Otranto e Gallipoli tra Medioevo ed Età moderna: destini diversi

  1. Prima della conquista bizantina il Salento con i suoi porti si configurava come una zona di passaggio di natura prevalentemente militare e commerciale. Solo a partire dal VII secolo Otranto e Gallipoli iniziano a rivestire un ruolo culturale di una non trascurabile importanza prima del tutto negato dalla dominazione longobarda. In questa fase storica Gallipoli, prima ancora di Otranto, appare destinata a diventare il maggiore centro di trasmissione della cultura greca nella estrema provincia pugliese. L’intero territorio salentino a partire da questa data e per i due secoli successivi conosce un’intensa ellenizzazione in seguito anche ad una radicale organizzazione amministrativa, militare ed ecclesiastica elaborata e realizzata da Bisanzio. A Gallipoli si assiste ad un travaso di colonie greche provenienti in massima parte da Costantinopoli, che lasciano le loro tracce sia nelle cronache coeve sia anche in maniera postuma nelle epigrafi. Almeno fino alla conquista angioina del regno meridionale le relazioni tra la città salentina e la capitale Bisanzio si rivelano molto strette e tali da suggellare una dipendenza culturale che va oltre il periodo bizantino. Gallipoli già nel IX secolo vede eretta la sua chiesa a diocesi e subito vincolata a quella di Bisanzio attraverso la sede metropolitana calabra di Santa Severina. Stessa sorte tocca qualche decennio più tardi alla chiesa di Castro. Il flusso migratorio che inizialmente aveva interessato le due sponde dell’Adriatico viene nei decenni successivi gradualmente rafforzato dall’arrivo di altre popolazioni indigene provenienti dall’interno della penisola e in modo particolare dalla Calabria e dalla Sicilia, i cui processi di grecizzazione risultano già nell’VIII secolo molto avanzati. Non è un caso se la chiesa cattedrale di Gallipoli si affida alla protezione di S. Agata, una santa originaria della Sicilia, adozione sostenuta in maniera decisiva dalla consistente comunità sicula che si era rifugiata nella città ionica per sfuggire all’invasione araba. Con l’arrivo dei Normanni Gallipoli non perde la sua identità greca, nonostante la sua chiesa sia stata provvisoriamente latinizzata all’inizio del XII secolo. Proprio con i Normanni si assiste invece, per la tolleranza e il rispetto mostrati verso le chiese e i monasteri greci da parte del sovrano Ruggero II, ad una rinascita della cultura bizantina che consente anche alla chiesa di Gallipoli di ripristinare i vecchi vincoli con Bisanzio e di poter avvicendare alla guida della diocesi vescovi greci e locali canonizzati da Costantinopoli. Un orientamento non cancellato dalle dominazioni successive se il Salento conosce almeno fino al periodo svevo e angioino una larga diffusione ed un ulteriore consolidamento della cultura greca. Dentro questo quadro di riferimento si sviluppa intensamente la produzione letteraria ad opera di diversi autori, in larga parte già esplorati dalla ricerca di settore, che fanno di Gallipoli il più grande centro culturale della provincia di connotazione ellenistica. Sarebbe troppo lungo segnalare tutte le personalità di spicco che hanno alimentato e arricchito la cultura letteraria gallipolina. Dal monaco Teodoro al vescovo Pantaleone del XIII secolo, si forma una schiera di poeti e di letterati che tengono vivo il rapporto con Costantinopoli e, con esso, la tradizione bizantina nell’intero Salento. Gallipoli, pur attraversata nel corso del Medioevo da assedi bellici, resta per lungo tempo un ponte tra Occidente e Oriente, finendo per esercitare un ruolo di raccordo che tiene unite la cultura greca con quella latina.

Veduta di Otranto nel 1703 nel “Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodeci provincie” dell’Abbate Giovanbattista Pacichelli.

