di Rosario Coluccia
Negli ultimi decenni, in particolare dopo la seconda guerra mondiale, l’anglo-americano ha assunto una diffusione enorme a livello planetario, per ragioni socio-economiche e politiche a tutti evidenti. Anche in Italia è cresciuta l’attrattiva della lingua inglese e in particolare dell’American English. Centinaia di parole inglesi (o anglo-americane) sono diventate patrimonio usato dagli italiani nelle comunicazioni abituali e fanno parte della nostra lingua. Nulla di male, in linea di principio: la conoscenza delle lingue è fondamentale, il mondo è globale. Né l’adozione di parole straniere è male in linea di principio; al contrario, è una linfa per le lingue vive, che si arricchiscono reciprocamente con scambi continui, in primo luogo dando e ricevendo parole. Ma, tuttavia, questo non comporta che la nostra lingua quotidiana debba intridersi massicciamente di anglismi, quando esistono parole italiane funzionali e perfettamente in grado di rispondere ai bisogni comunicativi della società. L’anglicismo, quando è superfluo, appare un vezzo e una forma di rinunzia (a volte inconsapevole) alla propria tradizione e alla propria storia. I movimenti della lingua vanno attentamente osservati e, quando è il caso, avvedutamente orientati.