Parole, parole, parole 25. La disonestà linguistica

Il cibo e gli atteggiamenti collettivi di fronte al cibo cambiano storica­mente da cultura a cultura e da momento a momento. A seconda dei contesti possono manifestarsi (e talvolta arrivano a convivere) posizioni estreme e mol­to divaricate, che vanno dall’apprezzamento insistito dei cibi ritenuti caso per caso più pregiati e squisiti (con connotazioni di classe evidenti o dissimulate) fino alle scelte ideologiche di tipo opposto, operate da coloro che considerano di primaria importanza mangiare e bere con moderazione e con distacco, ri­ducendo il bisogno del cibo all’essenziale. Mai come negli ultimi anni le nostre case sono inondate, attraverso gli schermi televisivi e altri media, di immagini che sfoggiano in continuazione tavole imbandite, piatti e prodotti tipici di ogni regione d’Italia, e anche cuochi strapagati che discettano su tutto. Si profilano per tali vie nessi e rapporti stretti tra cibo e lingua (o, per meglio dire, tra cibo, lingua, economia e visione del mon­do). Se ne può concludere che, a buona ragione, la gastronomia può essere con­siderata un fattore fortemente indicativo dell’identità e che esiste un legame profondo tra gastronomia, storia linguistica e storia tout court.

Il cibo è ambito privilegiato per la diffusione all’estero della nostra lingua. Parole italiane della cucina e dell’alimentazione si diffondono in tutto il mondo e propagandano il nostro stile di vita e la nostra eccellente capacità produttiva. All’estero i nostri prodotti alimentari sono apprezzatissimi. Trasmettono le nostre abitudini e anche le nostre parole: pizza, pasta, spaghetti, maccheroni, espresso, barolo, tiramisù e tante altre; lingua e vita insieme, come sempre. Pur se l’italiano è lingua internazionale del cibo, anglicismi non mancano neanche in questo settore. Non sempre il fenomeno è dovuto all’esterofilia pervasiva di cui scrivevo all’inizio, a volte le situazioni sono complesse e il ricorso all’anglicismo può arrivare a mascherare pratiche commerciali poco corrette. Non saprei dire quanti italiani conoscano il significato dell’espressione Italian sounding: essa definisce il fenomeno che consiste nell’utilizzo (su etichette e confezioni) di denominazioni, riferimenti geografici, immagini, combinazioni cromatiche e marchi che evocano l’Italia e in particolare, alcuni dei suoi più famosi prodotti tipici (dal parmigiano alla mozzarella), per promuovere la commercializzazione di prodotti  agroalimentari falsificati, inducendo ingannevolmente a credere che siano autentici italiani, quando in realtà di italiano hanno poco o nulla.

Spesso nelle parti descrittive di questi prodotti si notano aggettivi con connotazioni geografiche che rimandano a noti luoghi italiani, accompagnate da espressioni quali “genere”, “del tipo”, “stile”, “imitazione di”, “secondo la tradizione”, “secondo la ricetta tipica” e simili; o da immagini come gondole, monumenti storici notissimi (come il Colosseo, ecc.). Tutto questo ha enormi riflessi economici. Imprenditori e politici dichiarano spesso di voler promuovere la cosiddetta «cultura enogastronomica» italiana; ma non sempre si comportano di conseguenza. Concorrenti stranieri fanno veri e propri falsi commerciali e linguistici che nulla hanno che vedere con i prodotti originali: formaggi come il «parmesan» o il «reggianito», il caffè «Bellarom» o «Caffeciao», la pasta «Don Camillo», la mozzarella «Casale», i sughi «Baresa» campeggiano sugli scaffali di alcuni supermercati, perfino in Italia; o ancora «mozarella» spacciata per mozzarella di bufala, «Salsa Pomarola» venduta in Argentina, «Zottarella» prodotta in Germania, «Spagheroni» olandesi. Nomi fintamente italiani, inventati per l’occasione, mascherano la frode economica. Una forma di falso «made in Italy» diffuso nel settore agroalimentare, che sfrutta la reputazione e l’attrazione che la buona tavola e il turismo italiani hanno nel mondo per commercializzare prodotti che poco hanno a che fare con l’autenticità e la qualità del nostro cibo, mettendo in crisi l’economia nazionale e le esportazioni, dall’olio d’oliva ai formaggi, dai salumi ai vini. Anche falsificando la lingua si distrugge un fortissimo elemento di specificità e di distinzione territoriale e si mettono in atto vere e proprie frodi: le multinazionali trovano appetibile l’industria agroalimentare italiana e agiscono scorrettamente, ricorrendo a pratiche linguistiche disoneste.

Oltre alle leggi e ai controlli, la lingua offre i mezzi per reagire. Scimmiottando gli inglesi, spesso dimentichiamo l’italiano e per promuoverci all’estero parliamo genericamente di «food», «drink», «glamour», trascurando la specificità e la genuinità che ci contraddistinguono. È fondamentale invece adoperare l’italiano per far conoscere le eccellenze e le specialità che il mondo ci invidia, usando parole italiane facili e i corretti nomi dei nostri prodotti, molto apprezzati. Servono a farci riconoscere e faremo bene, insieme, alla nostra lingua e alla nostra economia.

                                                                     [“La Gazzetta del Mezzogiorno” del 28 giugno 2024]

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