Otranto fino almeno all’età normanna conserva con Bisanzio un rapporto privilegiato, anche per la collocazione geografica in cui è posta, diventando il porto più importante del basso Adriatico con il mondo ortodosso. Un ponte che lega due civiltà, quella occidentale e orientale, un punto di incontro in cui si trovano a confluire soggetti di diversa provenienza, letterati ma anche uomini d’affari dediti al commercio con l’altra sponda del mediterraneo. Fino a quando la città resta saldamente legata a Bisanzio la cultura dominante è sempre quella greca, non rinunciando tuttavia a tenersi aperta alle contaminazioni della tradizione latina. Otranto non raggiunge mai livelli consistenti di inurbamento, ciononostante accoglie etnie diverse proprio per la densa attività commerciale che esprime, dando anche stabile rifugio ad una comunità ebraica di dimensioni non trascurabili. Diventa prima e dopo l’anno Mille una città di frontiera che esercita un’attrazione sempre crescente anche nei periodi successivi alla dominazione bizantina. Con la conquista della città da parte dei Normanni la cultura greca resta ancora assorbente, sebbene la chiesa locale torni ad acquisire un’identità latina. A tenere però viva e prospera la cultura greca è il cenobio basiliano di San Nicola di Casole, in modo particolare al tempo dell’abate Nicola Nettario (primi decenni del XIII secolo) che si fa promotore di un importante circolo letterario per lungo tempo attivo, lasciando tracce durature di una fiorente cultura umanistica. Sotto i Normanni Otranto resta l’avamposto più avanzato per le spedizioni militari contro Bisanzio. Un ruolo che gradualmente emargina la città dai grandi circuiti commerciali, segnando un declino urbano lento, ma irreversibile. Con il trasferimento a Palermo della capitale del regno, Otranto viene a perdere la centralità acquisita con i bizantini, sebbene i contatti culturali con l’altra sponda dell’Adriatico restino ancora fecondi. Con gli Svevi e poi più estesamente con gli Angioini la figura predominante della città si rivela l’arcivescovo metropolita, simbolo identitario di una cultura latina in progressiva espansione. Non si assiste ad un radicale rovesciamento del pregresso legame con il mondo ellenistico, ma ad un generale affievolimento, una sorta di impotenza ad alimentare un rapporto mutualistico che aveva segnato la sua storia medioevale, con una distinzione sempre più marcata con Gallipoli che invece resta anche in questo periodo una città segnata da una forte connotazione greca.                       

