L’autobiografia “irlandese” di Amedeo Guillet

Amedeo Guillet
  1. L’Irlanda favorisce l’incontro tra l’ex ambasciatore di origine sabaude e Rosangela Barone, pugliese e docente di letteratura inglese nell’università di Bari. Un incontro occasionale che decide le vicende dell’autobiografia di cui ci occupiamo. Dopo aver brillantemente concluso l’esperienza diplomatica nel 1974 in India Amedeo Guillet sceglie di trasferirsi nel 1975 in Irlanda, ambiente che considera molto attrattivo per la possibilità di poter coltivare la sua antica passione, quella della cavalleria[2]. La campagna di Dublino si presta più di altre a dare sfogo al contatto fisico con il cavallo, l’animale più amato e da cui non sa separarsi, avendo segnato l’intera carriera di militare fino alla fine del secondo conflitto mondiale. Nella pianura irlandese Guillet ritrova il rifugio che da tempo cercava, ovvero spazi “infiniti” di verde, silenzi operosi riempiti dalla musica e dalla pittura e galoppate quotidiane che lo rendono particolarmente sereno. La sua nuova residenza dista 30 KM da Dublino, che resta a portata di mano per coltivare le selezionate amicizie contratte e i densi rapporti sociali. Una scelta non proprio opportunistica, dettata esclusivamente dall’evitare l’isolamento, ma prospettica, per la necessità di mettere al servizio della comunità italiana residente all’estero (e non solo) le competenze acquisite durante la sua lunga carriera diplomatica. A Dublino incrocia nel 1987 Rosangela Barone, attiva protagonista di numerose iniziative culturali per conto dell’Istituto Italiano di Cultura, alla cui direzione viene chiamata in quegli anni dal governo italiano. Per diretta confessione degli stessi protagonisti tra i due nasce subito un rapporto empatico che si traduce in una fertile e prolungata amicizia che porterà nei decenni successivi all’elaborazione e alla realizzazione dell’autobiografia.

Guillet non appare ancora disponibile a mettere in fila le sue memorie nonostante fosse incoraggiato dalla moglie Bice, che prima di morire raccoglie in alcuni faldoni la documentazione epistolare del marito, informando anche direttamente i figli. Bice ordina in tempo il materiale cartaceo superstite ma non consegue alcun risultato immediato. La morte avvenuta nel 1991 lascia sospeso il progetto autobiografico. Il vuoto affettivo patito con la scomparsa della moglie viene riempito con le sue tradizionali passioni (cavallo, musica e pittura), ma anche con la partecipazione attiva alle numerose manifestazioni culturali organizzate da Rosangela Barone in terra irlandese. L’amicizia con Rosangela si consolida proprio in quegli anni se Amedeo Guillet le affida l’incarico di inventariare con una selezione mirata le “Memorie” raccolte dalla moglie e conservate sia in Irlanda, a Kentstown Glebe, sia in Italia, nella casa romana, dove torna di tanto in tanto per impegni istituzionali e per godere della presenza dei due figli, uno medico in un importante ospedale della città e l’altro funzionario presso il Ministero dell’Ambiente.    

Barone a partire dalla fine degli anni ’90 del secolo accetta di svolgere questo incarico, con zelo e con competenza, ma senza fare alcuna forzatura, trovando un interlocutore aperto ma non ancora pronto a fare il decisivo passo. Trova il tempo tuttavia di arricchire con altri dettagli confidati dalla viva voce del protagonista alcuni episodi già trascritti nel ricco materiale cartaceo già disponibile. Guillet fissa dei paletti non negoziabili. Vuole soprattutto imporre un percorso narrativo a lui più congegnale, quello di partire dall’esperienza delle ultime operazioni militari del 1941 sul suolo d’Africa per dare centralità all’avventuroso approdo yemenita, terra che considera la sua patria adottiva. In buona sostanza fornisce al taccuino della Barone notizie, riflessioni e integrazioni di un’esperienza di vita unica, su cui vuole lasciare duratura traccia. Da qui prende forma il progetto editoriale in questione.              

