Alla vigilia del 36° tragico anniversario del 9 maggio 1978, credo sia giusto riproporre il pezzo del << Popolo del Salento>>, col corredo di una foto di Aldo Moro, testimone alle Nozze di Donato e Maria Marinari. Il lettore potrà confrontare questa avveduta lucida analisi di filologia politica di Donato Moro sulla politica lungimirante del paziente tessitore, e il sacrificio assurdo di quest’ultimo, alla luce della recente ricostruzione documentaria di Miguel Gotorin in “ Il Memoriale della Repubblica” e le ultime rivelazioni della stampa sul cinismo di regime dissepolto dagli archivi (Vittorio Zacchino).
Ricordo di Aldo Moro
di Donato Moro
Non intendo, né del resto sarei in grado di farlo, ripercorrere la biografia di Aldo, costellata di tanti successi scientifici e politici, ma anche di tante amarezze e di tanti dolori, il più grande, il più inimmaginabile dei quali è stato il lungo calvario che ha chiuso tragicamente la sua esistenza il 9 maggio del 1978.
Non sono uno studioso del diritto né un uomo politico; sono solo un parente che da quel 9 maggio si porta dentro la pena, resa più lieve soltanto dal culto per le sue virtù, umane,cristiane e civili, sempre più alte ed esemplari in questo “Paese scombinato”, così come egli stesso lo definì in una lettera dalla prigionia, indirizzata alla moglie.
Comprendo la pesantezza di questo giudizio sull’Italia, che oggi noi potremmo anche spiegarci , a posteriori e razionalmente, nel segno della speranza e della fiducia:si tratta dello scombinamento di un Paese, approdato alla democrazia nel 1945, con tanti problemi, urgenze, rivendicazioni, aspirazioni velleitarie, che Aldo invano cercò di interpretare riducendole ad un unum armonico, e restandone purtroppo vittima incolpevole, e che ancora oggi ci assillano per la loro contraddittorietà e tumultuosità, senza tuttavia indurci alla rassegnazione o alla disperazione.
Conobbi Aldo Moro nei primi mesi del 1942 ad un convegno della Fuci a Bari:era ancora studente di terzo liceo, un prefucino, come allora si diceva.
Da quando avevo intrapreso gli studi secondari , mio padre, sia per orgoglio di famiglia, sia per incitarmi all’impegno, mi aveva sempre parlato di certi suoi cugini illustri che vivevano lontani. Mi narrava di aver appreso in casa sua, da piccolo, che un suo zio, Salvatore Moro, studente di medicina, per ragioni di cuore, s’era allontanato da casa sposandosi e trasferendosi ad Ugento; che per le medesime ragioni aveva cambiato programma di studi, prendendo la licenza della scuola normale di allora, vale a dire la licenza di maestro elementare, e aveva insegnato anche a Specchia. Mi aggiungeva che Salvatore aveva avuto diversi figlioli e che due di questi, Alfredo Carlo e Renato, quest’ultimo ispettore scolastico, in passato erano venuti qualche volta a Galatina, avendo qui degli amici.
Una ventina d’anni fa, compiendo io delle ricerche presso l?Archivio Parrocchiale di Galatina, dove si conservano registri di battesimi, matrimoni e defunti dai primi del ‘600, approfittai dell’occasione per tentare un albero genealogico della mia famiglia, e risalii ad un Furio Camillo Moro dei primi del ‘600. Scendendo all’800 trovai che, il 20 febbraio 1846, da Cosimo Moro e Giuseppa De Paolis era nato Salvatore Moro, terzo di sette figli, tre femmine e quattro maschi, e che era stato battezzato due giorni dopo, il 22 febbraio. Si trattava del nonno di Aldo; mio nonno Pietro Donato era nato tre anni prima.
Salvatore ebbe cinque figli, tra cui il padre di Aldo, Renato, che nacque ad Ugento nel 1876.
