Indubbiamente Giannone nell’individuare il curatore di “Pricò” non poteva fare una scelta migliore: Luigi Scorrano, il Giacomino Leopardi da Tuglie, come ebbe a definirlo Augusto Benemeglio, conosce benissimo Viola, avendogli dedicato nel 1996 uno studio completo e illuminante, edito da Mucchi di Modena, dal titolo Il polso del presente, con sottotitolo Poesia, narrativa e teatro di Cesare Giulio Viola, un libro imprescindibile per chi voglia conoscere questo scrittore della prima metà del XX secolo.
Cesare Giulio Viola nacque a Taranto da padre galatinese nel 1886 (morirà a Positano nel 1958), sicché, quando pubblicò il suo primo romanzo a puntate sulla “Nuova Antologia”, nel 1923, aveva trentasette anni; l’anno de La coscienza di Zeno di Svevo e di Poesia e non poesia di Croce, ci ricorda Scorrano nella sua Introduzione, utilissima, come pure la Nota biobibliografica, per contestualizzare l’opera e leggerla tenendo conto del tempo in cui fu scritta. Ai suoi tempi Viola fu autore di molto successo, soprattutto in campo teatrale. “Pricò”, in particolare, dopo l’edizione Mondadori in volume del 1924, ebbe l’edizione Treves del 1929 (quella da me trovata nel mercatino domenicale galatinese); ed infine, ebbe l’onore, nel 1943, d’una versione cinematografica per la regia di Vittorio De Sica, dal titolo I bambini ci guardano.
“Pricò” racconta la storia tragica di una normale famiglia borghese, lacerata dal disamore, attraverso lo sguardo di un bambino, indotto alla precocità del sentire (Pricò sta infatti per precoce, nomignolo affibbiato al bambino) da un mondo di adulti che, in Italia, nel primo quarto del Novecento, si affacciava alla modernità portandosi dietro mille contraddizioni. Un padre buon uomo tutto casa e ufficio, il marito, una madre donna infedele, la moglie, l’amante, un figlio che sta a guardare e soffre. Il dramma è tutto qui, nella sua semplicità, direi anche, per chi segua le cronache odierne, nella sua attualità. Il romanzo di Viola si chiude con il suicidio del marito e la straziante richiesta di perdono della madre al figlio. Un romanzo dalla materia torbida, che Viola riesca ad alleggerire e a rendere perfettamente leggibile (anche oggi, a distanza di quasi novant’anni dalla sua prima stesura) con un gioco di allusioni che certo non attenua la gravità dei fatti raccontati, e tuttavia li soffonde entro un’aura di stanca rassegnazione.
Segnalo il capitolo XVI, quello conclusivo, nel quale, essendo il ragazzo destinato in collegio dal padre che medita il suicidio, Viola racconta nei dettagli qual era a quei tempi il corredo di un convittore e i preparativi che si facevano prima del trasferimento in collegio: “Per andare in collegio si comprano tante cose! Si va di negozio in negozio, col babbo, e si torna a casa carichi d’involti; e si legano; e si depongono sul divano del salotto, le mutande impaccate, le camicie, le maglie, i colletti… Per andare in collegio ci si reca col babbo da un sarto, in una grande bottega… (p. 150).
Si respira un’aria d’altri tempi, quale doveva respirarsi in non poche famiglie borghesi che tra otto e novecento confinavano i loro rampolli nei vari convitti Palmieri, Capece, Colonna, ecc., sparsi in tutta la provincia italiana, fino almeno alle soglie dell’immediato secondo dopoguerra. Viola non nomina mai i luoghi, ma ha il potere di evocarli e di renderli presenti. Così il dramma della famiglia borghese trova la sua conclusione proprio nel luogo deputato all’educazione, il collegio, che avrebbe dovuto tenere il ragazzo al riparo dalle insidie del mondo. Questo finale suggerisce a noi lettori del XXI secolo quali sofferenze nascondesse la giovane élite studiosa dei convittori – che ordinatamente sfilava per le vie cittadine durante la passeggiata quotidiana – allo sguardo ammirato e invidioso dei tanti ragazzi di strada che ne rimanevano esclusi: una società in lento sfacelo, sulla quale presto si sarebbero abbattute le nuove tempeste del secolo.
[2012]