Nella stesura dell’autobiografica Guillet privilegia raccontare prima di tutto l’esperienza arabo-yemenita e poi tutto il resto. Sulla sua avventurosa campagna d’Africa aveva già raccolto particolari attenzioni editoriali[3], dove il ruolo assolto da militare ritorna centrale e assorbente nella vicenda esistenziale. Nei suoi appunti il militare e il diplomatico seguono una linea cronologica precisa, due carriere che si incrociano e si separano, dettando tempi diversi, della guerra e della pace. Al Guillet interessa soprattutto dare centralità ad una terra, quella yemenita, vissuta come punto di raccordo di due fasi diverse che trovano nell’accoglienza ricevuta in un remoto e isolato territorio del Mar Rosso la sorpresa più gradita, da non ignorare. Fermare l’orologio della storia su una terra povera e ancora non toccata dalla civiltà, governata da un Sultano e considerata nella pubblicistica geo-politica del tempo ostile e refrattaria al mondo occidentale con lo scopo di rovesciare un siffatto pregiudizio resta prioritario nel racconto delle sue memorie. Per questo vuole partire da questo assunto e illuminare di luce riflessa la sua stessa vicenda esistenziale. Il resto conta, ma non nella misura da lui attribuita a questa esperienza, ancora poco raccontata e divulgata. Tutta la carriera di ambasciatore può essere ricostruita spulciando le carte della diplomazia e i voluminosi faldoni del Ministero degli Affari Esteri, una documentazione disponibile per gli studiosi interessati, ma quella relativa al soggiorno yemenita può essere solo reso noto attraverso i ricordi personali, la diaristica e l’epistolario tenuto aggiornato dall’interesse di non perdere i contatti con i familiari, gli amici e la ristretta schiera dei funzionari e dei militari sopravvissuti al conflitto bellico.

Guillet è soprattutto un militare attaccato alla divisa e ai doveri ad essa riconducibili, prima di scoprirsi anche un brillante diplomatico. Tutta la sua vita viene segnata dalla formazione ricevuta nell’Accademia Militare di Modena, dove frequenta il corso di cavalleria attraverso il quale matura specifiche competenze nel settore a cui resterà sempre legato, diventando un solido e ineludibile punto di riferimento. Non conosce incarichi, sin da quando riceve i gradi di sottotenente, fuori dal reggimento di Cavalleria, passando dai Cavalleggeri di Monferrato a quelli di Pinerolo, da Codroipo a Tor di Quinto, a cui si aggiunge nel 1935 quello di far parte della squadra equestre italiana destinata   alle Olimpiadi di Berlino. Rinuncia di restare vincolato all’impegno sportivo per partire con le truppe mobilitate in Africa orientale nella campagna italo-etiopica, sbarcando a Massaua con l’incarico di Comandante dello squadrone ai Gruppi Spahis. L’anno successivo lascia l’Eritrea per raggiungere la Tripolitana; nel 1937 si arruola nella Divisione Fiamme Nere come volontario in servizio all’estero, partecipando alla spedizione voluta da Mussolini in appoggio al Generale Franco nella guerra civile spagnola. Nel 1938 rientra in Libia quale comandante del VII Squadrone Savari, prendendo parte alle grandi operazioni di Polizia Coloniale. Dopo l’entrata dell’Italia nel Secondo Conflitto Mondiale Guillet riceve l’incarico di costituire e comandare il Gruppo Bande Armate a cavallo dell’Amhara, in un territorio di operazioni belliche contro le truppe britanniche. Quando gli inglesi occupano nell’aprile del 1941 Asmara decide di non arrendersi e, travestito da arabo, si mette al comando di un gruppo di volontari, suoi fedelissimi ex Ascari, con i quali continua a combattere con mirate operazioni di guerriglia. Sfibrato dalla fame e senza munizioni, con una ferita al piede a rischio di cancrena, esposto alla malaria il Guillet senza arrendersi scioglie il suo gruppo e s’imbarca clandestinamente per Hudaya nello Yemen, allora paese neutrale.      

