Fece uscire dalla bocca il fumo e, insieme al fumo, con sforzo riuscì a cavarsi di bocca: «Dobbiamo discutere, compagni, in che direzione avviarci a questo punto.»
«Ma che direzione e direzione,» – gli rispose una voce spenta dalla parte opposta del falò, – «in ogni caso siamo spacciati. Ritornare a Gur’jev è impossibile, là si saranno oramai radunati tanti di quei cosacchi della Guardia Bianca – una marea infinita. Ma oltre a Gur’jev, non c’è un solo posto dove si potrebbe svignarsela.»
«Non si potrebbe andare a Chiva?»
«Macché! Sentilo! Camminare per seicento verste, quasi, attraverso il deserto Karakum? E nella pancia cos’è che metti? A meno che non allevi dei pidocchi nei mutandoni per l’antipasto!»
Scoppiarono in una risata, ma la stessa voce spenta disse disperatamente: «Va a finire male lo stesso, è tutt’uno crepare!»
Si strinse il cuore di Evsjukov sotto la corazza rosso-lampone, ma, senza farlo notare, troncò furiosamente l’uomo che stava parlando: «Tu, verme schifoso! Smettila di sollevare panico! A crepare è capace ogni stupido, adesso invece serve far funzionare le rotelle nella zucca per non crepare.»
«Si può andare al fortino Aleksandrovskij. Lì ci sono i pescatori, tutti fratelli, dei nostri».
«Non va bene» – ribatté Evsjukov. «Sappiamo da un rapporto che l’Armata Bianca di Denikin aveva sbarcato lì le sue truppe. I fortini Krasnovodskij e Aleksandrovskij sono in mano del nemico.»
Qualcuno, tra sonno e veglia, emise un gemito pieno di sofferenza.
Evsjukov si diede una manata sul ginocchio caldo dal fuoco. Tagliò corto: «Basta! C’è solo una via, compagni, è avviarci al mar di Aral! Sulle rive di Aral ci sono sempre le tribù nomadi delle popolazioni locali, ci riposiamo un po’ da loro e poi ci mettiamo in marcia, aggirando le coste del mare, verso Kasalinsk. A Kasalinsk c’è un nostro quartier generale del fronte. E da lì la casa è vicina.»
Parlò tutto d’un fiato e tacque. Non credeva neppure lui stesso che si potesse arrivare.
Sollevando il capo, un combattente che gli stava sdraiato vicino, domandò: «E sino ad Aral che cosa mangiamo?»
E di nuovo Evsjukov tagliò corto: «Stringiamo la cinghia. Razza di granduchi dei miei stivali! Che vuoi, le leccornie sul piatto d’argento? Stai fresco! Abbiamo il riso ancora, c’è anche un po’ di farina.»
«Per tre giorni di marcia appena!»
«E allora, se fossero solo per tre! Da qui, per arrivare al golfo di Černyščiov, sull’Aral, ci saranno pressappoco dieci giorni di marcia. Abbiamo sei cammelli. Quando finiamo i viveri, ci mettiamo a macellare dei cammelli. Tanto non ci servono lo stesso. Macelliamo un cammello, mettiamo la carne sull’altro, e via. E così tireremo avanti sino ad arrivare alla meta.»
Tutti rimasero in silenzio. Vicino al falò stava sdraiata Marjutka, che, appoggiandosi la testa sulle mani, guardava il fuoco con le sue fisse, adesso inespressive, gialle pupille feline. Un turbamento si impadronì dell’animo di Evsjukov.
Si mise in piedi, si ripulì la giubba dalla neve.
«Fine delle discussioni! Il mio ordine è di mettersi in marcia all’alba. È probabile che non a tutti toccherà di arrivarci» – strattonò con l’impeto di un uccello spaventato la voce del commissario, «ma c’è bisogno di mettersi in cammino… compagni, perché, se capite, qui si tratta della rivoluzione… Per i proletari di tutto il mondo!»
