Tra gli studenti c’era molta partecipazione politica?
No, l’atteggiamento degli studenti era tipico, cioè molto disinteressato. Non c’era una grande partecipazione politica, ma una spinta di alcuni studenti che facevano da motore, da traino, cercando di coinvolgere gli altri. Tutto si riduceva allo sciopero, a cui gli studenti partecipavano per non entrare a scuola e fare vacanza.
I decreti delegati ancora non c’erano, giusto? Però era già in atto la discussione sui decreti delegati. Tu hai preso parte a quella discussione?
No, nello specifico no, c’erano iniziative sui fatti politici di allora, è una cosa difficile da ricordare, c’era un giornale che si faceva a scuola, non ricordo il titolo, ma su cui però ho scritto anch’io, insieme a Cosimo Montagna e Giovanni Tundo. C’erano le assemblee generali, l’elezioni dei rappresentanti di classe, io ero rappresentante della mia classe. C’erano diverse tendenze politiche all’interno degli studenti. Cosimo Montagna era un moderato ed è rimasto tale, c’era Bruno Colleoni, un tipo simile ad Andreotti, democristiano, Giovanni Tundo, di Cutrofiano, oggi cardiochirurgo, socialista, e poi c’ero io, il diavolo a Pontelungo, l’unico anarchico – come sono ancora oggi -, bandiera nera, ma con certi limiti.
Quali?
Per me è sempre venuta prima la cultura, il sapere, l’arte, e poi il resto. Ma questa è una questione mia, perché sono stato sempre capi caddhu, non mi faccio condizionare. A scuola andavo abbastanza bene. Alle elementari avevo dieci, ma in condotta avevo sei. Nella scuola superiore quello era lo schieramento politico. E’ chiaro che io non potevo andare troppo d’accordo con questi altri moderati. Andavo d’accordo più con Giovanni che con Bruno e Cosimo. Questo era “il vertice”. Negli scioperi c’ero sempre io, non ero un agitatore senza seguito e senza scopo, c’era sempre il maresciallo Noia che rompeva il c. a mio padre.
Una volta voleva incofinarmi di mazzate quello stronzo di **, che veniva dal Classico, ma io avevo come guardia del corpo uno che faceva il macellaio, Antonio Musardo, che gli fece nu cofanu de mazzate, ca nu spicciava chiui, che poi ho trovato a Galatina come capostazione, era un armadio, era compagno mio di scuola. Lui lavorava come macellaio e veniva anche a scuola.
Con quali compagni di scuola legavi di più?
C’era Michele Gregolini, di Soleto, uno che non studiava mai, che oggi è geologo, ma qualche spinta di sinistra ce l’aveva. Però io sono un purista, credo in quello che faccio, non faccio nulla per opportunismo. Non tanto avevo qualcuno con cui condividere, ma avevo un certo seguito, per esempio Antonella Cazzato mi aveva come punto di riferimento. Ero rispettato.
Quali insegnanti hai avuto al Liceo?
Ho avuto Cagnazzo, che era del PCI. Qui si verificò un tentativo di adescamento ad opera di Lucio Romano. Io non stavo nel PCI come non stavo con Apollonio Tundo, nel PSIUP. Poi c’era la professoressa di italiano, si chiamava Piglionica, che mi conosceva, mi stimava, mi metteva otto o nove nei temi. Ecco perché il diploma di maturità con trentasei fu un’ingiustizia. Io stavo dalla mia parte. Poi subentrò la professoressa Sabella che non fece nulla contro la commissaria esterna fascista, proveniente dal Palmieri, il covo dei fascisti leccesi, che non poteva capire le mie idee marxiste, comuniste.
Si racconta che all’esame orale di maturità vennero ad assisterti alcuni compagni con le bandiere. E vero?
No, non ricordo. Quando si parla del passato il pericolo è sempre quello di sminuire o di enfatizzare. Io non confermo.
Ricordi qualche altro insegnante più aperto verso i giovani?
C’era la professoressa Simonetti, di filosofia, che mi permetteva di interrogare i miei compagni. Si fidava di me.
Spostiamoci fuori dalla scuola. Quale gruppo frequentavi?
Noi eravamo un gruppo di amici, non un gruppo nel senso gregario, nel quale molti hanno cercato di infiltrarsi, ed era formato da persone fuori dagli schemi: Corrado De Donno, Tonino Baldari, Gigi Colaci, Roberto Cazzato, Antonio Congedo, poi mio fratello Marcello. Questo era il gruppo, ma io, che ero più grande di alcuni di loro, avevo contatti con altri, per esempio con Andrea Ascalone, Antonio Serafini, loro stavano nel PCI, ma erano dissidenti, non erano agli ordini di Lucio Romano. Mi vedevo spesso con Vittorio De Simone, che ha fatto giornali in dialetto galatinese, molto magro ma molto colto. Tutte persone più grandi di me.