Renato sposò Fida Stinchi. Nel periodo in cui egli fu ispettore scolastico della circoscrizione di Maglie gli nacquero ivi i primi tre di cinque figlioli, e il secondo dei nati a Maglie fu Aldo.
Può darsi che per queste informazioni io possa essere sospettato di una certa vanità, e potrebbe anche esserci questa componente, ma si creda pure che, se mi ci sono soffermato, è soprattutto per4 chiarire certe tradizioni orali ,sulle quali gioca scherzi la memoria.
Sempre mentre studiavo a Galatina, presso il Ginnasio-Liceo “P.Colonna”, mio padre da altri parenti venne a sapaere che Renato era ormai ispettore centrale presso il Ministero della Pubblica Istruzione (allora Educazione Nazionale),che risiedeva a Roma e che, tra i figlioli ne aveva uno valorosissimo, già docente Universitario a Bari. Costui era Aldo.
Perciò nel ’42 approfittai del convegno fucino a Bari ,anche per conoscere di persona questo valentissimo figlio di Renato, il quale, allora, era pure presidente nazionale della Fuci.
Devo dire che quel primo incontro, poi mai più dimenticato, mi impressionò moltissimo, lasciandomi anche, se così si può dire, un po’ sconcertato.
Aldo tenne, sui valori religiosi e morali propri degli aderenti alla Fuci, un discorso introduttivo ricco di dottrine, sottile nell’articolazione, pausato, sofferto; utilizzando San Tommaso o Kant, criticando posizioni positivistiche o idealistiche, cercava le parole ad una ad una, soppesandole, scavando dentro di esse. Confesso che non compresi alcuni tratti più profondi del suo dire.
Quando, alla fine della giornata, mi presentai a lui, mi abbracciò con pacatezza, mi chiese sottovoce notizie di altri parenti galatinesi, di cui pure lui aveva vaghi dati, mi esortò con il tono di un saggio ad impegnarmi nello studio e nella pratica delle virtù cristiane e civili.
Ci dividevano poco più di otto anni di età, ma mi sembrò di trovarmi di fronte ad un uomo di dannosissima esperienza.
Quando tornai a Galatina riferii tutto a mio padre, di quella giornata, e conclusi esclamando: “Ma, papà, quello mi sembra già vecchio!”.
Credo che in quel ventiseienne, così come mi apparve quel giorno, si possa ritrovare l’Aldo Moro futuro, il problematico maestro di diritto e il problematico uomo di diritto, a voltr non inteso e non compreso, e pertanto fatto oggetto di giuste accuse di fumosità, o, addirittura, di ambiguità.
Dell’uomo politico ci sarebbero da recitare discorsi e interventi fondamentali negli anni della sua militanza, ma io vorrei qui ricordare quel documento che è l’epifania di Aldo Moro in campo parlamentare e un contributo altissimo alla fondazione della Costituzione italiana, vale a dire la sua relazione all’apposita sottocommissione dell’Assemblea Costituente su I principi dei rapporti sociali (culturali), che tanto dovevano influire sull’assetto costituzionale definitivo in materia di istruzione ed educazione, di libertà civili e della funzione sociale, e dei rapporti tra di esse intercorrenti.
Quella relazione persuase molti e suscitò l’ammirazione di altri fra i componenti della Costituente.
Nei primi mesi del ’47, nella Scuola Normale Superiore di Pisa, un mio maestro, lo storico Delio Cantimori, mi diceva una sera che Palmiro Togliatti gli aveva confidato la sua ammirazione per quel democristiano appena trentenne, uno dei più prestigiosi rappresentanti della D.C., per profondità di dottrina e per equilibrio politico, in seno all’Assemblea Costituente. Togliatti pronosticava che avrebbe avuto un brillante avvenire, rammaricandosi con Cantimori che Aldo non fosse del suo partito.
E così fu per buona sorte dell’Italia, ma per sventura sua e della sua famiglia.
