“E’ decisivo per l’immagine che l’uomo antico ha della felicità, il fatto che quella piccola modestia che vuole seppellire la felicità nella parte più interna e profonda dell’individuo, in modo che non possa essere raggiunta dalla riflessione (come un talismano contro la sventura), che per l’uomo antico questa modestia si trasformi nel suo contrario più terribile, nel delitto della superbia folle, nella ὕβρις. Per il greco, ὕβρις è il tentativo di esibire se stesso – l’individuo, l’uomo interiore – come soggetto e proprietario della sua felicità, ὕβρις è la credenza che la felicità sia una proprietà, anche e proprio quella della modestia, ὕβρις è la credenza che la felicità sia qualcosa di diverso da un dono degli dei che essi possono togliere in ogni momento, come in ogni momento possono infliggere al vincitore un’immensa sventura (si pensi al ritorno di Agamennone). Ora ciò significa che la forma in cui la felicità visita l’uomo antico è quella della vittoria. La sua felicità non è altro che questo – un dono decretato dagli dei, e gli è fatale, se crede che gli dei l’abbiano data a lui e proprio a lui. Perché in quest’ora suprema che fa dell’uomo un eroe egli si astenga dalla riflessione, perché in quest’ora si effondano su di lui tutte le grazie che conciliano il vincitore con la sua città, con i sacri boschetti degli dei, con l’εὐσέβεια degli antenati e infine con lo stesso potere degli dei, Pindaro cantò gli inni di vittoria. E così all’uomo antico, nella felicità, sono riservate entrambe le cose: la vittoria e la festa, il merito e l’innocenza. Ugualmente necessari e rigorosi. Poiché nessuno può vantarsi dei propri meriti, quando lotta nelle gare, anche il migliore può incontrare colui che gli dei hanno mandato contro di lui, e che, più forte, lo getta della polvere. Ed egli, il vincitore, ringrazierà a sua volta gli dei, tanto più in quanto gli concessero la vittoria sull’eroe più grande. Non c’è posto per l’ostinata celebrazione del merito, per l’avventurosa attesa della felicità, che permettono al borghese di campare. L’ἀγών – ed è questo un senso profondo di questa istituzione – dà a ciascuno la misura della felicità che gli dei gli destinano.”
Walter Benjamin, La felicità dell’uomo antico, in Opere complete I. Scritti 1906-1922, Einaudi, Torino 2008, pp. 266-267. Lo scritto è del 1916.