Perciò mi pare di poter leggere nelle Storie dello scirocco (Besa, 2024) anche il significato di una impari lotta tra le grandi concentrazioni editoriali che impongono le loro scelte anche attraverso il controllo del mercato librario e le case editrici di dimensioni più modeste che ancora si tengono stretti gli autori e i loro testi e non diventano, come fa Nunzio Leone, teatro di produzione di testi a pagamento per illudere autori alla ricerca di una notorietà cui non sono destinati, perché lasciati a se stessi e alle loro illusioni. In fondo, Nunzio, Lorenzo e gli altri personaggi di Vincenti lottano, anche slealmente e malignamente, per difendere piccoli territori di provincia e il vero “tragico” di questo bel romanzo di Paolo Vincenti è lo scrittore senza talento che indossa squallide maschere per celare il suo fallimento, si abbassa a scrivere recensioni a scrittrici ancor più fallite per strappare ricompense sessuali, partecipa al ricatto della vendicativa Fabrizia, fa soldi giocando col fuoco e poi si impanca a difensore del Sud. La verità è che lo scirocco non soffia solo sul Salento o sul sud, ma investe e avvolge la grande e ormai diffusissima mediocrità della nostra cultura e della nostra vita politica, affidata, come vediamo ogni giorno, a personaggi che starebbero bene ad Oppido Tralignano, tra le pagine di Vincenti. Devo dire che ha ragione Gianluca Virgilio quando scrive, come ho letto in una delle tantissime recensioni ricevute da Paolo al precedente libro, I segreti di Oppido Tralignano (Agave Edizioni, 2023), che Oppido Tralignano già nella felice scelta lessicale indica il tralignamento, ovvero l’allontanamento da una perduta condizione originaria e disegna una degenerazione che riguarda un po’ tutto il nostro sventurato Paese. Sardonico finale, dunque, non di una commedia, ma, purtroppo, di una vera tragedia su cui Vincenti mette in scena, con la sua scrittura inglobante, come l’ha definita Vitaldo Conte, un metodo di scrittura che riesce a dare nuova vita a parole usate e adoperate da altri, una riscrittura intelligente, parodica, irriverente, a volte francamente spiazzante e volutamente plebea, un immaginario governato anche da echi di temi della grande classicità greca e latina, ma imbastarditi, aggiungerei io, dalla depravazione connessa inesplicabilmente al tramonto della nostra società. Un finale che descrive, così, una vincente irragionevolezza derivata da un giudizio disincantato sul mondo, il dionisismo come scelta consapevole e destinata ormai alla sottolineatura enfatica della sfrenatezza, l’ancestralità diventando, a questo punto, semplicemente un altro rimpianto di un mondo allo sbando in cui riusciamo a sopportare il male riducendolo a insignificanti tessere visive. Qualche recensore ha anche nominato il realismo magico, per il precedente libro, ma io sono dell’avviso che in quest’ultimo che qui si presenta, non si tratti tanto di quello sudamericano di Garcia Marquez o di Isabel Allende, ma di quello che in Italia va da Bontempelli a Buzzati, se accettiamo l’idea di una tecnica della scrittura che riesce a far emergere aspetti della realtà inediti che rasentano l’oniricità, la paradossalità e, nel caso di Paolo Vincenti, ribaltano l’unidimensionalità a favore di una complicazione di piani temporali. Faccio anche notare che, in questo mondo che si potrebbe considerare alla rovescia solo da parte di inguaribili cantori dell’ottimismo, accade per giunta che i personaggi che potremmo chiamare principali non riescano neppure a rendersi conto della loro mancanza di qualità – potrei scomodare Musil che però non c’entra col caso di specie -, ma, così facendo, riescano ad essere più letali ancora e perfino a renderci credibili (umanamente o meglio disumanamente) personaggi rivoltanti come il barone Gattamelata e la sua insaziabile moglie svedese Helena.
Quando ho letto il bel titolo del libro di Vincenti, nel mio cervello di letterato si è immediatamente materializzato un ricordo montaliano. Vorrei ricordare qui, la storia filologica di questo componimento (L’agave su lo scoglio) che oggi leggiamo nella sezione Meriggi e ombre di Ossi di seppia.
Come certo saprete, non abbiamo un manoscritto e neppure un dattiloscritto completo degli Ossi, ma esistono diversi fascicoletti inviati dal poeta ad amici, che contengono sezioni più o meno estese del libro. E in un fascicoletto inviato all’amico Angelo Barile e datato 15-25 luglio 1922 (quindi centodue anni or sono, giorno più o giorno meno e la circostanza mi ha intrigato) troviamo proprio L’agave su lo scoglio, una suite in tre tempi che chiamerei ventosi, dal momento che sono dedicate a scirocco, tramontana e maestrale. In quella sottointitolata Scirocco leggiamo alcuni mirabili versi, che lascio alla ricerca e alla memoria dei lettori, non stupendoci certo che un poeta ligure avverta come noi la potenza e il diverso significato “caratteriale” dei venti. Ricordo solo che Ossi di seppia viene pubblicato nel 1925 da un editore che portava il nome di Piero Gobetti, oggetto della diretta persecuzione di Mussolini per le sue idee liberali e morto a Parigi in esilio, probabilmente in conseguenza del pestaggio squadristico subito a Torino. Un libro, insomma, non incide solo per il suo valore in sé ma anche per le suggestioni che crea.