  • La rottura irreversibile di Otranto con Bisanzio avviene nel 1453 quando la città capitale dell’Impero d’Oriente viene ad assumere una nuova identità in seguito all’occupazione ottomana. Anche Gallipoli subisce la dominazione islamica nel Mediterraneo orientale senza tuttavia vedere intaccata profondamente la sua cultura ellenistica, che resiste ancora per qualche decennio all’estinzione. Il quadro operativo alla fine del XV secolo sembra mutare per gli insormontabili ostacoli che le etnie commerciali italiche (in particolare veneziani e genovesi) incontrano sulle rotte del mar Egeo, sperimentate positivamente durante le Crociate con destinazioni sempre più avanzate che toccano regioni e popoli dell’entroterra asiatico. La cosiddetta via di Marco Polo favorisce l’espansionismo mercantile italico di prodotti di prima necessità (cereali ed olio lampante) in cambio soprattutto di altri più pregiati (quali le sete e le spezie) che seguono il corridoio terra-mare ben tracciato attraverso il mare Adriatico che da allora assume simbolicamente il nome di “laguna di Venezia”. Otranto però sembra esclusa da questo circuito in favore di altri porti pugliesi, perdendo vitalità e con l’impoverimento dei ceti più attivi del settore, soprattutto la comunità ebraica, costretta prima per la riduzione degli affari e poi per l’allontanamento coatto da parte dei governi a ri-alimentare la diaspora. La situazione precipita nel 1480 con il sacco della città da parte dei turchi, che danno il definitivo colpo di grazia ad una città prima culturalmente fiorente e ponte ineludibile fra due civiltà, quella occidentale e quella orientale. Da allora Otranto viene ad assumere un altro ruolo, cioè di baluardo della cristianità romana offesa, che esercita per tutta la prima età moderna quando la lotta contro il turco diventa ideologica prima ancora che religiosa, con le gravi conseguenze militari e commerciali che comporta, danneggiando fortemente i traffici tra le due sponde e accelerando il declino economico-sociale della città, un tempo approdo insostituibile per la collocazione strategica e operativa del suo porto. Con la dominazione spagnola Otranto, pur in rapida decadenza urbana, resta un simbolo identitario tale da connotare fortemente l’estrema provincia pugliese, chiamata appunto Terra d’Otranto con la riforma amministrativa del regno realizzata con l’istituzione delle 12 province meridionali nei primi decenni del Cinquecento. Otranto nei piani della monarchia asburgica riveste un’importanza che va al di là delle modeste dimensioni dell’agglomerato urbano, ormai di poco superiore alle mille anime, con la riaffermazione del ruolo primaziale della diocesi, il cui metropolita viene direttamente designato dal sovrano spagnolo in seguito agli accordi stipulati nel 1529 a Barcellona con papa Clemente VII. L’arcivescovo diventa in questo modo il referente religioso e politico di un intero territorio, chiamato non solo a guidare la più grande circoscrizione ecclesiastica del Salento, ma anche a vigilare per conto della monarchia madrilena la sponda dell’Adriatico più esposta alle incursioni turchesche almeno, se non oltre, fino alla vittoriosa battaglia di Lepanto del 1571. Un ruolo delicato che si traduce in buona sostanza in un’organica collaborazione con il governatore militare della città, il cui compito di difesa del territorio richiede il coinvolgimento e la partecipazione attiva dei diversi poteri cittadini. L’arcivescovo tuttavia nel panorama diocesano rappresenta la figura predominante per la difesa dell’ortodossia cattolica dalle devianze ereticali e dalle residuali contaminazioni bizantine, accrescendo il suo potere di controllo e divenendo unico e, per certi aspetti, incontrastato dominus (e signore di diversi feudi) per la disponibilità di ingenti risorse economiche provenienti dai beni concessi dai diversi sovrani medioevali. La diocesi di Otranto diventa sempre più ambìta per la ricchezza della mensa episcopale, aprendosi ad una concorrenza di prelati forestieri, in massima parte spagnoli, mitigata solo parzialmente dal “privilegio dell’alternativa” deciso da Carlo V nel 1554 per consentire l’avvicendamento sulla cattedra vescovile anche di personale regnicolo. Otranto già nel tardo Cinquecento ha mutato profondamente la sua antica fisionomia medioevale di città aperta, di luogo privilegiato di incontro delle maggiori etnie commerciali italiche, di centro culturale ellenistico di primissima importanza, abdicando a quel ruolo di raccordo tra due mondi (Occidente e Oriente) prima intimamente vicini ma diventati ormai tragicamente lontani.

