravamo comunque spacciati.
Perirono soldati di nostra compagnia,
siam riusciti in venticinque a sfuggire,
cercando la salvezza tra le sabbie del deserto.
«Il resto non mi viene, è proprio una scalogna, la peste dei pesci lo pigli, non so come mettere dentro i cammelli?» – troncò il discorso Marjutka con voce interrotta.
Stavano all’ombra le sferette blu oltremare del tenente, soltanto nel bianco degli occhi fioriva con un riflesso lilla il calore allegro del focolare, quando, dopo aver taciuto per un po’, replicò: «Sì… è forte! C’è molta espressività, sentimento, emozione. Capisci? Si nota benissimo che erano scritte con tutto l’animo.» A questo punto tutto il corpo del tenente sussultò fortemente e lui, come se avesse all’improvviso un attacco di singhiozzo, frettolosamente aggiunse: «Però non ti offendere, ma le poesie sono molto brutte: mal costruite, acerbe.»
Marjutka malinconicamente si fece cadere il foglio sul grembo. Guardò silenziosamente per qualche momento il soffitto del tendone. Strinse le spalle.
«Pure io dico, che hanno dentro tanto sentimento. Piange il mio cuore, quando sto a descrivere tutto questo. Ma del fatto che sono mal costruite, acerbe – lo dicono dappertutto, esattamente come avevi detto tu: “Le sue poesie mal costruite, acerbe, non possono essere pubblicate ”. E com’è che debbono essere costruite? Qual è il trucco? Ecco, lei è una persona di cultura, lei, forse, lo saprà?», – Marjutka per l’emozione diede persino del “lei” al tenente.
Il tenente tacque per un po’.
«E’ difficile risponderti. La poesia, è vero, è un’arte. E come ogni espressione artistica, necessita di studi ben precisi, avendo le sue regole e leggi. Per esempio, se un ingegnere non conoscesse perfettamente tutte le regole per la costruzione di un ponte, non lo costruirebbe affatto o se comunque lo costruisse, il ponte sarebbe davvero orrendo e non utilizzabile.»
«Ma si tratta di un ponte! Per costruirlo bisogna conoscere la aritmetica e tante altre scienze del mestiere di ingegnere. Le poesie in me, invece, dall’età della culla, sono depositate dentro. Diciamo, un talento!»
«Sì, il talento serve, indubbiamente, ma deve essere sviluppato con lo studio. Un ingegnere diventa un ingegnere e non un medico, proprio perché sin dalla nascita aveva una spiccata inclinazione verso le costruzioni. Tuttavia se non studiasse, non riuscirebbe a diventare un ingegnere.»
«Sì?… Bella roba! Ma che guaio, la peste dei pesci lo pigli! Ecco cosa dico: non appena finirà la guerra, sicuramente andrò a studiare, per imparare a scrivere le poesie. Ci saranno, magari, le scuole create apposta?»
«Credo, esistano, certamente» – rispose il tenente impensierito.
«Senz’altro mi iscriverò in una di quelle. L’idea fissa sulle poesie non mi fa campare come si deve. Tocca sul vivo il desiderio di vederle stampate su un libro, con dappertutto una scritta sotto: “La poesia di Maria Bassova”.»
Si spense il focolare. Nel buio borbottò il vento, frugando nel feltro del tendone.
«Senti tu, cadetto,» – disse Marjutka all’improvviso, – «ti fanno male le mani?»
«Non tanto! Sono solo intorpidite!»
«Sai che ti dico. Giurami che non vuoi scappare. Così ti slego.»
«E dove potrei fuggire? Nelle sabbie? Per essere sbranato dagli sciacalli? Dovrei essere nemico di me stesso!»
«No, giura. Ripeti le mie parole. Io giuro, in nome del povero proletariato che sta lottando per i propri diritti, davanti al soldato della Guardia Rossa, Maria Bassova, che non voglio fuggire.»
