Dunque: uscendo laureato (Leopardi) dalla Normale, ero assolutamente digiuno di Novecento (del resto, si era nel ’38, e le Storie si concludevano con la triade Carducci-Pascoli-D’Annunzio). Però avevo tanta voglia di continuare, specialmente dopo aver vinto a primo colpo i concorsi di Latino-Italiano-Storia (Licei) e di Italiano-Storia (Magistrali e Tecnici). E quando, nel 1943, Spongano ‒ col quale continuavo a intrattenere cordiali rapporti ‒ entrò nella direzione del “Leonardo” sansoniano, mi propose di occuparmi proprio del contemporaneo, avendomi conosciuto lettore attento e acuto. Il primo saggio che io (nel ’43) affidai alle stampe, pensa un po’, fu un non del tutto spregevole studio su Quasimodo, apparso proprio su “Leonardo” (XIV, ’43); rimasto poi sempre in ombra, con l’’eccezione di Michele Tondo. E così furono pubblicati, sempre sul “Leonardo”, mie recensioni sulla Curtopassi, sul Radice, sul Senesi, sul Dini, e altre schede critiche (fra gli altri, su C. F. RAMUZ). Poi, a Parma (1946) mi invitarono a collaborare alla “Gazzetta di Parma” (tuttora viva). Quindi, caro Lucio, come vedi, il mio avvio fu proprio, diremo così, da “militante”. Intanto, durante il mio servizio militare (Scuola Allievi Ufficiali di Salerno) ebbi la fortuna che mi fosse affidato l’incarico di “Addetto al minuto mantenimento” (cioè alle necessità occorrenti al funzionamento della vita della caserma), che mi lasciava un sacco di tempo libero, perché avevo alle mie dipendenze un bravo maresciallo e una “squadra” di soldati-operai. E quel tempo io continuai a dedicare interamente alla lettura diretta dei contemporanei di allora; curiosità appassionata che poi mi accompagnò fino agli anni Sessanta circa (un ventennio). E non solo dei Maggiori, ovviamente, Ungaretti, Campana, Montale, Pirandello ecc., ma, per esempio, dei Crepuscolari (amatissimi), dei Vociani; e poi anche di Tozzi, Borgese, Palazzeschi, Bilenchi, Civinini, Chiesa ecc. fino a Tecchi e a Virgilio Brocchi. Per non parlare (se non rapidamente) dei miei allora carissimi Panzini, Baldini, Cecchi, Bacchelli, Moravia, Pavese, Calvino, Buzzati, e via dicendo. Del resto, uno sguardo al settore Novecento della mia biblioteca (ora a Martano) documenta a sufficienza quella mia davvero famelica curiosità. E sono libri e opere che mi sono letti davvero davvero.
La “conversione” ‒ se così vogliamo chiamarla ‒ avvenne nei miei anni di Roma, durante i progressivi anni Cinquanta, dove mi toccò la fortuna di assistere (come Straordinario) Alfredo Schiaffini, e dove incontrai il carissimo Bosco, Sapegno, Monteverdi, Toschi (con relativi Assistenti ed Aiuti, divenuti poi illustri maestri), al contato dei quali ebbi a conoscere e a studiare De Saussure, Auerbach, Spitzer, von Wartburg, D. Alonso, Menéndez Pidal, Vossler e altri grandissimi. Un vero bagno di scienza storica e di alta filologia. E così, accanto a Schiaffini mi trovai a rafforzare i miei studi sulla letteratura italiana dei primi secoli (collaborando con Contini ai Giocosi dei suoi Poeti), senza mai tralasciare il mio antico Leopardi (la mia tesi di laurea). Fatalmente, e parallelamente, venne ad affievolirsi il mio “entusiasmo” per il Novecento, anche per due altre pesanti ragioni: la convinzione della impossibilità che uno studioso, sia pure grandissimo, possa storicizzare un canone della contemporaneità ancora fluida, addirittura magmatica, vivendoci dentro fino alla cima dei capelli (il che mi fu sempre di remora a scrivere saggi, recensioni o altro del genere sui contemporanei che leggevo e che studiavo); e la mia netta sensazione che la letteratura “militante”, sicuramente in Italia, andava prostituendosi e commercializzandosi, perfino promovendo la schizofrenia linguistica a teoria della letteratura e a poetica (Gruppo ’63; Nanni Balestrini: Come si agisce).
