Un libro per l’estate: “Cent’anni di solitudine”, il capolavoro che insegna a ricordare

La scoprì per caso, lui insonne esperto che aveva imparato l’arte dell’oreficeria, mentre cercando la piccola incudine che serviva per laminare i metalli si accorse di non ricordarne più il nome.

Allora suo padre gli disse che si chiamava tasso.

Aureliano scrisse quel nome su un pezzo di carta che appiccicò sul piede dell’incudine. Così fu sicuro di non dimenticarlo in futuro.

Non pensò che quella poteva essere la prima manifestazione della perdita della memoria perché il nome dell’oggetto era difficile da ricordare.

Ma alcuni giorni dopo scoprì che faceva fatica a ricordarsi  di quasi tutti gli oggetti del laboratorio.

Così cominciò a segnare il  nome  di tutti in modo che gli bastasse leggerlo per riconoscerli.

Quando poi suo padre gli rivelò di essersi dimenticato anche dei fatti più importanti della sua infanzia, Aureliano gli spiegò il suo metodo e Josè Arcadio Buendìa lo mise in pratica in casa sua e poi lo impose a tutto il paese.

“ Con uno stecco inchiostrato segnò ogni cosa con il suo nome: tavolo, sedia, orologio, porta, muro, letto, casseruola. Andò in cortile e segnò gli animali e le piante: vacca, capro, porco, gallina, manioca, malanga, banano.

A poco a poco, studiando le infinite possibilità del dimenticare, si accorse che poteva arrivare un giorno in cui si sarebbero individuate le cose dalle loro iscrizioni, ma non se ne sarebbe ricordata l’utilità.

Allora fu più esplicito. Il cartello che appese alla nuca della vacca  era un modello esemplare del modo in cui gli abitanti di Macondo erano disposti a lottare  contro la perdita della memoria: “ Questa è la vacca, bisogna mungerla tutte le mattine in modo che produca latte e il latte bisogna farlo bollire per aggiungerlo al caffè e fare il caffellatte”.

Poi all’entrata del paese gli abitanti misero  un cartello  con il nome di Macondo, nella strada più grande un altro con la scritta che diceva Dio esiste. In tutte le case misero segni convenzionali per ricordare oggetti e sentimenti.

C’è la Storia e c’è la fiaba nel romanzo di Márquez: la Storia che sembra una fiaba e la fiaba che assume la fisionomia della Storia. Per dire che non c’è condizione che possa garantire certezze, che tutto si trasforma, diventa deformato,  irriconoscibile; il probabile e l’improbabile confluiscono nell’immaginario e si confondono; il vero e il falso sono categorie indefinite, vaghe; la realtà e la finzione sovrappongono i confini, li aboliscono. Forse l’unica condizione che possa tentare di sottrarre  storie e personaggi ai territori sconfinati e scuri dell’oblio,  è il linguaggio, la parola, il racconto che si fa delle creature e dei loro destini. Anche quando  nemmeno si intuisce che utilità possa avere il raccontare.  

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 7 luglio 2024]

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