Gallipoli diversamente da Otranto può guardare altrove, scolorire in maniera crescente la pregressa identità ellenistica, ma acquisire una nuova centralità commerciale dalla piena valorizzazione del suo porto. Dopo la caduta nel 1480 di Otranto in mano turca, Gallipoli si propone come punto alternativo per il commercio soprattutto dell’olio lampante, cadendo sotto le mire di Venezia che fino ad allora aveva egemonizzato il traffico di quello che veniva chiamato “l’oro salentino”. La minaccia turca esercitata nei traffici orientali costringe la Serenissima a consolidare nell’Adriatico gli antichi approdi e nel contempo a spostare nel Mediterraneo centrale nuove rotte alla ricerca di mercati più ampi e redditizi. Dopo la caduta di Otranto il porto di Gallipoli si rivela il caricatoio più attrezzato per i traffici dell’olio lampante sia in direzione nord verso il porto veneziano di Trieste e quello pontificio di Ferrara, sia in direzione sud-est verso le sponde dalmate dell’Adriatico e quelle più frammentate dell’Egeo e dell’Asia Minore.  Per tutelare il predominio mercantile dalla forte concorrenza genovese Venezia cerca con la forza, manu militari, di assoggettare il porto di Gallipoli al suo controllo. Da qui la decisione di occupare la città nel 1484, motivata dall’impellente minaccia turca materializzatasi quattro anni prima ad Otranto. In realtà non si era ancora concretizzato il pericolo paventato da Venezia, che muove le sue pedine solo per conservare e consolidare un monopolio messo in costante soggezione dalle mire delle altre etnie mercantili.I turchi non mostrano di avere particolari interessi nel settore dell’olio lampante. Solo a partire dal Cinquecento si attivano a regolare il traffico di questo prodotto con accordi preventivi (dazioni in denaro) con le compagnie commerciali italiche che operano nel basso-Adriatico e nell’Egeo. La cosiddetta guerra di corsa che tengono accesa per un lungo periodo ha solo un obiettivo, quello di intercettare risorse economiche in cambio di un lasciapassare sicuro. Finché funziona questo scambio i traffici con l’Oriente non sembrano in sofferenza, anzi la Sublime Porta di Istanbul diventa familiare a tanti mercanti che vogliono incrementare i loro affari. Quando però la domanda di olio lampante aumenta in maniera esponenziale da parte dell’Europa le rotte del Mediterraneo centrale e occidentale diventano prioritarie. Solo allora Gallipoli rivela un ruolo strategico di primaria importanza, esercitato inizialmente dalla sola potenza mercantile veneziana che sbaraglia la concorrenza gestendo in maniera quasi esclusiva i traffici oleari del porto ionico. All’inizio dell’età moderna la grecofona Gallipoli cambia radicalmente pelle, sul piano culturale e religioso-dottrinale si latinizza sotto la spinta riformatrice del Concilio di Trento e su quello economico-sociale acquista una crescente dimensione etnica, richiamando al suo interno operatori e intermediari mercantili di diversa provenienza geografica, capaci di dare un nuovo e dinamico volto alla città. Nel Salento dopo l’oscuramento del porto di Otranto e il rapido declino del porto leccese di San Cataldo, quello di Gallipoli, escludendo Taranto e Brindisi per altre ragioni, rimane a partire dalla fine del XVI secolo l’unico approdo marittimo che lega in via permanente l’estrema provincia pugliese all’Europa.                                                          

  • Nel corso del Cinquecento si assiste a Gallipoli ad una sostenuta crescita urbana dovuta ai privilegi fiscali concessi agli abitanti della città dai sovrani aragonesi dopo il sacco veneziano del 1484 e confermati dagli spagnoli con Carlo V una volta divenuto padrone del regno meridionale. Una pre-condizione che favorisce il rilancio in grande stile dell’attività portuale soprattutto nel commercio del maggiore prodotto salentino d’esportazione, l’olio lampante, destinato alle manifatture italiche ed europee. Nell’arco di pochi decenni la piazza di Gallipoli diventa il più importante emporio del Mediterraneo orientale per la contrattazione e il commercio oleario, ospitando al suo interno consoli e viceconsoli in rappresentanza delle maggiori compagnie mercantili. Ai veneziani si aggiungono ben presto i genovesi e poi anche i ragusani (provenienti dalla città-Stato di Ragusa, attuale Dubrovnik), per finire ai napoletani, fiorentini, bergamaschi, milanesi e catalani, arricchendo l’agglomerato urbano di presenze forestiere e convogliando gran parte del prodotto dell’intera provincia verso la destinazione europea più redditizia. Come già anticipato la Serenissima presenta la schiera più corposa di operatori, segnando inizialmente il volume di traffico più sostenuto verso i porti di Trieste e, in misura minore, di Ferrara, da dove poi viene smistato negli stati italici e nell’Europa continentale. Il pericolo turco non scompare né prima e neppure dopo Lepanto, diventando preoccupante con la guerra di corsa sulle coste pugliesi e meridionali, tanto da costringere il sovrano Carlo V a militarizzare i confini orientali dell’impero con una rete di torri di avvistamento. In seguito a questa minaccia il Salento ritorna ad essere una terra di frontiera, lo spartiacque che divide due mondi contrapposti, quello cattolico-romano e quello islamico-ottomano, un conflitto aperto solo a soluzioni militari non sempre però decisive per essere risolto in tempi rapidi e in maniera definitiva.

