Racconti sovietici 9. Quarantunesimo 3

Evsjukov con molta cura aprì sopra la sua borsa da campo un pacchettino di tela rinvenuto nel taschino e, divorando a lungo con gli occhi dei fogli, lesse attentamente i documenti che vi erano contenuti. Poi girò per qualche tempo la testa e si mise a riflettere.

Dai documenti risultava; che il tenente della guardia imperiale, Govorucha-Otrok Vadim Nikolaevič, era stato ufficialmente inviato per rappresentare il governo del governatore supremo della Russia, ammiraglio Kolčiak, presso il governo di Zakasspijsk del generale Denikin5.

Il tenente doveva invece, riferire verbalmente al generale Drazenko le commissioni riservate, come indicava la lettera d’accompagnamento.

Ripiegato i documenti, Evsjukov se li mise con cura sul petto e chiese al tenente: «Di quali commissioni riservate si tratterebbe, signor tenente? Dovrebbe raccontare tutto a questo punto, senza nascondere nulla, in quanto lei adesso è un prigioniero delle Guardie Rosse e io sono il comandante, commissario Evsjukov.»

Si alzarono di colpo su Evsjukov le sferette color blu oltremare del tenente.

Il tenente sogghignò, sbatté i tacchi.

«Monsieur Evsjukov? Molto lieto di fare la sua conoscenza! Purtroppo non ho l’autorizzazione del mio governo per tenere trattative diplomatiche con personalità di un tale rilievo.»

Le efelidi di Evsjukov impallidirono ancor più della faccia stessa. Davanti a tutto il suo distaccamento il tenente apertamente lo stava deridendo.

Il commissario tirò fuori la sua pistola a tamburo.

«Tu, una schifosa tarma bianca! Non fare lo spiritoso! Scegli: o raccontarci tutto quanto, o ricevere subito una pallottola in bocca!»

Il tenente si strinse nelle spalle.

«Un fesso sei, anche se sei un commissario! Ammazzandomi rimarrai del tutto a bocca asciutta!»

Il commissario mise giù la rivoltella ed imprecò.

«Ti farò ballare, eccome, bastardo, figlio di un cane, così che dovrai cantare ogni cosa» – brontolò.

Il tenente trattenne il sorrisetto nell’angolino delle labbra.

Evsjukov lasciò correre e si allontanò.

«Compagno commissario, che si fa? Lo mandiamo al Creatore?» domandò un combattente del distaccamento.

Il commissario si grattò il naso spelacchiato.

«No… non sta bene. Si tratta di un pezzo grosso. Dobbiamo portarlo a Kasalinsk. Lì, nel nostro quartier generale, riusciranno ad ottenere da lui tutte le informazioni.»

«Si deve portare dietro pure quell’accidente? Ma pensa, noi stessi non si sa se arriviamo?!».

«Non abbiamo per caso iniziato ad arruolare degli ufficiali?»

Evsjukov, col petto in fuori, lo interruppe bruscamente: «Di che t’impicci? La decisione è mia, e pure la responsabilità. E’ chiaro?»

Voltandosi, vide Marjutka.

«Ah, eccoti! Marjutka! E’ a te che affido Sua Signoria. Tieni gli occhi ben aperti. Se te lo lasci scappare: ti stacco la testa!»

Marjutka in silenzio alzò di scatto la carabina in spalla. Si avvicinò al prigioniero.

«Ehi, tu, vieni qua. Da questo momento sarai ai miei arresti. Ma non sperare, perché sono una femmina, che da me si possa scappare facilmente. Provaci a correre e a trecento passi con una pallottola ti faccio fuori. Una volta ho mancato il colpo, un’altra volta non sperare più, la peste dei pesci ti pigli.»

Il tenente storse gli occhi, trasalì dalla risata e fece un inchino ricercato.

«Son lusingato d’essere prigioniero di una meravigliosa amazzone.»

«Cosa? Che cavolo dici?» – cantilenò Marjutka, gettando uno sguardo fulminante al tenente. «Uno da poco! Magari non sai far altro che ballare dei minuetti? Via le chiacchiere! Dài, cammina al passo. Avanti marc’!»

Alla fine di questa giornata pernottarono in riva ad un laghetto.

Da sotto la lastra di ghiaccio, l’acqua salata sprigionava una forte puzza di marcio e di iodio.

Dormivano come dei morti. Dai cammelli kirghisi avevano tolto i tappeti, le coperte di lana, si erano arrotolati dentro, imbacuccati come Dio comanda: un tepore paradisiaco!