Però è pur vero ‒ e tu lo rilevi ‒ che anche dopo mi sono talora occupato dei contemporanei: ma ‒ se si guarda bene ‒ o sono salentini (e si capisce perché), oppure si trattava di miei carissimi amici, in complicità (Albino Pierro). La mia fortuna ‒ se tale è davvero stata ‒ è d’aver potuto studiarli con tanta esperienza alle spalle, e quindi, forse, con maggiore e oggettivo distacco. Questa è la verità, caro Lucio; e io l’affido nelle tue mani, perché tu ne possa usufruire, se poi sarà il caso.
Ancora un attimo. Tu scrivi: “Fenoglio a Lecce (titolo suggeritogli da Marti, se ben ricordo)” (p. 309). Ricordi benissimo. Del resto tutti i titoli dei libri di Gino Rizzo furono miei, tranne uno: Le inquiete novità. Ti dirò, anzi, che quando gli proposi “Metodo e intelligenza”, mi guardò un po’ scettico, ed ebbi a chiarirgli che si trattava di una endiadi: il metodo condiziona l’intelligenza del testo (il che dimostrava il suo libro). E tutto gli ho sempre rivisto, per altro su sua richiesta, per la coscienza di responsabile indiretto. Incomprensibile, almeno per me, il suo ostinato silenzio nei miei riguardi. Nonostante tutto.
Caro Lucio, sono stato a lungo in dubbio se scriverti ciò che ti ho scritto. Ma poi mi son detto che si tratta di un atto di giustizia storica. Dunque, vichianamente necessario.
Ti chiedo mille scuse; ti ringrazio e ti saluto con affetto.
Mario Marti
Mario Marti (Cutrofiano, Lecce, 19 maggio 1914 – Lecce, 4 febbraio 2015) è stato uno dei più autorevoli filologi e critici letterari del secolo scorso, ma anche il maestro degli italianisti dell’Ateneo salentino, il fondatore di una scuola che si è fatta apprezzare in Italia e all’estero. Ho avuto la fortuna di seguire le sue lezioni da quando, nel 1968, mi iscrissi alla facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Lecce, dove Marti era titolare della cattedra di Letteratura italiana, di sostenere gli esami con lui e di averlo come correlatore della mia tesi di laurea. Poi lo ritrovai come componente delle commissioni giudicatrici nelle prime tappe della mia carriera accademica, oltre che come preside di facoltà e rettore della stessa Università.
L’ho frequentato perciò a lungo, facendo parte, fin da giovanissimo, della ristretta cerchia dei suoi più fedeli collaboratori (Donato Valli, Antonio, “Uccio”, Mangione, Gino Rizzo). Ho avuto l’onore di partecipare a riunioni e incontri che spesso si svolgevano nella sua casa di Lecce, sempre estremamente fruttuosi per chi come me aveva tanta voglia di conoscere e di approfondire lo studio della letteratura e non solo. Non aveva un carattere facile però Marti. Sapeva essere severo (a volte eccessivamente) anche con i suoi stessi allievi, dai quali pretendeva lo stesso suo rigore nel lavoro. Ma non è questa la sede per parlare dello studioso e dell’uomo, di cui peraltro ho avuto modo di occuparmi in altre occasioni.
Veniamo allora alla lunga lettera che mi mandò, dattiloscritta su tre fogli, con qualche intervento autografo, e che qui pubblico integralmente per la prima volta, con la correzione di una svista (‘incomprensibile’ al posto di ‘incomprensibili’). Quale ne fu l’occasione? Nel 2005 era venuto a mancare prematuramente Gino Rizzo, assistente di Marti e poi, a sua volta, professore ordinario di Letteratura italiana sempre presso la Facoltà di Lettere e filosofia. L’anno dopo, esattamente il 18 ottobre 2006, per ricordarlo, presso l’Ateneo salentino si svolse una “Giornata di studio”, nel corso della quale tenni una relazione dal titolo Gli studi novecenteschi di Gino Rizzo, pubblicata sulla rivista “Studi salentini” (LXXXIII, 2006) e poi nel mio volume Modernità del Salento. Scrittori, critici e artisti del Novecento e oltre (Galatina, Congedo, 2009). In quel saggio, ovviamente, non potevo non mettere in rilievo il ruolo importante svolto da Marti nelle scelte del suo allievo, anche se, a proposito degli studi di Rizzo su scrittori del Novecento, facevo la seguente osservazione, riportata da lui stesso nella lettera: «nonostante una certa diffidenza del suo maestro Mario Marti, verso la contemporaneità, poi nel corso degli anni attenuatasi al punto da trasformarsi in frequente attenzione verso autori e opere del Novecento».
