D’Annunzio e il Malladrone

La Santina di Gallipoli. Il 4 ottobre 2005, festa di San Francesco d’Assisi,  ricordo il vecchio Don Armando, “papa Mazzola”, celebrare messa, con le mani tremanti (ormai era in pensione da diversi anni), in quella chiesa che l’aveva visto parroco per tanti anni. E poi ero con lui in sacrestia, sottobraccio a mia moglie,  a ricordare le maratone con don Tonino Bello,  i miei drammi, il “Caso Gesù” e la “ Santina di Gallipoli”, che, insieme, (per la Santina, fu lui a fornirmi il materiale)  avevamo tentato di far rivivere nel cuore e nelle menti della gente gallipolina portandola sulla scena, nel 1992, 60 anni dopo la sua morte. C’è ancora la grande fotografia della “pulzella” di Gallipoli, al secolo Lucia Solidoro, figlia di pescatori, vestita con un saio grigio, con le mani giunte. E poi  le varie reliquie, e un fascio incredibile di lettere, (centinaia e centinaia di “grazie ricevute”). E subito dopo eccoci  presso il cappellone del “Santo Sepolcro”, detto degli Spagnoli, fatto erigere dal castellano di Gallipoli, Don Giuseppe De La Cueva, in onore dei soldati spagnoli morti  in Gallipoli.E’ lì che ci attende l’altro grande personaggio della chiesa, il  “Malladrone”, la statua lignea crocifissa, ormai famosa in tutto il mondo, capolavoro di un frate, Vespasiano Genuino, artista religioso del XVII secolo che aveva un grande arco puro nella mente e mani piene d’amore e d’umanità. Oggi la “Santina” sembra di nuovo dimenticata, caduta nell’oblìo, mentre il “Malladrone” accresce la propria famigerata popolarità, è divenuto uno delle meraviglie di Gallipoli (basta leggere i depliant degli itinerari turistici: “Venite nella città bella, ad ammirare la cattedrale, il mercato del pesce e il Malladrone”).

Chi era il Malladrone? Colui che non si pentì dei suoi misfatti, nonostante avesse vicino a sé, sul Golgota, croce a croce, Cristo in persona, il Messia, che aveva invocato  il perdono per i suoi nemici , che  aveva predicato l’amore per tutta la vita, anche l’amore impossibile – “ ama i tuoi nemici… e se ti schiaffeggiano su una guancia, tu porgi anche l’altra”, il più assurdo e il più  splendido imperativo categorico del cristianesimo .Gesù lo perdonò, ma i gallipolini no. La sua statua è da sempre obiettivo di odio eterno, “quell’odio un po’ ingenuo e vendicativo del popolo – scrive Oliviero Cataldini – che sfoga su di esso tutte le proprie miserie, frustrazioni e sofferenze: sputi e parolacce a gogò, infatti, da sempre, piovono sull’orrida maschera del Malladrone”. Conferma l’amico prof. Giorgio Barba: “Da bambini ci spaventavamo davvero nell’ascoltare la leggenda de “lu Mallatrone”, quella statua in legno coi vestiti sempre strappati raffigurante Misma, il cattivo ladrone, che rappresenta il male della terra,  non ci faceva dormire la notte” . E molti poeti locali lo hanno cantato. Però bisogna andare lì, nella chiesa di San Francesco,  nella cappella  a lui riservata, sotto la sua croce e guardare il suo ghigno nella penombra, per capire tutto ciò. Il Malladrone lo si può  capire solo vedendolo da vicino, e, magari, al lume di candela, come usava fare un tempo, e come capitò una sera d’estate a Gabriele Dannunzio, il vate, approdato nel porto di  Gallipoli il  28  luglio 1895.

Gabriele D’Annunzio. Scrisse sul suo taccuino di bordo: “Scendiamo a terra per fare qualche spesa. Alcuni gallipolini ci offrono di mostrarci il “mal ladrone“. Sembra che questo crocifisso sia il personaggio più importante della città. Era una sera festaiola, come sempre a  Gallipoli d’estate. C’era un gran frastuono di banda musicale, di gran cassa, di campanelle come in una fiera. Al di là del ponte, sulla passeggiata del corso XX Settembre  ( l’attuale Corso Roma ndr), dove un gran sedile in muratura si prolungava da un capo all’altro, la gente stava seduta, di fronte al porto, e guardava i lumi della sera…Il guardiano ci porta nella chiesa, entriamo, accende una candela in cima a una canna e ci conduce in una cappella oscura. Sollevando il moccolo illumina una figura di legno dipinto inchiodata ad un‘alta croce. Il fantoccio ha una strana espressione di vita atroce, nell’ombra.”