Le tappe del suo cammino politico e di uomo del governo sono note, (a cominciare dal primo dei suoi gabinetti del dicembre 1964 dopo il Congresso di Napoli, con il quale la Democrazia Cristiana sceglieva la politica governativa di centrosinistra, della quale Aldo Moro, pur con la cautela e problematicità estrema che lo contraddistinguevano (e che lo differenziavano ad es. da Amintore Fanfani), era sostenitore.
E qui esprimo una mia opinione, nata da mezze parole scambiate oralmente e per iscritto con Aldo (…) nonché dalla interpretazione mia personale dei suoi discorsi tenuti alla DC quale componente della Segreteria o quale Segretario di essa,e di quelli tenuti da parlamentare o di uomo di governo.
Io credo, dunque, che egli fosse sostenitore del centrosinistra e poi, da Presidente del partito, nell’ultimo tempo della sua vita terrena, del compromesso storico, ma sempre senza illusioni.
Questo suo tendere in avanti, penso che in lui nascesse sa una visione profondamente cristiana, ma anche profondamente politica. Di fronte a certi arroccamenti di amici di partito egli capiva che, in una società civile in rapido sviluppo e con fermenti vari e, a volte, contrastanti fra loro, la stasi era la morte ed era anche il rifiuto a interpretare il nuovo, per tentare di trasferirlo in ciò che poteva avere di positivo, nell’area di una moderna democrazia impregnata pur sempre di valori cristiani, e culturalmente legata alla civiltà dell’Occidente. Una via, questa, indubbiamente rischiosa; ma da lui perseguita senza facili entusiasmi, un maniera guardinga, sempre bilanciando i pro e i contro, senza mai essere sicuro di sé stesso e di aver già trovato il meglio.
Di questo suo modo di affrontare il reale sono spie inconfutabili il suo costume di vita,i suoi comportamenti, le forme dell’agire: la modestia dei suoi atteggiamenti non disgiunta da una certa ostinazione nel perseguire un determinato fine; la tolleranza (anche nei momenti più burrascosi della vita politica e di partito, se pur qualcuno lo stuzzicava facendo nomi di oppositori, egli non denigrava, ma, semmai sospirando, notava che occorreva aver pazienza, attendendo maturazioni interiori); la coerenza (ogni suo avanzamento propositivo, se si esaminano attentamente i suoi discorsi politici, è sempre una proiezione che si sviluppa da una matrice, religiosa e ideologica, che non muta ma cresce su se stessa allargandosi); la personale rettitudine e l’onestà delle sue posizioni; l’ansia per il futuro della democrazia in Italia (quante volte lo sentimmo indicare come una frattura lo scontro frontale in campo politico! Quante volte lo sentimmo auspicare l’allargamento dell’area democratica, coinvolgendo sempre più i ceti popolari nella gestione dello Stato);i suoi silenzi (il silenzio di Aldo Moro era un metodo: di fronte ai nodi politici egli aveva bisogno di ritirarsi a meditare, a riflettere, a verificare il nuovo sulla base del proprio credo, per stabilire di come e di quanto ci si poteva spingere innanzi.
Non potevamo, certo, essere in molti a capirlo, dato che sarebbe occorso avere virtù d’ingegno e sensi morali e religiosi che riuscissero a partecipare del suo travaglio e tormento e delle sue altissime idealità.
Di qui quei suoi discorsi politici che, muovendo dai valori della DC, partito cristiano, popolare e antifascista (quanto ormai desueti questi aggettivi ) si allargavano a rassegnare e a vagliare tutti i problemi e tutte le istanze della politica nazionale o internazionale, in una dialettica che nulla trascurava, e che, nel momento dell’interpretazione dei fenomeni, se ne appropriava, in una complessa logica che non era più dell’uomo di parte, ma del grande statista. Perché Moro era un grande statista, e un grande statista è stato strappato all’Italia.
Da questa sua condizione di continua ricerca e di tormentosa ricerca del reale sono nati quei discorsi onnicomprensivi articolati sul filo del rasoio, così poco comprensivi, ovviamente, per i mediocri e per gli stolti. Da questa condizione sono nati quel linguaggio e quello stile suoi propri, carichi di cultura e di una profonda tensione morale.