La militarizzazione della costa salentina tuttavia non sembra ridurre, a considerare i volumi degli scambi commerciali, il traffico dei navigli e, con esso, i vantaggi strategici accumulati dal porto di Gallipoli rispetto agli altri della provincia e del Mezzogiorno. Le uniche novità riguardano l’apertura di nuove rotte, che soprattutto dalla fine del Cinquecento in poi si spostano prevalentemente sul Tirreno, mare in cui la navigazione sembra più sicura rispetto all’Adriatico. Una novità che finisce per consolidare il primato mercantile di Gallipoli, il cui porto esprime in quel lasso di tempo un attivismo che non conosce pause. Gli addetti del settore nel loro insieme, sia quelli che operano nel trasporto e nella molitura delle olive, sia quelli che curano il carico dei navigli, non possono godere di alcun riposo settimanale, neppure santificare la domenica e le feste comandate, costretti a chiedere al pontefice una bolla speciale per ottenere in via preventiva l’assoluzione per il mancato rispetto degli obblighi di precetto, bolla concessa prima da papa Gregorio XIII nel 1581 e poi da papa Sisto V nel 1590. Gallipoli sul finire del XVI secolo sembra vivere solo di commerci.

La crisi economico-sociale del primo Seicento non muta il quadro delle attività portuali in quanto non colpisce la produzione dell’olio lampante. Anzi proprio in coincidenza con la depressione economica a Gallipoli si registra un sensibile allargamento del numero degli operatori commerciali con presenze qualificate estere prima non segnalate. I vecchi mercanti italici (veneziani e genovesi soprattutto) indeboliti dalla crisi lasciano il posto a quelli di altra provenienza, in larga parte di etnie franco-olandesi ed inglesi che puntando su un’accorta intermediazione, affidata quasi esclusivamente ad agenti napoletani, si sostituiscono gradualmente ai primi. Escono dal mercato dell’olio lampante in modo particolare gli operatori incapaci di soddisfare l’accresciuta domanda estera. Altri scelgono volutamente di abbandonare il settore per investire nelle rendite parassitarie con l’acquisizione della titolarità di uno o più feudi in quanto ritengono che la risorsa olearia non possa più assicurare adeguati profitti. In seguito a queste strategie imprenditoriali si apre un nuovo scenario che cambia radicalmente la fisionomia mercantile salentina fino ad allora predominante. Gran parte dei vecchi mercanti veneziani e genovesi (ma in misura minore anche di altri di diversa origine) riconvertono i capitali accumulati per diventare utili signori di un territorio, pietrificando la loro ricchezza nella costruzione e/o ristrutturazione del palazzo baronale e nell’ampliamento di chiese urbane ed extraurbane. Il processo di rifeudalizzazione, che segna in negativo la svolta secentesca, favorisce l’emersione di nuovi protagonisti negli scambi dell’olio lampante salentino e contemporaneamente accelera l’oscuramento di personaggi che per lungo tempo avevano egemonizzato il settore. In forma sempre più nitida avanzano nuove corporazioni di mercanti che non sono individuabili, almeno all’inizio, in operatori dalla chiara identità anagrafica. Le nuove famiglie mercantili si nascondono dietro una sigla, le Compagnie delle Indie, che le tengano al riparo da possibili speculazioni e/o da atti di sabotaggio ostili. Mantengono a lungo l’anonimato per svelarsi solo a Settecento inoltrato quando il prezzo dell’olio lampante salentino viene deciso dalla Borsa di Londra. Nel corso del Seicento la loro presenza non è mai appariscente (perché non dichiarata nei registri portuali), ma si manifesta solo attraverso l’origine degli intermediari, sempre napoletani e comunque regnicoli, a cui affidano attraverso forme non ancora adeguatamente esplorate il compito di contrattazione in loco e della destinazione finale dei carichi d’olio. Il porto di Gallipoli, come nel tardo Cinquecento, anche durante il Seicento non perde vitalità, aumenta considerevolmente i suoi volumi di affari, dovendo far fronte anche alla chiusura temporanea del porto leccese di San Cataldo, alla inoperosità totale di quello di Otranto e all’altalenante funzionalità per il frequente insabbiamento di quello di Brindisi. In buona sostanza il prodotto oleario salentino viene quasi tutto convogliato nella città ionica, che può incrementare le tratte mediterranee europee e successivamente anche quelle extra-europee con l’apertura di nuove rotte. Non si trascurano le vecchie e collaudate vie commerciali, come quella adriatica, che fanno capo al porto veneziano di Trieste per raggiungere i mercati del centro Europa, ma dalla crisi secentesca la vera novità emerge dal rafforzamento delle rotte tirreniche e di quelle atlantiche, divenute nella seconda metà del secolo interamente monopolizzate dalle Compagnie delle Indie.

