Le più antiche grotte del Salento, luoghi della Persistenza
Le grotte come luoghi della memoria hanno anche la capacità di evocare l’appartenenza degli individui ad un gruppo sociale definito. Ad esse ben si adatta la definizione di luoghi della Persistenza: «Persistent Places», termine coniato dagli antropologi anglo-sassoni, luoghi cioè caratterizzati dalla lunga durata della presenza umana dove i popoli del passato, nell’interagire con il loro ambiente, elaborano strategie di sopravvivenza e, allo stesso modo, costruiscono cosmologie e creano connessioni simboliche con i paesaggi circostanti. Grazie alle caratteristiche geologiche naturali e alla particolare morfologia dei luoghi si sperimenta la discesa nell’oscuro mondo sotterraneo, carica di suggestione per la presenza delle sorgenti, e di pericoli, a causa delle esalazioni solforose o dei gas venefici come il CO2.
Gli sviluppi della ricerca archeologica moderna, basata sul metodo multidisciplinare, hanno permesso di realizzare nelle grotte indagini che si avvalgono della più moderne tecnologie, capaci di risalire ad un periodo cruciale della Preistoria (tra 41 e 39 mila anni da oggi), quando arrivano in Europa i primi gruppi di homo sapiens, conla progressiva estinzione dei neandertaliani precedentemente insediati. In questo quadro la penisola italiana gioca un ruolo fondamentale, grazie alla sua posizione al centro del Mediterraneo. La Puglia inoltre, per la sua natura carsica, possiede una straordinaria ricchezza di queste particolari formazioni geologiche, componente notevole dell’identità culturale della nostra regione. Lungo la costa di Nardò, nel Salento ionico, le grotte che si affacciano sulla baia di Uluzzo (in particolare la Grotta del Cavallo), hanno dato il nome di Uluzziano ad una specifica fase culturale del Paleolitico superiore. In questo periodo si suppone una provenienza diretta del sapiens dall’Africa, anche per innegabili similitudini tra gli strumenti di caccia dell’industria litica nelle grotte salentine, con quelli del continente africano. Nelle cavità neretine, usate come ripari e non come luoghi di sepoltura, non sono stati ritrovati resti umani; soltanto alcuni dentini decidui, persi dai bambini del gruppo che si rifugiava nella cavità, rappresentano rari ma preziosi documenti per le informazioni che si ricavano dall’analisi del DNA e dalle datazioni al C14.
E lungo la costa adriatica della stessa penisola, la fase del Paleolitico indicata come Romanelliano, prende il nome dalla Grotta Romanelli, nelle vicinanze di Castro.
Come osservano Fabio Martini e Lucia Sarti: «Le grotte sono il luogo in cui sacro e profano convivono, sede privilegiata per il rito funerario dove il mondo dei morti è in collegamento diretto con la vita che continua, dove si svolgono cerimonie e riti, luogo dove prendono forma le immagini dipinte e incise della comunicazione simbolica non verbale».
Queste cavità naturali custodiscono anche gli archivi dei mutamenti climatici: i ricercatori dell’Università di Pisa hanno di recente pubblicato i risultati delle analisi sulle concrezioni presenti all’interno della Grotta Renella, nelle Alpi Apuane, rilevando specifiche proprietà chimico-fisiche e valori degli isotopi dell’ossigeno che indicano, nel corso del VI sec., l’eccezionale aumento dell’umidità in tutta la Toscana, all’origine di un notevole incremento delle piogge torrenziali e delle alluvioni, causate dalle importanti masse d’aria umida provenienti dall’Atlantico.