Di qui, ovviamente, le accuse e i sospetti dei partigiani, incapaci di guardare oltre un palmo dal loro naso; le trepidazioni di tanti per le “operazioni Moro”. E quando altro non si poteva fare o dire, c’era sempre la possibilità di malignare sul funambolismo dei discorsi di Moro o su certe sue presunte titubanze o irresolutezze.
Dirò di più: conoscendo l’uomo e la sua visione d’amore cristiano e di impegno politico e civile, credo (è una mia personale convinzione) che egli nutrisse in segreto una grande aspirazione, quella di poter recuperare alla gestione dello Stato, nel pieno rispetto delle nostre istituzioni democratiche di tipo occidentale, quelle forze politiche che il ’47 erano state estromesse dal governo della nazione. Era riuscito con il PSI (ed in questo lo aveva compreso e favorito Pietro Nenni);credo che sperasse di poter ottenere un analogo risultato con il PCI. Ma sia ben chiaro :se ciò veramente nutriva in cuore (è solo una mia intuizione), Aldo Moro non era certo disponibile per un’operazione che costringesse a rinunziare ai capisaldi religiosi,morali e civili, propri della nostra democrazia. Si trattava, semmai, di fare accettare questa con le sue connotazioni fondamentali a quelle forze di sinistra che pure miravano ad una sempre maggiore partecipazione del popolo alla vita dello Stato. E sul piano del coinvolgimento popolare poteva pure trovarsi un raccordo con la DC, partito di popolo, partito disponibile a riconoscere sempre meglio i diritti degli uni e dei lavoratori, ed ad assicurare una sempre più larga giustizia sociale.
Circa la fermezza di Aldo Moro nei suoi principi e nelle scelte di campo della nostra democrazia, mi basta qui ricordare la posizione da lui assunta quale Presidente del Consiglio durante la disgraziata guerra del Vietnam, di questo Paese per il quale tanti progressisti si indignarono contro gli U.S.A., progressiste che oggi dormono beati di fronte all’invasione e alla ferocia vietnamita in Cambogia.
Quando, allora, molti si davano da fare a spostare il favore popolare verso il Vietnam rosso, Aldo Moro, pur denunciando la tragicità di quella guerra e riconoscendo l’urgenza che ad essa si ponesse termine, mantenne sempre fermo il principio della solidarietà internazionale, condividendo le ragioni di forza maggiore per le quali gli U.S.A. avevano mandato laggiù le proprie truppe.
Queste e tante altre dimostrazioni di fedeltà ai valori politici dell’Europa occidentale e ai patti statuiti in campo internazionale non credo, tuttavia, che fossero prove sufficienti per chi trepidava nell’anno di grazia 1978.
Ma questa stessa fermezza ideologica e politica di Aldo Moro agli in inizi di quell’anno misero in allarme chi già si era dissociato dal PCI, perché lo vedeva “imborghesito” e non disposto a sventolare la bandiera del rivoluzionarismo permanente (e anche qui quante responsabilità del PCI che per anni non aveva voluto riconoscere l’esistenza di un terrorismo di sinistra).
In questa situazione politica maturò quell’avvenimento assurdo e sciagurato del rapimento di Aldo Moro, della strage della sua scorta e dell’uccisione dello statista dopo cinquantacinque giorni, che furono il tremendo calvario di quest’uomo, proteso alla vita – ed è un tratto umanissimo che ancor di più lo innalza agli occhi dei giusti- per la sua famiglia, per la moglie ed i figlioli abbisognevoli della sua assistenza, per “l’amatissimo nipotino”, per il desiderio struggente di poter abbracciare , come egli scrisse, l’altro che non vedrò” .
Se la famiglia vide divelto dalla bufera il tronco amoroso su cui poggiava, l’Italia perse un padre della patria, un uomo di governo di notevoli capacità intellettive e morali, tutto inteso a darle ogni giorno di più stabilità, nel campo delle istituzioni interne e della vita democratica, ed ogni giorno di più autorevolezza, in campo internazionale.
