Antonio Bux, Mappe senza una terra

di Adele Errico

Le mappe, alle volte, non devono portare da nessuna parte, possono essere utili anche solo a disegnare dei confini, a ritagliare uno stralcio di esistenza, a collocare un sentimento: alle volte possono anche essere Mappe senza una terra (RP libri 2023). È questo il titolo del libro di poesie di Antonio Bux. Antonio Bux, poeta, traduttore e editor, è foggiano di nascita e esordisce nel 2012 con “Trilogia dello zero” (2012). Seguono “Naturario” (2016), “Kevlar” (2016), “Sasso, carta e forbici”  (2018), “La diga ombra” (Nottetempo 2020) e “Gemello falso” (2022). Ha pubblicato in spagnolo “23 – fragmentos de alguien” (2014), “El hombre comido” (2015), “Saga familiar de un lobo estepario” (2018) e in dialetto foggiano “Lattessànghe” (2018) e “Ki uarde e nun uarde” (2022). In “Mappe senza una terra” la filigrana autobiografica – caratterizzante, come inevitabile presenza, tutta la sua produzione poetica – si articola in visioni di paesaggi e di luoghi significativi nell’esistenza del poeta. Le mappe disegnate in questi versi si fanno e si disfano tra visibile e invisibile, tra veglia e sonno, tra dimensione fisica e metafisica in un fumoso viaggio nel quale punto di partenza e punto di arrivo sembrano rincorrersi e sovrapporsi. Nelle poesie di Bux le assenze pesano quanto le presenze, si fanno grevi nel solitario gioco dell’introspezione e, insieme, del ricordo. La scrittura di Bux diventa, con un meccanismo che molto ricorda il correlativo oggettivo eliotiano, “kevlar” che attutisce i colpi dell’esistenza. Il kevlar, che è anche il titolo di una sua raccolta, è una fibra che rafforza il materiale dei giubbotti antiproiettile e che, proprio come la scrittura, è più resistente dell’acciaio. E già in questa raccolta si intravedeva il dissolversi di un peso in parvenza di luoghi, in disegni di mappe, emergeva il tentativo di trovare un rimedio nella geografia: “È tutto nostro/il peso del cielo, mentre scende nel fosso del corpo, ci/distende in geografia”. 

In una novella del 1920 intitolata “Rimedio: la geografia”, Pirandello fa dire al protagonista: “Ecco, nient’altro che questa certezza d’una realtà di vita altrove, lontana e diversa, da contrapporre, volta per volta, alla realtà presente che v’opprime; ma così, senza alcun nesso, neppure di contrasto, senz’alcuna intenzione, come una cosa che è perché è, e che voi non potete fare a meno che sia. Questo, il rimedio che vi consiglio, amici miei. Il rimedio che io mi trovai inopinatamente quella notte”. Sconvolto da immenso dolore, questo personaggio nella lettura del libro di geografia della figlia trova un momento di sospensione del dolore, nelle Montagne Azzurre dell’”isola di Giamaica”, nelle sue spiagge e i suoi ruscelli, nella città di Porto Reale, nelle sue praterie dove donne e uomini “rovesciano a mucchi sugli spiazzi assolati il raccolto del caffè ad asciugarsi”. In quel momento in cui la vita faceva male, questo personaggio trova consolazione nella mappa di un luogo lontanissimo.

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