Il commissario guardò dritto negli occhi, l’uno dopo all’altro, ognuno dei ventitré. Non vedeva però oramai, lì dentro, il fuoco della lotta cui si era abituato nell’ultimo anno. Erano torbidi gli occhi, si sottraevano allo sguardo e sotto le ciglia abbassate si agitavano: sfiducia e disperazione.
«Divoriamo i cammelli e poi ci metteremo a mangiarci l’un l’altro.»
Tacquero ancora.
All’improvviso con un’isterica voce sibilante, Evsjukov urlò: «E adesso basta! Conoscete il dovere rivoluzionario? Silenzio! C’è l’ordine, esegui! Non esegui, al muro!»
Tossì e si sedette.
E quello che mescolava con lo scovolo da fucile il risotto nel paiolo, in modo inaspettato, gridò allegramente al vento: «Ma che cavolo, avete le fregne? Si mangia! Il risotto è pronto, mangiate, se no, per che diavolo l’ho cucinato? Guerrieri dei miei stivali da strapazzo, un accidente li pigli!»
Tiravano con i cucchiai dal paiolo i grumi densi del gonfio, grasso riso, ingoiavano, scottandosi, per evitare che si freddasse, ma intanto che ingoiavano sulle labbra si formava una spessa crosta d’un nauseante lardo di stearina.
Il falò stava cessando di bruciare, buttando nel buio della notte le ultime fontane di scintille di un arancio-paglierino. Gli uomini ancor più stretti l’uno all’altro, si sdraiavano, si addormentavano, russavano, gemevano ed imprecavano nel dormiveglia.
Verso l’alba fitti spintoni nella spalla svegliarono Evsjukov. Aprendo con difficoltà le ciglia attaccate dal gelo, si scrollò, per abitudine si aggrappò con la mano irrigidita al fucile.
«Calma, stai fermo!»
China su di lui stava Marjutka. Nel velo grigio-giallognolo della tormenta scintillavano le gialle pupille feline.
«Che vuoi?»
«Alzati, compagno commissario! Ma senza chiasso! Mentre dormivate, ho fatto un giro sul cammello. C’è una carovana da Gian-Gel’dy.»
Evsjukov si girò sull’altro fianco. Con voce soffocata, disse: «Ma che carovana e carovana, balle!»
«Giuro… potrei sprofondarmi sul posto, la peste dei pesci la pigli! È della gente locale! Una quarantina di cammelli in tutto!»
Evsjukov saltò in piedi, mettendo le dita in bocca, fischiò. A gran fatica si sollevavano i ventitré, stirando i corpi estranei, intorpiditi dal freddo, ma, nel sentire della carovana, rapidamente tornavano in sé.
Si alzarono in ventidue. Uno non si rialzò. Rimase disteso, imbacuccato in una gualdrappa e la gualdrappa era scossa da un fitto tremore del suo corpo che si dibatteva nel delirio.
« È la febbre!» – annuì sicura Marjutka, dopo aver tastato con le dita il collo del malato.
«Accidenti! È un brutt’affare? Copriamolo per ora con i tappeti di lana e lasciamolo stare. Lo prenderemo al ritorno. Da quale parte, dici, è la carovana?»
Marjutka agitò la mano verso ovest.
«Non è lontano! Saranno più o meno sei verste. È una carovana molto ricca. Sui cammelli ci sono tante di quelle some!»
«Si campa, allora! L’importante è non farsela sfuggire. Non appena la avvistiamo, accerchiamola da tutte le parti. Chi da destra, chi da manca. Mi raccomando, compagni, non risparmiamoci, le gambe. Avanti, marc’!»
Si incamminarono tutti in fila in mezzo alle dune, piegandosi in basso, facendosi animo, riscaldandosi nella marcia affrettata.
Dalla cima di una duna goffrata di sabbia scorsero in lontananza su una superficie argillosa piatta, come un tavolo da pranzo, le macchie scure di una carovana di cammelli.
Sulle gobbe dei cammelli oscillavano pesantemente le grosse some.
« È un regalo del Signore! Grazie, ha avuto pietà di noi» – sussurrò, estasiato, il butterato combattente Gvosdev, ex appartenente alla setta dei Cristiani Spirituali.