Porto Badisco e le grotte come luogo della conoscenza
La grotta è anche il luogo in cui più forte si manifesta la percezione del Sacro, sede elettiva di saperi soprannaturali, ma pure dispensatrice di esperienze estreme di deprivazione sensoriale. Penetrando nelle oscure cavità, il fedele, in una condizione alterata di coscienza, in cui si modifica anche il battito cardiaco e il ritmo respiratorio, percorreva un viaggio iniziatico, dove il ritorno alla vita era segnato dalla luce che, dall’interno del buio, egli riusciva a percepire. In una grande cavità del monte Ida, nell’isola di Creta, si indicava il luogo della nascita di Zeus; luogo potente per apprendere gli arcani della natura, fu visitata dai sapienti come Apollonio di Tyana, e, prima, da Pitagora, accompagnato da Epimenide. Costui vi aveva trascorso 57 anni, immerso in un sonno sacro: al suo risveglio, tuttavia, non mostrava alcun segno di invecchiamento, avendo sperimentato una catabasi (discesa agli Inferi) letargica, come nei riti sciamanici in cui l’anima si distacca dal corpo per viaggiare in altri mondi e acquisire una sapienza speciale.
Non a caso nella grotta dei Cervi a Porto Badisco una delle figurine dipinte è stata definita «lo sciamano»: con le gambe divaricate, le braccia terminanti con un ricciolo, la testa triangolare sormontata da un’acconciatura (di penne ?), sembra raffigurato nell’atto di eseguire una danza di iniziazione.
«Punto di passaggio o di sosta obbligato per i navigatori che attraversavano l’Adriatico, la Grotta (metafora del ventre materno) divenne il luogo ideale per svolgere cerimonie collettive in onore, forse, della Dea Madre, Signora della vita, dispensatrice di risorse alimentari ma anche detentrice- per il legame indissolubile tra vita e morte- della forza distruttiva della Natura». Così Ida Tiberi riassume efficacemente il significato della grotta di Porto Badisco, nel volume del 2019, dedicato ai materiali rinvenuti all’interno, a distanza di quasi quarant’anni dall’opera di Paolo Graziosi, dedicata alle pitture neolitiche presenti sulle pareti delle cavità che si aprono in vicinanza della costa salentina poco a sud di Otranto.
Nulla rende meglio l’espressione «nel ventre della terra», come l’esperienza, vissuta da chi scrive, di entrare, a Badisco, nel’intreccio dei cunicoli scavati nella pietra calcarea, in età antichissime, dal fluire di fiumi sotterranei. Sulle bianche superfici del dilavamento, gli uomini del Neolitico tracciarono centinaia di figure, in un periodo compreso tra la metà del VI e il V millennio a.C.: gruppi di arcieri che affrontano cervi (da qui il nome della grotta), scene di lavori agricoli e di aratura, greggi di capre e bovini, ed infiniti altri segni come spirali, scacchiere, figure umane intorno a spazi quadrati, a simboleggiare la comunità degli individui, pitture rese con il guano dei pipistrelli e, meno frequentemente, con l’ocra naturale, raccolta nelle terre rosse salentine. E’ possibile anche ricostruire alcuni gesti rituali: palline di guano lanciate con forza contro le pareti bianche, e ancora vi aderiscono dopo millenni. Infine in fondo ad uno stretto corridoio, come dopo un percorso rituale di iniziazione e di passaggio, sono visibili le impronte delle mani di adolescenti, colorate dal marrone del guano.
La “Zinzulusa”
Così chiamata per le formazioni calcaree pendenti come stracci lungo l’arcone di ingresso (zinzuli nel dialetto di Castro) e immortalata in un divertente video di Checco Zalone, é oggi meta di un turismo di massa, attratto dalla straordinaria bellezza di questa cavità aperta sul mare, sulla costa immediatamente a nord di Castro e prima di Santa Cesarea. Fu frequentata sin dal Paleolitico, come le vicine grotte Romanelli, Palombara e la grotta del Conte. All’interno si trova anche un laghetto di acqua dolce, dove furono deposti vasi ad impasto di età eneolitica, certamente oggetto di attività rituali, forse legate ad un culto femminile ed a pratiche di guarigione. Sul fondo erano presenti anche reperti di età ellenistica: monete, coppette monoansate, funzionali a riti di libagione, ed una bella terracotta figurata di Afrodite con Eros poggiato sulla spalla. Lo storico greco Dionigi di Alicarnasso riferisce che, nel viaggio verso l’Italia, alcune delle navi di Enea sbarcarono sulla estremità del promontorio iapigio, corrispondente all’attuale Leuca, altre si fermarono nel therinos ormos (ormeggio estivo), posto ai piedi dell’acropoli di Minerva a Castro, che l’eroe troiano decise di chiamare Porto di Afrodite, per onorare la sua madre divina. Un racconto che la statuetta rinvenuta nel laghetto della Zinzulusa è capace di evocare.
