di Ferdinando Boero
Il 30 giugno 1960 Genova, città medaglia d’oro per la Resistenza, insorse contro il programmato congresso del Movimento Sociale Italiano, il partito neofascista della fiamma tricolore, tornato alla ribalta con un governo capitanato da Ferdinando Tambroni, sostenuto da DC, monarchici e MSI. Il fascismo rialzava la testa. Il fuoco della rivolta fu acceso da un discorso di “brichettu” (fiammifero, in genovese). Avevo dieci anni, ma lì c’erano mio nonno, mio padre e mio zio, portuali del porto di Genova. Con le magliette a righe, e il gancio. La Celere di Scelba li attaccò, ma non riuscì a fermarli e il congresso non si tenne. Ecco, condensato, il discorso di brichettu:
“Gente del popolo, partigiani e lavoratori, genovesi di tutte le classi sociali. Le autorità romane sono particolarmente interessate e impegnate a trovare coloro che esse ritengono i sobillatori, gli iniziatori, i capi di queste manifestazioni di antifascismo. Ma non fa bisogno che quelle autorità si affannino molto: eccoli qui, sono i fucilati del Turchino, della Benedicta, dell’Olivetta e di Cravasco, sono i torturati della casa dello Studente che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori. Nella loro memoria la folla genovese è scesa nuovamente in piazza per ripetere “no” al fascismo, per democraticamente respingere, come ne ha diritto, la provocazione e l’offesa.
Io nego la validità della obiezione secondo la quale il neofascismo avrebbe diritto di svolgere a Genova il suo congresso. Infatti, ogni atto di quel movimento è una chiara esaltazione del fascismo e poiché il fascismo, in ogni sua forma, è considerato reato dalla Carta costituzionale, l’attività dei missini si traduce in una continua e perseguibile apologia di reato, per contrapporre bestemmie ai valori politici e morali affermati dalla Resistenza.