Al tenente di guardia Marjutka per la notte legò forte le mani e i piedi con una briglia sciolta del cammello, attorcigliandola poi alla cintura, e l’estremità se la fissò ad una mano.

I compagni attorno ridevano sguaiatamente. Semennyj dagli occhi a fior di testa, gridò: «Guardate, fratelli, come Marjutka ammalia il suo moroso con una magica briglia incantatrice!»

Marjutka lanciò un’occhiata di sbieco agli uomini sbellicati dalle risa.

«E andate al diavolo, la peste dei pesce vi pigli! Altro che beffe… E se scappa?»

«Tonta! Non avrà mica una zucca vuota al posto della testa! Dov’è che potrebbe fuggire, nelle sabbie?»

«Nelle sabbie o non nelle sabbie, ma così è molto più sicuro. E tu, dormi, damerino sventato.»

Marjutka spinse il tenente sotto una coperta di feltro, lei stessa gli si addossò di fianco.

Era dolce dormire sotto un caldo tappeto, sotto il feltro odoroso. Il feltro sprigionava l’aroma del sole di luglio della steppa, dell’assenzio, delle vastità infinite delle sabbie granulose. Poltriva il corpo, si cullava nel piacevolissimo sopore.

Evsjukov stava russando sotto il tappeto, con il sorriso sognante sul volto Marjutka aveva spalancato le braccia nel sonno e, sdraiato supino con aria distaccata, serrando le sue sottili labbra ben disegnate, dormiva il tenente della guardia, Govorucha-Otrok.

Non dormiva soltanto un soldato-sentinella. Stava seduto sul bordo del tappeto di feltro, sulle ginocchia ci stava l’inseparabile carabina, assai più stretta della moglie e della morosa.

Guardava fisso nell’oscurità biancastra del nevischio, dove tintinnavano sordamente i sonaglietti dei cammelli.

Avevano adesso quarantaquattro cammelli. Era chiaro e diretto il cammino, benché duro, difficile.

Non c’erano più dubbi nei cuori dei soldati del distaccamento rosso.

Il vento soffiava, prorompeva con un fischio sonoro, si lanciava per entrare con dei fiocchi di neve nelle maniche del pastrano del soldato-sentinella. Si rannicchiò il soldato-sentinella, alzò il bordo opposto del tappeto di feltro, se lo buttò sulla schiena. Subito il vento smise di pungere con degli aghi gelidi, il corpo intirizzito si riscaldava.

Neve, foschia, sabbie granulose.

Tempestoso paese asiatico.

«Dove sono i cammelli? I cammelli, dove stanno, maledetto figlio di cagna! Accidenti a te, canaglia schifosa, brutto ceffo butterato! Dormire? Dormire? Cosa hai combinato, vigliacco? Ma io ti scanno!»

Girò la testa il soldato-sentinella per una botta tremenda sferratagli nel fianco con il piede nello scarpone. Come uno stordito il soldato-sentinella girò gli occhi attorno.

Neve e foschia.

Oscurità nebbiosa. Sabbie granulose.

Non c’erano più i cammelli.

Dove pascolavano i cammelli, c’erano soltanto le orme dei cammelli miste a quelle umane. Erano le impronte delle calzature a punta kirghise.

A giudicare dalle impronte umane, tre kirghisi avevano seguito, evidentemente, e spiato il distaccamento per tutta la notte e, non appena il soldato-sentinella si fu addormentato, si ripresero tutti i cammelli, conducendoli con loro nel deserto.

Riunendosi in folla, tacevano i combattenti rossi. Non c’erano cammelli. Dove correre all’inseguimento? Non li raggiungi mica, non li ritroverai più nelle sabbie…

«Fucilarti, brutto figlio di cane, è poco!» – disse Evsjukov al soldato-sentinella.

Tace il soldato-sentinella, solamente le lacrime sulle ciglia gli si erano gelate in cristallini.

Si sbrogliò da sotto un tappeto di feltro il tenente. Diede un’occhiata attorno, emise un fischio. Con un sorrisetto ironico, disse: «Eccola, la disciplina sovietica! Babbei!»

«Taci almeno tu, carogna!» – tuonò Evsjukov furiosamente e con voce estranea, arrochita, sussurrò: «A che pro rimaner fermi? Mettiamoci in cammino, fratelli!»

Soltanto in undici, in fila indiana, vestiti di cenci, barcollando, si arrampicarono dondoloni, aiutandosi con le mani, sulle dune.

