di Rosario Coluccia
«I doppioni li voglio, tutti, per mania di possesso e per cupidigia di ricchezze: e voglio anche i triploni, e i quadriploni, sebbene il Re Cattolico non li abbia ancora monetati: e tutti i sinonimi, usati nelle loro variegate accezioni e sfumature, d’uso corrente, o d’uso raro rarissimo. […] E in lingua nostra, che la parola si può stirare, contrarre e metastatare (palude, padule: femminile e maschile) secondo libidine. […] Dò palla bianca a una collazione e a un uso ragionevole di tutte le varianti ortoepiche: non voglio mollare né palude né padule».
Queste parole scriveva Carlo Emilio Gadda intervenendo in una discussione avviata dalla pubblicazione, nel 1941, del Vocabolario della lingua italiana, vol. I (A-C), stampato a cura della Reale Accademia d’Italia con il coinvolgimento di linguisti del calibro di Giulio Bertoni e Clemente Merlo (e altri meno illustri). Un tentativo (mai portato a termine perché il vol. I rimase l’unico pubblicato) del regime fascista di dotare la nazione di un vocabolario che fosse diretta emanazione del potere politico, implicitamente mirante a sostituire la gloriosa tradizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca, opera giudicata d’impianto puristico (pur se mitigato) e pertanto ritenuta inadatta ai tempi. Il Vocabolario dell’Accademia d’Italia fu subito recensito da Mario Meschini, direttore della rivista «La Ruota», che ne mise in luce i limiti, in un articolo intitolato Un dizionario nuovo e un metodo vecchio. Negli anni 1941-1942 «La Ruota» ospitò un dibattito di grande interesse, nel quale intervennero linguisti, letterati, scrittori, intellettuali di diversa estrazione e di ottima caratura, accomunati dall’esigenza di aprire una fase nuova di riflessione sulla lingua e sulla storia culturale italiana (gli interventi sono raccolti nel vol. Lingua letteraria e lingua dell’uso. Un dibattito tra critici, linguisti e scrittori («La Ruota» 1941-1942), a cura di Giuseppe Polimeni, Firenze, Accademia della Crusca, 2013).