Il tenente ripeté il giuramento.
Un cappio stretto della briglia si sciolse, lasciando liberi i polsi.
Il tenente con piacere mosse le dita.
«Su, dormi,» – sbadigliò Marjutka, – «adesso se scappi, saresti l’ultimo mascalzone. Tieniti il tappeto di feltro, copriti.»
«Grazie, mi sta bene il pellicciotto. Buona notte, Maria…»
«Filatovna» – aggiunse con dignità, Marjutka, il suo patronimico e si infilò frettolosamente sotto il tappeto di feltro.
Evsjukov aveva premura di dare notizie di sé al suo quartier generale del fronte.
Nel villaggio kirghiso i soldati del distaccamento dovevano tuttavia riposare, scaldarsi come si deve, ingrassare un po’ per tornare in forze. Soltanto una settimana più tardi, quindi, avrebbe deciso di mettersi in cammino, aggirando la costa, verso il villaggio russo di pescatori «Aral’skij» e da lì, muoversi dritto a Kasalinsk.
Nel frattempo, da una conversazione con alcuni kirghisi di un’altra comunità, arrivati nel villaggio, seppe che, ad una distanza di più o meno quattro verste, sulla riva dell’Aral, durante una tempesta autunnale era stato gettato fuori dalle acque un peschereccio. I kirghisi dissero, che il battello era in ottime condizioni, che stava sempre in riva all’Aral e, per quanto riguarda i pescatori, si vede che sono finiti in fondo al mare.
Il commissario andò a verificare.
Il peschereccio risultò essere quasi nuovo, costruito di un resistentissimo rovere giallo. La tempesta non lo aveva danneggiato molto. Aveva strappato soltanto la vela e aveva rotto il timone.
Dopo essersi consigliato con i suoi soldati, Evsjukov decise di spedire una parte del distaccamento via mare alla foce del fiume, Syrdarja. Il battello era in grado di ospitare tranquillamente quattro uomini di equipaggio con un piccolo carico.
«Non c’è niente di meglio» – disse il commissario. «Come prima cosa, l’ufficiale arrestato sarebbe consegnato ai nostri al più presto. Se no, il diavolo solo sa, che cosa ancora ci potrebbe accadere strada facendo. Invece lo dobbiamo per forza portare sino al nostro quartier generale. E poi, non appena nel quartier generale sapranno di noi, ci manderanno in aiuto un distaccamento di cavalleria con delle uniformi nuove e qualche altra cosa. Con il vento in poppa, il battello in tre-quattro giorni attraverserà il mar di Aral e al quinto giorno la spedizione arriverebbe a piedi a Kasalinsk.»
Evsjukov scrisse un rapporto; lo cucì nel pacchettino di tela insieme ai documenti del tenente, che per tutto questo tempo aveva conservato nella tasca interna della giubba.
Le donne kirghise ripararono la vela con le toppe di pezzi di stuoia, e il commissario personalmente fece un timone nuovo con i resti delle assi di legno e una panchina tolta dal battello.
In un gelido mattino di febbraio, quando il sole basso, come un luccicante catino di rame, si mise a strisciare sull’immenso turchese terso del cielo, il battello fu trascinato sul ghiaccio con il tiro dei cammelli sul limite radente all’acqua.
Vararono il battello sulla distesa delle acque, fecero accomodare a bordo l’equipaggio.
Evsjukov disse a Marjutka: «Sarai a capo della spedizione! Tutta la responsabilità, a questo punto, è tua. Stai attenta al cadetto. Se ti dovesse sfuggire, meglio che sparisci per sempre dalla faccia della terra. Al quartier generale portalo, vivo o morto. Se per caso dovessi imbatterti nei Bianchi, non consegnarlo da vivo. E adesso, coraggio, muovetevi!».
(continua)
[Traduzione dal russo di Tatiana Bogdanova Rossetti]