Non si trattenne Evsjukov, lo coprì di rimproveri: «Ma che Signore e Signore! Quant’è che ti si deve spiegare che non esiste nessun Signore, ma per tutto c’è una precisa linea fisica!»
Non c’era però tempo per discuterne. Seguendo l’ordine del commissario, tutti si misero a correre, saltellando, cercando di nascondersi dietro ad ogni piega della sabbia, dietro ad ogni nodoso ramoscello del basso cespuglio strisciante. Stringevano fortemente nelle dita, sino a farsi male, i calci dei fucili: sapevano che non si poteva farsi sfuggire l’occasione, che insieme a quei cammelli, sarebbe svanita ogni speranza, la vita, la salvezza.
La carovana procedeva senza fretta, tranquillamente. Oramai diventavano visibili i tappeti multicolori sulle gobbe dei cammelli, i kirghisi-cammellieri con addosso delle calde vestaglie trapuntate d’ovatta e in testa dei grossi colbacchi con le orecchie, fatti di pelle di lupo.
Luccicando con la sua giubba rossa-lampone, Evsjukov si alzò in piedi, come se fosse cresciuto all’improvviso sulla cresta della duna, imbracciando di scatto il fucile e, con una voce stentorea, si mise ad urlare: «Ferma, Asia di Tochtà3! Se avete le armi, buttatele per terra. E non facciamo “Tamašà”4, se no, vi faccio fuori tutti quanti!»
Non fece in tempo a finire di parlare, che, sporgendo i sederi, caddero i kirghisi impauriti nella sabbia.
Soffocando in una frenetica corsa, saltellando nella sabbia profonda, scendevano dalle dune tutti gli altri combattenti della formazione.
«Ragazzi, prendete dei cammelli!» – urlò Evsjukov.
Ma, coprendo la sua voce, dalla carovana tutt’ad un tratto esplose un distinto sparo.
Come il suono dei cuccioli di un cane, latrarono delle pallottole stizzite e di fianco al commissario qualcuno dei combattenti rossi ficcò la testa nella sabbia, distese per sempre le braccia immobili.
«Tutti a terra! Accidenti, diamoli addosso!» – continuò ad urlare Evsjukov, gettandosi nell’avvallamento della duna. Si ripeterono le fittissime raffiche dei fucili.
Dietro i cammelli, adagiati sulla sabbia, sparava gente ignota.
Era inverosimile che fossero i kirghisi. Il fuoco era troppo mirato e preciso.
Le pallottole si ficcavano nella sabbia, troppo vicino ai corpi appiattiti dei soldati Rossi.
La steppa echeggiava di rimbombi, ma a poco a poco gli spari provenienti dalla carovana si misero a tacere.
A brevi corsette i combattenti dell’Armata Rossa incominciarono ad avvicinarsi.
Soltanto ad una trentina di passi dalla carovana, Evsjukov, guardando attentamente, vide dietro ad un cammello una testa con il colbacco d’astrakan grigio e un tipico cappuccio bianco, poi una spalla, e sulla spalla una strisciolina dorata.
«Marjutka! Guarda! Un ufficiale!» – disse, girando la testa verso Marjutka, avvicinatasi strisciando.
«Vedo.»
Senza fretta diresse la canna della carabina. Tuonò lo sparo.
Sarà che le dita di Marjutka si erano indurite dal freddo, o che erano tremate per l’emozione e la corsa, ma non fece in tempo neppure a dire: « È il quarantunesimo, la peste dei pesci lo pigli!» – quando un uomo con un montone rovesciato blu addosso e un cappuccio bianco buttato alle spalle si mise in piedi da dietro il cammello disteso sulla sabbia e alzò in alto il fucile, sulla cui baionetta oscillava un fazzoletto bianco.
Marjutka scaraventò la carabina nella sabbia e si mise a piangere, spalmando le lacrime sullo sporco e spellato viso.
Evsjukov corse verso l’ufficiale. Da dietro invece, lo aveva superato in corsa un suo soldato, che agitava nell’aria la baionetta pronta ad un colpo letale.