La “tela” inizia a comporsi proprio in coincidenza di questo sbarco. Una volta accertata la sua identità attraverso le informazioni diramate paradossalmente dalla Polizia britannica viene accolto dalle autorità yemenite e ricevuto dal sovrano con tutti gli onori a San’à che lo nomina Comandante di reggimento con l’incarico di addestrare le sue Guardie a cavallo. Un’esperienza che dura fino all’estate del 1943, quando torna in Italia, sbarcando a Taranto e raggiungendo Roma, dove si presenta al Ministero dell’Africa Italiana e allo Stato Maggiore Generale, a cui sottopone un piano di rientro in Eritrea, subito sostenuto dal governatore Francesco de Rege Thesauro, rimasto nell’ex colonia. Il piano prevede di riprendere la lotta contro i Britannici e nel contempo di fornire ai capitribù locali sostenitori dell’Italia i riconoscimenti e i finanziamenti richiesti, con lo scopo di riprendere la guerriglia contro gli occupanti, ancora in fase di assestamento nella gestione della colonia appena conquistata militarmente.  La proposta non ha alcun seguito per la sopravvenuta dichiarazione di armistizio dell’8 settembre 1943. Guillet si vede costretto a cambiare destinazione scegliendo di ricongiungersi ai Comandi italiani che operano a Napoli, passando le linee tedesche nella zona del Volturno, ricevendo una nuova destinazione, quella di Brindisi a protezione del sovrano. Una breve parentesi che si chiude con il passaggio in servizio presso il Comando Supremo dell’Informazione Militare, continuando a rimanere effettivo presso il Gabinetto del Ministero della Guerra. All’inizio del 1944 assume la direzione del Gruppo Informazione e Assistenza agli Italiani all’Estero con particolare riguardo al mondo arabo e alle colonie, incarico assolto sino alla fine del secondo conflitto mondiale. La guerra chiude in via definitiva la fase militare e ne apre un’altra quella diplomatica.

Collocato in congedo dopo aver visto riconosciuti tutti gli avanzamenti di carriera Guillet, che nel frattempo sposa la cugina Beatrice Gandolfo, si iscrive all’Istituto Universitario Orientale di Napoli laureandosi nel 1947 in Scienze Coloniali Comparate. Partecipa e risulta vincitore del concorso indetto dal Ministero degli Esteri, entrando nel 1948 nella carriera direttiva diplomatico-consolare. Tra i suoi primi incarichi viene destinato all’Ambasciata del Cairo e console aggiunto ad Alessandria d’Egitto. Nel 1956 finalmente l’atteso incarico nello Yemen come Inviato straordinario e Ministro plenipotenziario, che svolge fino al 1962 con il trasferimento in Giordania in qualità di primo ambasciatore ad Amman; nel 1968 passa in Marocco, alla sede di Rabat, per poi concludere la carriera diplomatica in India, a New Delhi nel marzo 1974.

Nel 1975 si trasferisce in Irlanda, restandovi per oltre trent’anni, rientrando in Italia solo nel 2008, spegnendosi a Rona due anni dopo e trovando a Capua, nella cappella della famiglia della consorte, la sua definitiva dimora.


Rosangela Barone

2.      L’amicizia tra Amedeo Guillet e Rosangela Barone nasce in terra Irlandese alla fine degli anni ’80 del Novecento, alimentata dalle iniziative culturali che la nuova direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura a Dublino promuove a tamburo battente in quegli anni. Sono incontri destinati a tenere vivi gli interessi degli italiani residenti in quella terra, ma vanno oltre, cercando di coinvolgere anche studiosi autoctoni e di altra provenienza geografica per far conoscere la poliedrica produzione scientifica italiana, senza rinunciare alla promozione delle eccellenze culturali e delle migliori tradizioni che hanno dato piena identità ad uno Stato nazionale molto giovane, con poco più di un secolo di vita[4]. Declinare l’italianità è l’obiettivo prioritario dell’Istituto, obiettivo perseguito attraverso eterogenee iniziative culturali, senza alcuna forzatura e banalizzazione. Barone sceglie di selezionare soprattutto temi in linea con le competenze di anglista, trovando ispirazione nelle sue più collaudate ricerche letterarie e aprendosi anche alle tante novità esperite da altre branche del sapere scientifico. Un’intensa ed articolata programmazione che ha segnato la vita dell’istituzione culturale in maniera ultra positiva, di cui si è dato ampio spazio anche in un recente convegno di studio[5].            