Agli inizi del ’78, infatti, Aldo Moro godeva presso tutti i partiti dell’arco costituzionale di un tale prestigio e di una tale stima, che egli era già in predicato il nuovo Presidente della Repubblica.
Ebbe tale riconoscimento postumo dalle generose parole che il Presidente Pertini pronunziò all’atto del suo insediamento, quando, commosso, ricordò alle Camere e al popolo italiano che altri, più meritoriamente di lui, avrebbe potuto ricoprire quella suprema carica.
Oggi, a distanza di sette anni, l’Italia si domanda ancora le ragioni profonde per le quali Aldo Moro venne brutalmente eliminato dalla scena politica>>.
Dal secondo processo Moro testè conclusosi sono venute fuori delle motivazioni così banali, che si resta sconcertati e avviliti. Un terrorismo allora indigeno, come sembrerebbe, avrebbe deciso di rapire lo statista, riconoscendo in lui il più autorevole e prestigioso rappresentante della DC, colui che con il compromesso storico minacciava di far scomparire per sempre i sogni rivoluzionari di poche centinaia di estremisti di sinistra.
Peccato che non capirono l’importanza di salvare Moro gli uomini di partito dell’arco costituzionale.
Indubbiamente, se riandiamo con la memoria a quel 16 marzo del 1978 e alle giornate convulse e confuse che lo seguirono fino a quell’altra tragica data del 9 maggio, non possiamo non rievocare la confusione, le contraddizioni o le impotenze degli uomini di governo e di partito, la debolezza e fragilità degli apparati di sicurezza dello Stato, gli intrighi non ancora chiariti, ma da molti intuiti, di certi personaggi politici in rapporti con equivoche figure di extraparlamentari. Ma forse la fine di Moro doveva servire per una lampante verifica di una democrazia ancora claudicante ,di uno Stato percorso sotterraneamente da ambiguità di uomini e di ideologie. Forse, nei disegni di Dio, era scritto che quest’uomo meraviglioso avesse una fine assurda ed oscura, perché ci restasse un rovello e un rimorso collettivo. Ci sono state, sì, anime nobili che hanno sofferto e soffrono tuttora per quella dolorosa ed insieme vergognosa pagina della storia italiana recente. Ma quella tragedia non riguarda questo o quello né si riscatta in un gesto generoso del tale o del tal’altro, gesto pur vivo e grato nella memoria.
Quando, nell’ormai lontano ’78, dopo l’uccisione di Aldo Moro, accanto alle reazioni di popolo, si ebbero quelle più meditate e a volte interessate, allora ebbi urgenza di scrivere:”…invece di eroi e di retorica con cui riempirci la bocca, noi abbiamo bisogno di opere (ed egli ne ha lasciate di egregie) e di operare noi stessi con maggiore onestà e rettitudine, tutti quanti, chi governa e chi non governa, perché, se la sua morte è frutto di errori (anche suoi se vogliamo), è ben certo che egli ha pagato per tutti e che nessuno in Italia, a qualunque gruppo appartenga, può liberarsi facilmente la coscienza da quella morte”.
[L’articolo di Donato Moro, unitamente alla premessa di Vittorio Zacchino, recuperato dall’archivio del mio computer, mi fu consegnato da Vittorio presumibilmente il 28 giugno 2014, data registrata dal download (G.V.)]
Buongiorno. Sono Cuccarollo Raffaele, ho 75 anni, abito a Tezze sul Brenta vicino a Bassano del Grappa e sono pronipote di mons Cornelio Sebastiano Cuccarollo cappuccino vescovo di Bovino e arcivescovo di Otranto dal 1930-1952. Chiedo gentilmente di poter contattare un famigliare del signor Donato Moro che, da come ho appreso, ha avuto importanti rapporti con mons Cuccarollo.
Grazie molte della cortese attenzione e siano graditi i miei più distinti saluti.