Come pietre miliari lungo la strada nera, rimasero distesi per sempre nelle sabbie gli altri dieci.

Avevano aperto la mattina, per l’ultima volta gli occhi offuscati per la fiacchezza tremenda, si indurivano, gelavano, diventando come dei tronchi d’albero, le gambe gonfie e, invece di una voce, dalla bocca usciva un rantolo soffocante.

Si avvicinava al moribondo il rosso-lampone Evsjukov, ma la faccia del commissario non aveva oramai lo stesso colore. Si era rinsecchita, ingrigita la sua faccia e le efelidi erano diventate pari pari ai vecchi soldini di rame.

Guardava, scuoteva il capo. Poi la gelida canna della sua pistola a tamburo bruciava la tempia incavata del povero moribondo, lasciando soltanto una ferita tonda, quasi del tutto priva di sangue, piccola e un po’ annerita.

Sotterravano frettolosamente il corpo del compagno morto sotto uno strato di sabbia e si rimettevano subito in cammino.

Si stracciarono del tutto le giubbe e le braghe, in pezzi si ridussero gli scarponi; si fasciavano i piedi con i brandelli dei tappeti, avvolgevano le dita congelate con stracci.

In dieci stavano camminando, inciampando e oscillando sotto le raffiche del vento.

Uno soltanto camminava tutto dritto, tranquillo.

Il tenente della guardia, Govorucha-Otrok.

Più volte dicevano i combattenti rossi ad Evsjukov: «Ma compagno commissario! Perché dobbiamo portarcelo dietro? E’ solo una bocca in più. Ha inoltre vestiti e scarpe buoni, si potrebbe dividerli fra noi».

Evsjukov vietava però di toccare il tenente.

«Lo porterò al nostro quartier generale o insieme con lui creperò. Può raccontare un sacco di cose. Non sarebbe giusto, eliminare un uomo così. Il suo destino è segnato in ogni caso.»

Le braccia del tenente erano legate da una briglia del cammello, Un’estremità della briglia era legata forte alla cintura di Marjutka. Camminava a stento Marjutka. Sul volto bianco, come un cencio lavato, si era solo accentuata ancor più la lucentezza giallognola felina degli occhi, divenuti enormi.

Ma al tenente non gliene importava niente. Era solo, forse, un po’ più pallido di prima.

Un giorno Evsjukov gli si avvicinò, guardò dritto dritto nelle sue sferette di un blu oltremare, e con un rauco latrato che gli uscì di bocca, domandò: «Accidenti! Che fibra resistente hai! A guardarti sei gracile, ma stai tirando per due. Qual è il segreto, da dove prendi le forze?»

Si storsero le labbra del tenente nel suo solito sorrisetto. Pacatamente rispose: «Non saresti in grado di comprenderlo, commissario. C’è una differenza di culture. A te è il corpo a sopraffare lo spirito, invece a me è lo spirito a sopraffare il corpo. Posso obbligarmi di non soffrire.»

«Ah, ecco di che si tratta» – cantilenò Evsjukov.

Ritte ritte stavano tutto attorno le dune: soffici, aride, ondulate. Sulle cime serpeggiava con un sibilo la sabbia smossa dal vento e pareva che non avrebbero mai avuto fine.

Cadevano gli uomini sulla sabbia, digrignando i denti. Piangevano a dirotto, soffocando ed urlando: «Non mi muovo più. Lasciatemi riposare. Sono sfinito.»

Evsjukov si avvicinava, faceva alzare a forza di imprecazioni, con le botte.

«Forza, cammina! Non puoi disertare la rivoluzione!»

Si alzavano. Andavano avanti. Uno salì in cima ad una duna. Voltandosi, mostrò il suo cranio con i denti furiosamente digrignati e strillò a squarciagola: «Aral!.. Fratelli!.. Aral!..»

E cadde bocconi. Evsjukov a gran fatica salì di corsa in cima alla duna. All’improvviso un colore blu accecante gli entrò negli occhi infiammati. Socchiuse gli occhi e si mise raschiare la sabbia con le dita rattrappite.

Non era a conoscenza il commissario né di Cristoforo Colombo, né del fatto che nella stessa identica maniera raschiarono il legno del ponte di coperta delle caravelle i navigatori spagnoli, sentendo gridare: «Terra! Terra!».

(continua)

[Traduzione dal russo di Tatiana Bogdanova Rossetti]

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