La frequentazione di Guillet a Dublino resta intensa, vincolata al progetto dell’autobiografia, la cui messa in opera si prospetta non facile e neppure immediata. Barone visiona in anteprima le carte fornite dal generale e diplomatico, cercando di riordinare in una forma comprensibile l’ingente materiale documentario che di volta in volta recupera dagli archivi di famiglia. Guillet non ama però che altri si sostituiscano a lui nel racconto autobiografico. La trama vuole che resti nelle sue mani, lasciando alla Barone la rilettura e la ridefinizione del contesto storico con i diversi ed enigmatici protagonisti che entrano nella sua vita. Delega ad altri la cornice del quadro, ma sul dipinto (comprese le sfumature) non è disposto a concessioni, vuole che i pennelli e i colori siano scelti da lui. Ama interloquire sui diversi passaggi della sua avventurosa vita, ma non rinuncia a tessere in maniera autonoma, senza condizionamenti, la sua tela.      

Un percorso ad ostacoli che connota l’intera istanzia irlandese della Barone, andando oltre i tempi previsti. L’autobiografia è pronta qualche anno prima della scomparsa del Guillet, ma tarda ad avere una sistemazione editoriale accettabile, quella ritenuta più consona per soddisfare le accresciute aspettative, richiedendo altri indispensabili ritocchi per acquisire il definitivo imprimatur. Rosangela Barone non è più sola a curare l’operazione. Viene accompagnata in questa avventura (che anche ai curatori appare interminabile, al di là del periodo immaginato) da Alfredo Guillet, il figlio minore dell’ambasciatore, custode interessato delle memorie del padre.

  • Bisogna attendere gli anni venti del terzo millennio per conoscere la complessa struttura della tela tessuta da Amedeo Guillet. L’operazione editoriale vede la luce in due volumi nel 2022, con non poche sorprese per le novità introdotte dai curatori. Il racconto autobiografico, sin dal prologo, non viene minimamente toccato, non subendo alcuna alterazione contenutistica, neppure di natura lessicale. Si lascia al protagonista piena libertà di mettere in fila le sue memorie. Il contesto in cui però queste memorie sono state calate è stato arricchito da carte geografiche, mirate illustrazioni, documenti esplicativi e dizionari su tutti, nessuno escluso, i personaggi e i luoghi che entrano nella storia autobiografica. Anche il vocabolario arabo entra nella narrazione con la traduzione, laddove necessario, dei termini utili alla comprensione del testo. Due volumi ricchissimi di appendici che aiutano a risolvere qualsiasi problema aperto attraverso uno specifico supplemento di indagini a vantaggio dei lettori colti e meno colti. Le foto abbondano, ma non sono inserite a caso, hanno una loro intrinseca logica, seguono un itinerario ben studiato, che coniuga la vicenda personale con quella familiare, a cui si sommano in maniera più larga le operazioni militari che portano il protagonista nello Yemen, vissuto come un approdo liberatorio e nello stesso tempo inaspettato per la scoperta di un mondo che lo coinvolge, fino a rimanere per tutta la vita fortemente legato.

Una storia che non si ferma alla traversata del Mar Rosso, all’arrivo a San’à e alla conoscenza diretta dell’Iman e del principe ereditario, ma prosegue oltre la guerra, divenendo per Guillet un problema politico, prima ancora che diplomatico, di importanza estrema che investe i futuri rapporti tra lo Stato Italiano e lo Yemen. Una prospettiva che emerge prepotentemente dall’azione messa in campo nel periodo post-bellico, quando da ambasciatore si spende attraverso i consueti canali della diplomazia a rendere possibile l’ambizioso progetto di installare duraturi e condivisi riconoscimenti reciproci. La tela che tesse il Guillet contempla due tempi: quello di narrare un incontro imprevisto, determinato dagli esiti negativi della guerra africana, e quello successivo di fornire una prospettiva a questo incontro, elaborando un organico progetto di riscatto a vantaggio di un popolo geograficamente isolato e poco considerato negli equilibri geo-politici del tempo.

