L’arte di Luigi Latino

Per capire l’arte di Latino non bisogna dimenticare ciò che è accaduto in questi ultimi quarant’anni, durante i quali su tutte le culture politiche di cui sopra è passato il rullo compressore del liberismo, la cultura dell’individualismo e del libero mercato di chiara marca nordamericana. Ogni autentica esperienza collettiva, maturata nel corso del Novecento, e così pure ogni cultura e ogni sapere politico, insomma tutta la biodiversità politica fiorita soprattutto nel secondo dopoguerra, tutto è stato distrutto. Oggi finanche la cultura pacifista è rifiutata e repressa in omaggio alla dichiarata volontà di fare la guerra. In realtà, quando il pensiero non può esprimersi politicamente, trova altri modi per farlo. L’arte sostituisce la politica, se ne fa carico, diventa essa stessa un’espressione politica. “Il rifugio mi protegge / L’arte / mi fa sopravvivere / dopo 70 anni / aspetto ancora / di poter vivere”: così recita una poesia di un piccolo libro, la linea scura, che Latino ha dato alle stampe per l’occasione. Il libretto, che qui è oggetto di segnalazione, è stampato in proprio, non ha pagine numerate e si compone di poesie scritte in tempi diversi, che Latino affianca alla sua produzione pittorica e dunque di questa costituiscono un valido commento. Contiene anche alcune pagine di autori che hanno scritto sull’opera di Latino e un elenco cronologico (dal 1988 al 2024) delle Mostre che l’artista ha organizzato in proprio o a cui ha partecipato.

Le poesie mostrano uno sguardo disincantato e straniato su un mondo in preda alla follia della guerra, la critica sferzante verso lo spirito distruttore di una civiltà, quella occidentale, che produce morte e rovine, alla quale, se si è troppo deboli per opporsi, ci si può sempre sottrarre cercando riparo in un rifugio: “Sono nel mio rifugio / forse uno spazio angusto / ma comincio a prenderci gusto”, scrive Latino.

Ho visitato questo rifugio, l’atelier dove si è svolta la mostra del 26 maggio scorso e dove è in programma una nuova mostra il 29 giugno prossimo: momenti di incontro e di confronto e non di mera comparsata mondana come sovente accade in queste occasioni.

L’atelier di Latino è situato in un garage sotto il livello stradale, nelle fondamenta della casa dell’artista, e si compone di due ambienti. Sembra un bunker, un rifugio di guerra senza finestre, con quadri di ogni dimensione appesi alle pareti su più livelli e appoggiati negli angoli, dappertutto. Un senso di horror vacui aleggia nell’ambiente chiuso, eppure pervaso dal desiderio di dare un senso altro allo spazio. Sono rimasto solo per qualche minuto e mi sono stupito di non soffrire di claustrofobia. Ero in compagnia di cento volti che mi guardavano da ogni angolo delle sale, gli occhi scavati di sottili figure scarne ed esangui mosse in uno spazio irreale e inumano dipinto a colori forti su tavola. E mi sono ricordato di quando, un tempo, Latino non amava rappresentare la figura umana in omaggio ad un astrattismo che era un modo per sottrarsi agli schemi di una facile tradizione pittorica. Ma questo non è tempo di astrattismo. E’ il tempo dell’indignazione, della denuncia, della protesta, e l’arte come espressione politica se ne fa carico pienamente. Nessuno può arrogarsi il diritto di conculcare e annichilire la vita e tanto meno per scopi egoistici. Forse quei volti straziati e quelle figure stilizzate sono i fantasmi delle culture politiche che un tempo dialogavano fra loro, a volte anche molto vivacemente, e che ora sono ammutolite; un passato, dunque, che non è del tutto passato e lotta per la sopravvivenza. Di questo, io credo, è testimonianza l’arte di Luigi Latino.

[“Il Galatino” anno LVII – n. 12 – 28 giugno 2024, p. 6]

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