Con le Compagnie delle Indie il porto di Gallipoli si apre con più nettezza al mercato internazionale, esercitando un ruolo unico, quello di legare in maniera indissolubile il Salento all’Europa, riscattando la marginalità geografica di un intero territorio senza tuttavia emanciparlo dalla crescente e totalizzante colonizzazione estera della sua più importante produzione agraria. Le salme di olio lampante esportate in Europa non hanno rilevanti ricadute economiche sulla popolazione locale, ma tornano vantaggiose solo per le anonime famiglie che si celano dietro le diverse sigle anglo-olandesi che compongono il variegato mondo mercantile espresso dai detentori dei navigli oceanici. Gallipoli resta permanentemente priva di un ceto imprenditoriale autoctono e non dotato di imbarcazioni adatte per solcare mari impetuosi che portano al Baltico e agli angoli estremi del globo terrestre. Nel lungo periodo per conto di altri è solo un luogo di raccolta, di lavorazione e di smistamento del maggiore prodotto d’esportazione del Salento, che pur rendendo vivace le vicende comunitarie dell’agglomerato urbano, non porta alcun benessere sociale ed economico duraturo, svelando un livello cronico di arretratezza che apparirà nelle sue reali dimensioni nei secoli successivi, quando l’olio lampante uscirà definitivamente dal mercato in seguito ai processi legati alla rivoluzione industriale.   

Bibliografia essenziale

R. Durante, Gallipoli: centro culturale e artistico del Salento Bizantino, in P. Pascali- D. Capone, Nei luoghi della Sirena. Dal mare di Gallipoli alle Serre Salentine, Castiglione di Lecce, Giorgiani editore, 2022, pp. 441-54.

A. Jacob, La cultura bizantina e post-bizantina nel Salento meridionale, in Aa.Vv., Percorsi Bizantini nel Salento, Maglie 2008.

Idem, Gallipoli bizantina, in Paesi e figure del vecchio Salento, a cura di Aldo de Bernart, vol. III, Galatina, Congedo, 1989, pp. 281-312.

R. Durante (a cura di), EULOGIA, Sulle orme di André Jacob, Lecce, Edizioni Grifo, 2021.

H. Houben (a cura di) Otranto nel Medioevo tra Bisanzio e l’Occidente, Galatina, Congedo, 2007.

Vera Von Falkenhausen, Tra Occidente e Oriente. Otranto in epoca bizantina, ivi, pp. 13-60.

M. Spedicato, From crossroads to periphery of the Mediterranean Sea. Il Salento between Middle Ages and present dau Times, in R. Durante cit., pp. 611-36.

Idem, Gallipoli e l’oro salentino. Un porto strategico per l’economia-mondo (secc. XV-XVIII), in P. Pascali- D. Capone, cit.

P. Chorley, Oil sik and Enlightenment. Economic problems in XVIII century Naples, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici, 1965.       

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