di Adele Errico
In Una notte al Museo Russo (Laterza 2024), Paolo Nori racconta che suo nonno faceva il muratore. Quando piove i muratori non lavorano e suo nonno quando pioveva e quindi non lavorava, si metteva in poltrona e leggeva dei romanzi per ore. E quelli sarebbero stati gli stessi romanzi che, poi, avrebbe letto lui. Nori è maestro di autofiction e la straordinaria capacità di narrare le vicende della propria vita si manifesta, nei suoi numerosi romanzi, attraverso le voci e le identità di Learco Ferrari e Ermanno Baistrocchi, per poi arrivare ad abbandonare ogni alter ego e divenire, semplicemente, Paolo Nori. E Nori non sarebbe Nori senza il russo e la letteratura russa, una passione, – ma “passione” non va bene, sembra riduttivo; chi ha una passione sentirebbe una sorta di fastidio nel sentirla chiamare “passione”, perché è un tarlo, è qualcosa che toglie il sonno e allo stesso tempo una necessità, è come il pane o l’acqua – nata dal primo Dostoevskij letto, Delitto e castigo, che ha squarciato in lui una ferita che Sanguina ancora – titolo di uno dei suoi ultimi romanzi – e non smette mai di sanguinare, anzi, se possibile quella ferita di lui quindicenne si è dilaniata ancora di più, accogliendo molti altri poeti e scrittori russi: da Anna Achmatova (“Prima di primavera c’è dei giorni/che alita già sotto la neve il prato,/che sussurrano i rami disadorni,/e c’è un vento tenero ed alato./Il tuo corpo si muove senza pena,/la tua casa non ti par più quella,/tu ricanti una vecchia cantilena,/e ti sembra ancora tanto bella”) a Boris Pasternak (“Vivere una vita non è attraversare un campo”) a Velimir Chlebnikov (“Quando stanno morendo, i cavalli respirano,/quando stanno morendo, le erbe si seccano,/quando stanno morendo, i soli si spengono,/quando stanno morendo, gli uomini cantano delle canzoni”).