Dove vi trovavate?
All’aperto, in villa, sui sedili, giravamo intorno alla villa, oppure andavamo a piedi in campagna, verso il Villaggio Azzurro, ma eravamo discriminati perché portavamo i jeans, i capelli e la barba lunghi e le scarpe da ginnastica. Nel modo di vestire si riprendeva il movimento hippy americano. Noi conoscevamo benissimo la letteratura americana, Kerouac, Ginsberg, Ferlinghetti, la Beat generation. Non siamo vissuti alla loro epoca, ma li leggevamo. Discorsi superficiali non ce n’erano, a quindici, sedici anni discutevamo questioni che oggi non si discutono neanche a trenta. C’era chi aveva letto Hegel, i mistici orientali. Infatti, c’è chi ha preso la via della religione, Corrado De Donno è andato a sbattere in una setta, i Bambini di Gesù, poi è sparito dalla circolazione. Alcuni hanno preso un orientamento metafisico, altri sono rimasti di orientamento fisico, come me, che sono cartesiano, la ragione e il pensiero al centro di tutto.
Che cosa organizzavate o facevate, manifestazioni, giornali o che altro?
No, il nostro era un rapporto di conoscenza e di amicizia, con orientamenti culturali, praticavamo l’amicizia, parlavamo, si discuteva, era una forma di crescita intellettuale all’interno di un gruppo, senza un impegno verso l’esterno. L’esterno, poi, era quello di adesso, un deserto in cui non si faceva mai nulla.
Oltre il gruppo dei dissidenti del PCI, con chi avevi rapporti?
Con il PSIUP di Apolllonio Tundo, coi suoi compagni: Luigi Mangia, Antonio Campanella, Donato Lezzi, con i quali lo scambio era a livello di situazione, ma spesso c’erano contrasti. E poi c’era il gruppo delle femministe: Antonella Cazzato, Luigia Campa e qualcun’altra. Il mio era l’unico gruppo fuori da ogni schieramento. In quel periodo abbiamo fatto una rivista, Azione libertaria, pochi numeri, che credo non conservi più nessuno. Poi nel 1985 sono andato in Veneto a lavorare, a Padova. Nei traslochi – ho cambiato cinque case – ho perso quasi tutto. Mi è rimasto solo un poster di Che Guevara, un calendario che Luigi Colaci, un tipo che non scherza, uno tosto, tostissimo, mi ha portato da Cuba. Sono rimasto fuori da Galatina fino al 1995. Sono tornato dopo la morte di mio fratello Marcello, nel 1994. Marcello era due anni più piccolo di me, era del 1959.
Quando hai cominciato a dipingere?
A undici anni. A casa mia conservo un disegno a colori nel quale tento di copiare Annibale Carracci: c’è una impostazione prospettica che a quell’età mi sembra molto interessante.
Come hai cominciato a dipingere?
Ho cominciato quando, alle scuole medie, mi hanno detto che non sapevo dipingere, per rivalsa. Poi, siccome ci sono stati i primi risultati, ho continuato.
Quale rapporto hai avuto col mondo della droga?
Nessun rapporto diretto. La circolazione di idee più o meno “libertarie” portava alcuni a giustificare l’uso delle droghe in termini politici. In realtà le cose non stanno proprio così, perché, come ha scritto Max Stirner nell’Unico, la bibbia dell’anarchismo, l’individuo deve essere padrone di sé. E la droga ti rende schiavo. Io non ho mai avuto alcun rapporto con queste persone – ed ero in forte dissidio anche con mio fratello -, ma neanche ho avuto un rapporto di discriminazione, però non ho giustificato mai simili comportamenti. In questo io sono dogmatico. L’uso di droghe va contro tutto quello che ho fatto e sono io, va contro l’uso della ragione, il pensiero, la cultura, che serve per stare al di sopra, non al di sotto. La droga è meccanismo di sistema, in questo modo elimina tutti gli oppositori, tutte le voci contrarie. Per lo stesso discorso da allora io non ho portato più i blu jeans, perché i jeans era diventati un elemento di omologazione, come diceva Pasolini, di cui conservo non solo gli Scritti corsari e le Poesie, ma anche il catalogo della sua opera pittorica.
Vuoi aggiungere qualcosa?
Non c’è bisogno di troppe appendici. Te l’ho detto: l’uomo è quello che ha fatto. Come diceva Leon Battista Alberti: virtù vince fortuna.
[Altre notizie su Giuseppe Romano, in questo sito: Ricordo di Pippi Romano.]