Il primo volume dell’autobiografia è interamente destinato a raccontare la vicenda militare eritrea fino alla sconfitta da parte degli inglesi che costringe il Guillet a cercare riparo nello Yemen, dove non solo trova un’accoglienza insperata, ma anche un’alta considerazione per le sue riconosciute competenze militari. Viene nominato comandante del Reggimento dell’Iman, entrando da subito nell’entourage del potere che conta, mostrando abilità nell’addestramento della cavalleria yemenita. Il principe ereditario lo riceve con tutti gli onori, affascinato dalle sue doti, contraendo un’amicizia che durerà a lungo, ogni più rosea previsione. Guillet lascia momentaneamente lo Yemen rientrando clandestinamente in Italia con l’obiettivo di ritornare per combattere gli inglesi, ma le sorti della guerra sono ormai segnate e deve cambiare strategia per perseguire il riscatto del piccolo stato arabo.

Nel secondo volume dell’autobiografia esplicita nel dettaglio il nuovo itinerario diplomatico. Un contatto che non si interrompe nel periodo post-bellico. Nello Yemen Guillet torna con la famiglia e i figli, occasioni ricercate per avviare relazioni economiche e assistenza tecnica, assicurare un presidio sanitario con medici e medicinali indispensabili, rendere appetibile il paese arabo attraverso borse di studio. I ripetuti viaggi servono soprattutto a tenere vive le relazioni con l’Iman, chiamato in modo familiare “il mio eletto fratello yemenita”, per costruire nuovi scenari nei rapporti bilaterali tra i due stati. La materia diventa complessa per le implicanze geo-politiche, che toccano per un verso la Gran Bretagna e i suoi interessi legati al protettorato di Aden e per un altro le preoccupazioni dell’Arabia Saudita che non desidera un paese ostile ai suoi confini. A ciò si aggiunga la politica aggressiva dell’Unione Sovietica e quella della Cina Popolare Comunista, nuove potenze militari emergenti che mirano a contrastare l’espansionismo occidentale (in modo particolare degli Stati Uniti d’America e dell’Inghilterra) in un’area considerata strategica per la ridefinizione dei nuovi equilibri geo-politici. Guillet, ricevuto l’incarico di addetto agli affari commerciali yemeniti, con le armi della diplomazia cerca di attutire queste ingombranti presenze, cercando di rendere compatibile un processo di integrazione e di legittimazione politica che troverà con l’ingresso nelle Nazioni Unite, la sua definitiva consacrazione internazionale. Nel rapporto redatto nel 1954, al termine del mandato esplorativo per conto dell’ambasciatore al Cairo, Pasquale Jannelli, Guillet molto lucidamente indica la via da seguire per rendere lo Yemen un paese affidabile e pronto a far parte organicamente del consesso internazionale, non nascondendo le difficoltà prodotte da un’arretratezza atavica, ma neppure trascurando le potenzialità di sviluppo, a cui si potrebbe rimediare con mirate politiche di sostegno. La tela yemenita nella versione completa dell’autobiografia sembra sorreggersi su questo auspicio, coltivato e ribadito da Guillet fino ai suoi ultimi giorni di vita. 