Il Panfilo “Fantasia”. A D’Annunzio i gallipolini avevano raccontato mille storie sul Malladrone. Ad esempio che aveva sempre i vestiti “strazzati” (strappati, lacerati, ridotti in brandelli) e non c’era verso di cambiarglieli anche cento, mille volte, il giorno dopo tornavano gli stessi. E’ tuttora celebre in tutta la  provincia di Lecce il detto “vai vestito come il malladrone di Gallipoli”, quando si incontra una persona mal vestita o con dei cenci indosso. E  inoltre si riteneva  che i denti della statua  fossero o quelli dell’autore ( Il frate Mastro Genuino) o  quelli di un condannato  a morte, a cui avevano tagliato la testa.  E poi altre leggende, che facevano rizzare  capelli, come quella di  Misma che ogni sera scende  dalla croce e vaga per le strade della città per spaventare a morte  i disgraziati ritardatari (ad una certa ora si chiudeva  il ponte levatoio e nessuno poteva più entrare nell’isola) . E’ evidente che per tutta una serie di motivi , legati anche all’estetica dannunziana,  il Malladrone rimase fortemente impresso nell’animo del Vate che lo rievocherà diverse altre volte , ad esempio nel romanzo “La Seconda amante di Lucrezia Buti”: Il giovane D’Annunzio (allora aveva trentadue anni ), proprio  in quel periodo iniziava il suo lungo e fortunato (ma anche burrascoso) rapporto con il teatro e con la grande Eleonora Duse, che aveva una decina d’anni più di lui  ed era gelosissima.  Ma  sul panfilo  “Fantasia” che  da Gallipoli lo avrebbe portato  in Grecia, oltre l’equipaggio, c’erano solo uomini: lui stesso, il giornalista e scrittore Edoardo Scarfoglio (proprietario dello yacht), l’antropologo Guido Boggiani, e il critico letterario francese Georges Herelle, traduttore delle opere di D’Annunzio. Boggiani, il pioniere dell’etnologia italiana , che verrà ucciso nel corso di una spedizione in Paraguay, a Chaco, nel 1902, l’unico che conosceva Gallipoli, li aveva preceduti. Gli altri erano arrivati col treno il 28 luglio 1895. Leggiamo sul diario di D’Annunzio: “Arrivammo nelle prime ore del pomeriggio con gli occhi abbagliati dalle bianche città ardenti sparse nel piano che il treno attraversava,  lunghe ed esigue zone di case cubiche tra le vigne ricchissime o tra i grandi olivi contorti in attitudini di dolore come per distaccarsi dalle radici che li annodano alla terra. Troviamo Guido alla Stazione, con quella sua faccia simile a una maschera su cui sia rimasta una leggera traccia di doratura. Ci  conduce al porto. La baleniera  “Fantasia” ci attende … Gallipoli è tutta bianca sotto il sole affocata come una città araba della costa d’Africa. L’acqua intorno è limpidissima,  si vede il fondo del mare  simile a una prateria seminata di pietre rilucenti. Gallipoli nuova si distende in fondo sulla lingua di terra protesa verso Taranto. E’ tutta bianca, con i tetti orizzontali, abbagliante di candore. Mentre Gallipoli vecchia è su un isolotto roccioso a cui s’accede dalla terra ferma per un ponte di pietra. Città marittima per eccellenza. Da per tutto è la vista dell’acqua e delle scogliere. Le costruzioni si protendono nel mare come moli”.

Partenza per la Grecia. Il giorno dopo, il 29 luglio 1895, di buon mattino lasciano la città bella: “Alle quattro e mezza si salpa l’ancora. Si piegano le vele. Usciamo dal porto con un buon vento, per sorpassare il Capo di Santa Maria di Leuca, in direzione NNO. Gallipoli appare dietro di noi magnifica su la roccia, con il suo castello forte che la termina come una prua. Le case bianche, splendenti: una città di gioja. Verso il tramonto il vento comincia a mancare. Alle otto il vento è quasi cessato. La “Fantasia” rimane quasi immobile a cullarsi su l’onda morta”. In precedenza, il 10 luglio 1895, Gabriele D’Annunzio aveva preannunciato  al suo editore, Treves, le motivazioni che lo inducevano a intraprendere il viaggio verso la Grecia: «Andrò in Oriente per cinque o sei settimane: agli scavi di Delfo e di Micene, alle rovine di Troia. Queste visitazioni votive sono richieste dai miei studi attuali. Mi sono rituffato nell’Ellenismo» . In realtà, giunti in Grecia,  il primo agosto del 1895, la programmata “full immersion”  culturale si svolse in tutt’altro modo rispetto a come la descrisse il poeta. Non ci fu nessun grande reportage  giornalistico, né motivi di grande ispirazione, ma qualcosa di molto diverso, assai più materiale. Infatti, secondo quanto annotò  sul suo diario il Comandante del Panfilo “La Fantasia”, Capitano di Lungo Corso Francesco Cacace, tutti quegli intellettuali si comportarono come un gruppo di scostumati gatti bizantini in calore,  stavano sempre nudi in coperta,  senza far nulla, e, una volta a terra, si gettavano nei  porti a cercare donne di malaffare  da condurre a bordo,  “come fanno ,di solito, i peggiori marinai”

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