Marti prese spunto nella lettera da questa affermazione, che pure non smentiva totalmente, per precisare il suo rapporto con la modernità letteraria, rivelando aspetti poco conosciuti della sua attività. Per me fu una grande sorpresa ricevere quella lunga missiva nella quale, fra l’altro, il professore all’inizio esprimeva «un giudizio estremamente positivo» sul mio contributo. In esso ritrovava certe caratteristiche più generali del mio modo di lavorare in cui mi riconoscevo pienamente: «mi è anche molto piaciuto, perché asciutto, come è nel tuo stile, privo di fronzoli e tutto cose, vere e documentate».
Della lunga lettera mi servii per un saggio, dal titolo Il Novecento di Mario Marti, che fu anche l’oggetto di una conversazione tenuta nel Circolo culturale “Galileo” di Trepuzzi il 16 maggio 2009, in occasione del genetliaco del professore (i suoi novantacinque anni). In occasione del compimento dei cento anni, pubblicai questo lavoro (che ora si può leggere anche sul presente sito) nel volume Una vita per la letteratura. A Mario Marti Colleghi ed amici per i suoi cento anni, a cura di M. Spedicato e M. Leone (Lecce, Edizioni Grifo, 2014) e poi nel mio libro Sentieri nascosti. Studi sulla letteratura italiana dell’Otto-Novecento (Lecce, Milella, 2016).
A quel saggio rimando quindi per l’approfondimento dei punti specifici trattati nella lettera. Ma qui emergono anche altri aspetti di carattere più personale che riguardano proprio il rapporto di Marti con Rizzo, deterioratosi a causa delle scelte professionali fatte da quest’ultimo che preferì trasferirsi alla neonata facoltà di Beni culturali, di cui diventò preside, abbandonando Lettere e allontanandosi anche dal suo maestro. E dalle parole di Marti traspare chiaramente tutta l’amarezza per questo suo atteggiamento da lui ritenuto “incomprensibile”.
Ma ora mi piace rievocare le ultime occasioni d’incontro col professore che, come sa bene chi l’ha conosciuto, rimase lucido e attivo fino agli ultimi anni della sua lunga vita. L’8 ottobre 2005 sul «Corriere del Mezzogiorno», pubblicai una recensione del suo volume Da Dante a Croce. Proposte consensi dissensi (Galatina, Congedo, 2005). A Marti piacque questo mio articolo, tanto è vero che su una copia del volume appose la seguente dedica: «A Lucio | caro amico e collega | con affetto e stima | grato per la bella recensione | Mario Marti | 30 ott. 2005». Nel 2009, sempre presso Congedo di Galatina, pubblicò un altro volume dal titolo Su Dante e il suo tempo con altri scritti di Italianistica che mi donò con la seguente, affettuosa dedica: «Al carissimo Lucio | simpaticamente conosciuto | da studente, apprezzato da | collega, ammirato da maestro | Con affetto | il suo Mario Marti | Lecce sett ‘09».
Nel 2010 (aveva già novantasei anni) lo invitai al Convegno internazionale di studi su Michele Saponaro, da me organizzato, e in quell’occasione tenne una applauditissima relazione sulla biografia di Leopardi scritta da Saponaro nel 1941, offrendone una rilettura ma dando anche una testimonianza personale a distanza di quasi cinquant’anni dalla sua prima scoperta.
L’otto maggio 2013 (stava per compiere novantanove anni) mi recai a casa sua per fargli una visita insieme all’amico pittore Nello Sisinni che schizzò un suo ritratto sul foglio di guardia di un libro. Ricordo, a questo proposito, che Marti non era molto contento di come erano venuti i baffi e Sisinni allora con un rapido tocco di penna li corresse. Poi, accanto al ritratto, il professore scrisse la seguente dedica con grafia un po’ incerta: «A Lucio, mio caro | allievo fin dal ’68, | questo ritratto di Nello | Sisinni in casa Marti. | Con tanti auguri Mario Marti».
L’ultima volta che andai a trovarlo, nel maggio 2014, per fargli personalmente gli auguri per i cento anni, mi offrì il volumetto Recuperi. Scavi linguistico-letterari fra Due e Seicento, a cura di M. Leone (Galatina, Congedo, 2014), ma le sue condizioni di salute ormai gli impedivano di scrivere, così dettò questa dedica alla moglie, l’indimenticabile signora Franca, sua compagna di tutta una vita: «Al caro Lucio | con tanti ricordi | e tanto affetto | 17 – 5 ‒ 2014».
Grazie per questo lungo contributo, illuminante ed emozionante.