Racconti sovietici 9. Quarantunesimo 1

Quando il generale Kolčiak2, coi fucili spianati della mescolanza umana, chiuse come con un duro tappo l’intera linea ferroviaria della città di Orenburg, lasciando arrugginire le locomotive a vapore allibite dal terrore nelle retrovie profonde dei binari morti, ad un certo punto non rimase più nella repubblica del Turkmenistan la tinta nera per la colorazione delle pelli.

Il tempo, però, divenne rombante, agitato, torbido, coriaceo.

Ad un corpo umano buttato fuori delle accoglienti mura domestiche alla calura e nel gelo, nella pioggia e al vento, al fischio tagliente delle pallottole, serviva una corteccia ben resistente.

Proprio per questo fra l’umanità ebbero impiego le giubbe di pelle.

Dappertutto le pelli delle giubbe venivano colorate di un nero dai riflessi grigio-acciaio, severo e deciso, proprio come lo sono gli uomini che le indossano.

Ma in Turkmenistan non c’era più una tintura così.

Si dovette allora, per ordine dello Stato Rivoluzionario, requisire alla popolazione locale le scorte delle polveri d’anilina tedesche, con le quali le donne uzbeche di Fergana coloravano in un’impressionante gamma di tonalità pavonesche le sete impalpabili dei loro scialli e le mogli turkmene dalle labbra secche le usavano per gli ornati di disegni a lunghe fibre dei loro tappeti.

Con queste polveri cominciarono a tingere le pelli fresche dei montoni e “divampò”, si accese l’Armata Rossa del Turkestan con ogni sfumatura dell’arcobaleno: rosso-lampone, arancione, giallo-limone, verde-smeraldo, lilla, turchese.

Al commissario Evsjukov il destino, nei panni di un butterato magazziniere del vettovagliamento, consegnò, su mandato, le braghe e la giubba di un rosso-lampone vivo.

La faccia di Evsjukov sin dall’infanzia pure era rosso-lampone, con delle lentiggini color rame e in testa, invece dei capelli, aveva una morbida peluria come quella di un anatroccolo.

Se si aggiunge, inoltre, che Evsjukov era di statura assai piccola, di corporatura tarchiata, robusta e la sua sagoma sembrava un ovale regolare, allora con la giubba e le braghe rosso-lampone acceso era proprio simile – due gocce d’acqua – ad un uovo di Pasqua colorato. Sulla schiena di Evsjukov s’incrociavano le cinture di cuoio dell’equipaggiamento militare, formando la lettera “X” di “Xristos”, come qui da noi viene chiamato Cristo; cosicché, non appena il commissario si girava, sembrava che davanti dovesse apparire la lettera “R”, pari pari al benaugurale cristiano-ortodosso delle feste pasquali, “XR”: “Cristo è risorto!“.

Ma saremmo in errore a pensarlo, perché Evsjukov non aveva fede né in Cristo, né nella Pasqua.

Credeva, invece, nel Soviet, nell’Internazionale, nella Ceka e ad una brunita pesante pistola a tamburo, tra le sue forti e nodose dita.

I ventitré che si avviarono insieme con Evsjukov a nord, uscendo dall’accerchiamento mortale delle sciabole cosacche delle Guardie Bianche, erano i combattenti dell’Armata Rossa, semplici soldati come tanti altri, nulla più. Uomini comuni, e basta.

Tutta speciale fra loro è Marjutka.

Orfana del padre pescatore e di madre, Marjutka era nativa di uno dei villaggi di pescatori del delta del Volga nei pressi di Astrakhan, largo, gonfio dal vasto canneto.

Per dodici anni, da quando ne aveva sette, stette seduta con le braghe indurite di tela catramata a cavalcioni di una panca unta di budella di pesce, squarciando con il coltello i viscidi ventri argentei delle aringhe.

Ma quando in ogni città e villaggio indissero l’arruolamento volontario nella Guardia Rossa, Marjutka all’improvviso ficcò bruscamente il coltello nella panca e andò nelle sue rigide braghe ad arruolarsi.

Dapprima la mandarono via, ma poi, vedendo quella sua quotidiana insistenza, risero fragorosamente e la arruolarono come un soldato della Guardia Rossa a pieni diritti con tutti gli altri combattenti, ma pretesero una rinuncia scritta del modo di vivere femminile e, tra l’altro, di astenersi dalla procreazione sino alla vittoria definitiva dei lavoratori sul capitalismo.

Marjutka, un delicato fuscello di una canna palustre, le trecce color rame sistemate ad aureola sotto un bruno colbacco turkmeno di Tekin; gli occhi di Marjutka sono forsennati, di taglio a mandorla, illuminati da una felina luce gialla.

L’essenziale dell’esistenza di Marjutka era sognare. Aveva una spiccata inclinazione verso i sogni ed amava, inoltre, scrivere le poesie su un qualsiasi pezzo di carta con un moncone di lapis, dove capita capita, con cura, a lettere traballanti, come nel malcaduco.

Questo era noto a tutti nel distaccamento. Non appena si entrava in una città qualsiasi, dove c’era la redazione di un giornale, Marjutka andava nella cancelleria del reggimento per chiedere con insistenza un po’ di fogli di carta e, inumidendo con la lingua le sue labbra secche per l’emozione, riscriveva accuratamente i versi in bella copia, mettendo sopra di ognuno il titolo e sotto la firma: poesia di Maria Bassova.

I versi erano di vario genere: sulla rivoluzione d’ottobre, la lotta di classe, i dirigenti politici.

Tra gli altri, Lenin:

Lenin, sei un nostro eroe proletario,

In piazza erigeremo un monumento a te.