I due volumi dell’autobiografia sono stati considerati dagli stessi curatori un “progetto editoriale fuori dagli schemi” e questo può essere un elemento importante per una valutazione complessiva dell’intera operazione scientifico-editoriale. A prima vista i due tomi, così come sono stati confezionati, sembrano destinati ad esperti cultori di settore, a studiosi cioè che coltivano gli stessi ambiziosi interessi di ricerca. Andando però oltre un primo, rapido approccio si scopre l’obiettivo prioritario perseguito, quello di tentare di conciliare lo sforzo storico-documentario proprio degli specialisti accademici con quello narrativo-divulgativo tipico dei biografi motivati per un coinvolgimento di una più vasta ed eterogenea schiera di lettori. Non è da ignorare l’intento espresso nell’incipit del primo volume di tenere un basso profilo di “garzoni di bottega del maestro tessitore” per non compromettere l’esito ricercato. Affidare alle successive generazioni di studiosi-lettori la bontà dell’operazione editoriale e, con essa, anche i suoi limiti con tutte le possibili integrazioni e i necessari approfondimenti è stato, alla fine, un modo fin troppo elegante per cercare la massima comprensione, come pure la dovuta attenzione per il prodotto conseguito, quello che in buona sostanza le circostanze temporali ed esistenziali hanno assicurato[6].

Al di là dell’apprezzabile sensibilità dei curatori, la cui misurata prudenza e la cui acclarata attitudine hanno fornito un valore aggiunto all’intera operazione editoriale, è innegabile che il paventato rischio di dare alle stampe i due tomi senza il beneplacito ufficiale del mondo di riferimento del protagonista, già militare di carriera e poi diplomatico di alto rango, è apparso anche ai lettori più sprovveduti un eccesso di zelo per il dovuto rispetto verso un ambiente (Ministero della Difesa e Ministero degli Affari Esteri) da cui non solo è partita la ricerca archivistico-documentaria, ma a cui è anche destinato in maniera esclusiva il prodotto finale. L’attesa di conseguire riscontri tangibili in questa direzione ha certamente allungato i tempi editoriali, ma è servita per acquisire un imprimatur irrinunciabile, che se negato avrebbe indebolito, fino a toccare l’irrilevanza, l’ambizioso progetto di curatela. Senza il timbro del Maeci (Ministero degli Affari Esteri-Cooperazione Internazionale) e dell’Ismeo (Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente) posto dai funzionari di più alto grado e senza la firma, non di circostanza, del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e dell’illustre ambasciatore d’Italia ad Oslo i due tomi avrebbero conservato una sorta di anonimato, riconducibile ad una memorialistica passatista tipica di un normale diario privato, oscurando profondamente il valore identitario espresso dalle vicende militari e diplomatiche di un servitore dello Stato.

Disegnata la cornice del quadro con questi necessari riferimenti istituzionali la struttura narrativa dei due tomi ha seguito canoni storico-letterari in parte collaudati da precedenti esperienze e in parte esplorando vie innovative, utili a tenere insieme la vicenda personale con la ricerca storica correlata, l’histoire èvènementielle con quella di longue durèe, al fine di assicurare una narrazione ampia e pertinente, capace di andare oltre l’estemporaneità del racconto e consentire anche, dentro un contesto di vicende politico-diplomatiche-militari assai aggrovigliate, una valutazione articolata e prospettica del dato autobiografico. Con misurato equilibrio però, rinunciando a scelte di natura encomiastica e rimanendo aderente alla cruda realtà vissuta, senza mai allontanarsi dal contesto di riferimento per lasciare duratura traccia di un’esperienza, quella yemenita, utilizzata alla stregua di una fonte, tra le tante disponibili, per trasferire in sede storica una personale visione di un mondo poco conosciuto, ancora ininfluente sul piano degli equilibri geo-politici, lontano anni-luce dalla cultura occidentale, ma che l’autore sente intimamente suo sin dai primi occasionali contatti esperiti.

Un’autobiografia, pur restando un racconto di memorie, può assumere i caratteri di una fonte storica solo a certe condizioni, se nell’incrocio dei dati acquisiti conferma e arricchisce le dinamiche storiche già note e cristallizzate nella pamphlettistica corrente. Da qui la necessità di esplorare i passaggi più significativi, quelli che illuminano più di altri la forma di governo, le gerarchie al potere e, non per ultimo, la vita quotidiana del popolo minuto, a cui il Guillet mostra una particolare predilezione, destinando attenzione e vicinanza. Sorprende dagli episodi sparsi nel suo diario la rapidità con la quale riesce ad integrarsi in un ambiente a prima vista ostile senza soffrire particolari disagi e/o sentire la nostalgia della sua terra lontana, la quale, pur non uscendo mai dal racconto, non appare mai come un freno o un ostacolo ad una interlocuzione senza pregiudizi, una spinta alla rinuncia di far parte di un mondo in cui non fa alcuna fatica a non sentirlo estraneo.