«Non lo toccare! Prendilo vivo!» – gridò il commissario.
L’uomo con il montone rovesciato blu fu affrontato con forza e buttato a terra.
Cinque altri uomini che erano con l’ufficiale non si alzarono da dietro i cammelli, falciati dal penetrante piombo rovente delle pallottole.
I soldati della Guardia Rossa, ridendo e imprecando, tiravano dei cammelli per gli anelli nelle narici, legavano alcuni capi insieme fra loro.
I kirghisi, dimenando i sederi, correvano dietro ad Evsjukov, gli si aggrappavano alla giubba, alle braccia, alle braghe, alle munizioni, borbottavano, guardavano sottomessi la sua faccia coi loro occhi, lamentose strette fessure.
Il commissario si sottraeva come poteva alle loro mani, scappava, cercava di scacciarli, s’imbestialiva e, con smorfie piene di una vera compassione, soltanto per farli spaventare, puntava sui loro piatti nasi, sui loro appuntiti zigomi, riarsi dal vento, la sua pistola a tamburo e sbraitava: «Statemi lontani, Asia di Tochtà! Niente obiezioni!»
Un kirghiso anziano, con la barba canuta e un montone rovesciato di ottima qualità, acchiappò Evsjukov alla cintura.
Si mise a parlar affrettatamente, bisbigliando dolcemente: «Oh, padrone… Male fai… Un kirghiso con cammello vivere bisogna. Un kirghiso senza cammello a morire va… Tua, padrone, non fare così. Tua, padrone, soldi volere, mia soldi dare. Moneta d’argento, denaro zarista… banconota Kirenskij… Dire tua, padrone, quanto tua moneta volere, a dare cammello indietro?»
«Cerca di capirmi, testa di legno, che per noi in questa situazione senza i cammelli e tutto il resto, è la fine. Non sto mica rapinandovi, è soltanto per necessità rivoluzionaria che vi requisisco i cammelli per uso temporaneo, in prestito. Voi, diavoli locali, riuscirete trascinarvi anche a piedi sino ai vostri, per noi invece senza cammelli, sarebbe la fine, una morte certa.»
«Oh, padrone. Ahi, ahi, non buono. Dai cammello indietro – prendi moneta, banconota Kirenskij, prendi» – cantilenò il kirghiso la sua solita litania.
Evsjukov si liberò bruscamente dalle sue mani.
«E lasciami, vattene al diavolo! Ti ho spiegato tutto, quindi, basta così! Non si discute più. Tieni la ricevuta e finiamola!»
Detto questo, mise in mano al kirghiso una ricevuta scritta alla meglio su un brandello di giornale.
Il kirghiso la gettò nella sabbia, cadde al suolo e, coprendosi il viso con le mani, si mise ad ululare disperatamente.
Tutti gli altri kirghisi rimasero fermi, silenziosi e negli occhi a mandorla tremavano le lacrime silenziose.
Evsjukov si voltò per cercare di non vederlo, e a questo punto si ricordò dell’ufficiale catturato.
Lo scorse subito in mezzo a due soldati della Guardia Rossa che gli facevano da sentinella. L’ufficiale stava tranquillamente in piedi, spostando leggermente la gamba destra con un alto stivale svedese di feltro bianco, e fumava, guardando con sogghigno al commissario.
«Chi saresti?» – domandò Evsjukov.
«Sono il tenente della guardia imperiale, Govorucha-Otrok. E tu chi sei?» – chiese a sua volta l’ufficiale, gettando nell’aria una scia di fumo.
E sollevò la testa.
E quando guardò apertamente nelle facce dei soldati della Guardia Rossa, Evsjukov e tutti gli altri attorno videro che gli occhi del tenente erano di un tale colore blu vivo e acceso, da poterli semmai paragonare a due sferette di turchetto per biancheria francese di prima scelta che stiano nuotando nella schiuma nivea del bianco dell’occhio.
(continua)
[Traduzione dal russo di Tatiana Bogdanova Rossetti]