Hai abbattuto il palazzo dei regnanti,

Puntando il piede sul potere operaio.

Portava le poesie alla redazione del giornale. Nella redazione fissavano la ragazza, di costituzione fragile, con indosso un montone rovesciato e una carabina da cavalleggero sulla spalla; prendevano, stupiti, le poesie, promettevano di leggerle.

Dando uno sguardo tranquillo a tutti, Marjutka andava via.

Il segretario di redazione incuriosito leggeva attentamente i versi. Le sue spalle si sollevavano e cominciavano a tremare, la bocca si allargava in una fragorosa, irrefrenabile risata. Attorno si raccoglievano gli altri collaboratori della redazione e il segretario, soffocando dalle risa, leggeva le poesie ad alta voce.

I collaboratori ridevano, rotolandosi sui davanzali delle finestre: a quei tempi le redazioni erano del tutto prive di mobili.

Marjutka ritornava la mattina dopo. Guardava ostinatamente con le sue gialle pupille fisse, nel viso contratto dalle convulsioni del segretario, raccoglieva i fogli e diceva cantilenando: «Quindi, non possono essere pubblicate? Sono mal costruite, acerbe? Eppure, le poesie mi vengono proprio dal cuore, le modello, le scolpisco come con un’accetta, e pur sempre mi vengono male. Ebbene, devo lavorarci sopra ancora – non c’è altro da fare! Ma come mai, la peste dei pesci le pigli, sono tanto difficili? Eh?»

E, calcandosi in testa sino agli occhi il suo colbacco turkmeno, stringendosi nelle spalle, lasciava la redazione.

Le poesie non riuscivano a Marjutka, invece sparava dalla carabina contro un bersaglio con una straordinaria precisione. Era il miglior tiratore scelto del distaccamento di Evsjukov e nelle battaglie si trovava sempre vicino al commissario rosso-lampone.

Evsjukov indicava con il dito: «Marjutka! Guarda! Un ufficiale!»

Marjutka strizzava gli occhi, si leccava le labbra e senza fretta muoveva la canna della carabina. Tuonava lo sparo, sempre infallibile.

Lei abbassava l’arma ed ogni volta diceva: «E’ il trentanovesimo, la peste dei pesci lo pigli. È il quarantesimo, la peste dei pesci lo pigli.»

«La peste dei pesci ecc…» – era l’intercalare preferito di Marjutka.

Non sopportava invece né parolacce né bestemmie. Se capitava che vicino qualcuno imprecasse volgarmente, si accigliava, taceva e arrossiva.

Marjutka osservava rigidamente la rinuncia sottoscritta durante l’arruolamento nella Guardia Rossa. Nessuno nel distaccamento poteva vantarsi di una sua particolare benevolenza.

Una volta, di notte, provò con lei un magiaro, Gucia, arrivato nel distaccamento da poco, che da alcuni giorni se la mangiava letteralmente con gli occhi. Finì malissimo. Si allontanò il magiaro, strisciando a stento, con tre denti rotti e ferito alla tempia. Marjutka lo aveva conciato per le feste con il calcio della rivoltella.

I soldati della Guardia Rossa prendevano in giro Marjutka bonariamente, ma durante le battaglie la proteggevano assai più di se stessi, guidati dall’inconscia tenerezza, nascosta profondamente sotto il rigido guscio dai colori accesi delle giubbe, dall’angoscia nostalgica per i corpi pieni di calore e d’accoglienza delle femmine lasciate a casa.

È così che si erano avviati verso nord, nell’oscurità disperata delle infinite gelide sabbie granulose, i ventitré, il rosso-lampone Evsjukov e Marjutka.

Coi trilli argentei delle tempeste di neve cantava un tormentoso febbraio. Ricopriva di soffici tappeti, di piume di brina le cunette fra i dossi delle dune sabbiose e al di sopra degli uomini, avviati nell’oscurità e nella tormenta, fischiava il cielo – non si sa se per il vento furioso, o per l’ossessionante stridore delle pallottole nemiche che si incrociavano nell’aria, all’inseguimento dei fuggiaschi.

Con difficoltà tiravano fuori dalla neve e dalla sabbia le gambe appesantite con gli scarponi rotti; i rugosi cammelli affamati rantolavano, ululavano e sputavano.

Prive di ogni vegetazione, le grandi superfici argillose spianate dai venti luccicavano di cristalli salini e per centinaia di verste tutt’attorno il cielo era tagliato dalla terra, come con un coltellaccio da macellaio, lungo la linea dritta ed offuscata del basso orizzonte.

Questo capitolo, tutto sommato, è del tutto superfluo nella mia narrazione.

Sarebbe assai più semplice iniziare dalle cose principali, da tutto quello, di cui si parlerà nei prossimi capitoli.

Tuttavia il lettore doveva, in qualche modo, venir a sapere, da dove e per quale motivo erano apparsi i resti del distaccamento speciale di Gur’jev ad una distanza di trentasette verste a nord-est dai pozzi di Kara-Kaduk, come mai in una formazione della Guardia Rossa si trovasse una donna, perché il commissario Evsjukov fosse rosso-lampone e tant’altro ancora bisognava far conoscere al lettore.

Cedendo alla pura necessità, ho scritto questo capitolo.

Mi permetto, tuttavia, d’assicurarvi che non ha alcun significato.

Note

1 Saksaul o haloxylon (bot.) – una pianta desertica.

2 Kolčiak, Alekssandr Vassilievič, ammiraglio russo, (1875-1920). Nel 1917 organizzò un’armata controrivoluzionaria in Siberia. Battuto dai bolscevichi, venne processato e fucilato.

(continua)

[Traduzione dal russo di Tatiana Bogdanova Rossetti]

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