La grotta dell’acqua sotto la Cattedrale di Castro
Di recente, nell’ambito delle ricerche sul santuario di Atena a Castro, di cui parla Virgilio nel libro terzo dell’Eneide, è stata riconosciuta, come parte integrante di questo luogo di culto, una cavità naturale, che gli abitanti della cittadina indicavano semplicemente come cisterna. Si trova sotto il pavimento della Cattedrale, dove uno stretto corridoio permette di scendere sino a sei metri sotto il livello attuale. Qui appare una vera cattedrale in negativo, scavata nella pietra, contenente una grande riserva di acqua.
Le pareti presentano l’irregolare formazione naturale di natura carsica, coperta da un accurato rivestimento in cocciopesto. Come nelle altre cavità lungo la costa, anche sul pianoro di Castro l’azione delle acque dilavanti e, forse, movimenti tettonici di remote epoche geologiche avevano creato una cavità naturale a corridoio lunga circa trenta metri, che si era riempita di acqua, costituendo una riserva naturale del prezioso elemento, attrattiva per l’insediamento umano sin dalla Preistoria. La grotta-cisterna era certamente in uso nel periodo di maggiore sviluppo monumentale del pianoro: quello in cui fiorì, nel IV sec. a.C., il luogo di culto di Atena, un santuario internazionale frequentato dai Messapi che controllavano il sito, ma anche dai Tarantini, che avevano stipulato con essi un accordo per il controllo strategico dei passaggi marittimi all’ingresso del Canale d’Otranto. Qui fiorivano gli scambi commerciali anche con le genti dell’opposta sponda di Epiro e della costa illirica (attuale Albania), dove erano state fondate le colonie greche di Apollonia, Orikos e Epidamnos.
L’apertura superiore della cavità è contigua al cuore del santuario, dove era presente l’altare costruito davanti al tempio della Vergine Atena, che gli scavi recenti hanno portato alla luce. In questa zona avvenivano i sacrifici cruenti, come mostrano le migliaia di ossi relativi agli animali uccisi, in parte bruciati, in parte consumati in occasione dei pasti rituali. L’attività rendeva indispensabile, per ragioni igieniche e rituali, un’ampia disponibilità di acqua, per lavare le strutture dove pecore e buoi venivano sgozzati e per purificare dal sangue gli addetti al rito e gli strumenti utilizzati. Non è dunque un caso che il cuore del santuario sia stato localizzato in prossimità della riserva d’acqua che veniva attinta direttamente, accostandosi alla fenditura aperta nel banco di roccia viva.
«Nullus enim fons non sacer» (non c’è nessuna fonte che non sia sacra), come afferma Servio, nel suo commento all’Eneide di Virgilio. Nell’antico santuario di Castrum Minervae (il castello di Minerva, l’odierna Castro) la dimensione femminile del Sacro, legata alla fecondità che promana dalla cavità sotterranea e dall’acqua, ancor oggi è viva nel culto della Vergine Maria, che guarda, dall’alto della sua Cattedrale, i passaggi marittimi all’ingresso dell’Adriatico.
[Nelle grotte del Salento il mito della Persistenza in La Puglia sotterranea. Dalle grotte agli ipogei la Storia nei secoli, a cura di Domenico Castellaneta. Coordinamento redazionale Antonio Di Giacomo, pubblicato nella serie I libri di Repubblica, 2024 GEDI News Network S.p.A., pp. 73-83].