di Gianluca Virgilio
Tra il 2002 e il 2013 Luciano Canfora scrisse per il “Corriere della Sera” una serie di articoli, nei quali gli venne lasciata ampia libertà di spaziare a tutto campo su temi di argomento politico, tra mondo antico e mondo moderno: che cosa sia la democrazia, l’oligarchia, la tirannide, qual sia il compito dell’intellettuale, quale valore conoscitivo abbia la storia antica nel tempo presente, un tempo nel quale gli avvenimenti si susseguono tumultuosi e rischiano di travolgerci o perlomeno di trovarci incapaci di attribuire loro un senso; tutte questioni, e altre ancora, affrontate con acume e grande erudizione nel volume Il presente come storia. Perché il passato ci chiarisce le idee, Rizzoli, Milano 2014.
Un convincimento profondo anima queste pagine, che l’intellettuale abbia un “compito primario … [un’] esigenza dominante, comprendere la storia addirittura nel suo farsi…”. (p. 148). L’ambizione è grande, e il libro si rivela subito all’altezza di questa ambizione. Lo studioso del mondo greco-latino ripropone qui l’idea relativa alla storia, propria dell’umanista, ovvero che essa sia magistra vitae, in grado pertanto di operare a vantaggio del tempo presente con un insegnamento riguardante l’esperienza del già accaduto, il quale non è detto che non debba ancora accadere. La democrazia antica non è poi così diversa dalla nostra se in essa agisce un ceto di oligarchi che si accaparra il consenso della maggioranza: “la cosiddetta democrazia delle città greche e ateniese in particolare, è comunque il regime politico in cui il governo è stabilmente nelle mani di un ceto non molto esteso numericamente, possidente, preparato, e capace di ottenere in un modo o nell’altro l’avallo necessario per governare” (p. 11); un consenso, quello della maggioranza, che non per questo risulta essere razionalmente giustificabile; il che vuol dire che nelle sue scelte non sempre la maggioranza ha ragione: “Anche se costituisce (o dovrebbe costituire) uno strumento del convivere civile, il principio di maggioranza (…) non ha alcun fondamento né logico né razionale” (p. 60), scrive l’autore, rimandando ad un saggio di Edoardo Ruffini, Il principio maggioritario.