di Ferdinando Boero
Ho fatto le elementari negli anni cinquanta: c’erano i banchi di legno, con la ribalta e il calamaio, che il bidello ogni mattina riempiva di inchiostro. Avevamo le penne col pennino, e la carta assorbente. In prima riempivamo i quaderni di aste. Quando arrivarono le penne biro le maestre (e i maestri) e, alle medie, le professoresse, disapprovarono: rovinano la mano. Tutt’al più era permessa la stilografica. Nella fase di transizione, usavamo l’asta trasparente delle BIC come una cerbottana con cui sparavamo pezzetti di carta assorbente appallottolati e intinti nell’inchiostro. Ho scritto la mia tesi di laurea con una vecchia Olivetti. Ero ossessionato dalla grafica, contavo le battute e gli spazi in modo da avere il testo allineato (ora si dice giustificato) a destra. Se sbagliavo una battuta riscrivevo la pagina. Dato che la tesi era in più copie usavo la carta carbone. Poi arrivarono le IBM a testina rotante, col correttore. I primi lavori scientifici li ho scritti con quella. Li mandavo a un collega inglese e lui me li correggeva. Tornavano, dopo settimane, pieni di correzioni rosse e blu. E dovevo riscrivere tutto.