Note


[1] Cfr. A. Guillet, La mia tela yenemita, 2 voll. a cura di Rosangela Barone e Alfredo Guillet, Roma, Ismeo, 2022.

[2] Guillet acquista un’abitazione sette-ottocentesca con podere nel villaggio di Kentstown, nella contea di Meath, non lontano da Dublino soprattutto per amore dei cavalli e per accontentare la moglie Bice, amante del verde. Nei campi circostanti l’abitazione si trova una scuderia adibita a maneggio e il resto del terreno è destinato a pascolo per i cavalli.

[3] Cfr. V. Dan Segre, La guerra privata del Tenente Guillet. La resistenza italiana in Eritrea durante la seconda guerra mondiale, Milano, editrice Corbaccio, 1993, volume in cui la memorialistica si intreccia con la documentazione storica conservata negli archivi inglesi ed italiani, a cui segue il testo di Sebatian O. Kelly, Vita, avventure e amori di Amedeo Guillet, un eroe in Africa, Milano, Rizzoli, 2002, che mira a mitizzare il personaggio, rendendolo noto al pubblico di lettori inglesi con la prima versione editoriale in lingua anglofona. Anche Indro Montanelli si era ben documentato per scrivere una monografia sul Guillet, ma poi rinuncia dopo aver visto che questo progetto era stato realizzato da altri.

In tempi più recenti su Guillet si sono occupati alcuni registi con importanti documentari e lungometraggi. Vale la pena segnalare il questa sede il documentario della regista Elisabetta Castana, Amedeo Guillet. La leggenda del Comandante Diavolo, prodotto per RAI Educational nel 2007 e quello del regista Mario Mongelli, Amedeo Guillet Gentiluomo senza tempo dello stesso anno, a cui fa seguito il lungometraggio di Ascanio Guerriero del 2013 Amedeo Guillet. Un grande italiano per due Nazioni destinato esclusivamente alle sale cinematografiche italiane.  

[4] Sulla stagione irlandese di Rosangela Barone si attende di porre mano ad un dettagliato bilancio di studi, che oltre a evidenziare i maggiori interessi coltivati dalla studiosa (James Joyce, Tom Murphy, Eva Gore-Booth. Alan Titley, Thomas Hardy, ecc.) anche le diverse iniziative culturali promosse nell’arco temporale lungo, non riducibile all’incarico di Direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura a Dublino, che tenga conto di un impegno speso ininterrottamente, fino alla morte, se è diventata una figura unica per l’universo degli studi irlandesi.  

[5] L’assise scientifica, organizzata per ricordare Rosangela Barone, si è tenuta a Bari nella sede universitaria, il 15 aprile 2024 con la partecipazione di studiosi di riconosciuto valore quali Enrico Terrinoni, Enrico Reggiani, Grahan Price, Paul Caffrey, Nicola Pantaleo, Marco Sonzogni, Melita Cataldi, Maria Vita Cambria, Andrea Binelli, Giovanna Epifania, Pier Paolo Marino e Matilde Gatto, che ha curato le due sessioni di studio, i cui atti saranno quanto prima pubblicati. 

[6] La confezione dei due volumi è costata diversi anni di lavoro, vissuti non in piena tranquillità da Rosangela Barone, che ha sempre spinto per una conclusione più rapida, restando purtroppo esclusa dall’approdo finale, colta dalla morte prima della sua pubblicazione. Il co-curatore Alfredo Guillet, scosso da questo inaspettato evento, ha provveduto prontamente a dare alle stampe l’autobiografia per onorare la memoria di una studiosa straordinaria che fino all’ultimo dei suoi giorni si è spesa per arricchire di contenuti mirati l’intera operazione editoriale.

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