Gallipoli terra di nessuno

L’uomo e il mare: Ovviamente  nulla sapevo del  “gallipolino”, che  “è dotato di acuto ingegno e tanto versatile da piegarsi spontaneo e facile a qualsivoglia branca dello scibile ; che tutto comprende, senza istruzione alcuna, senza bisogno dello intero sviluppo delle idee, cui basta accennare,  solamente sorretto dalle forze del proprio ingegno”… Egli  conosce le cose  per istinto,  per intuito, per memoria atavica …Basta che le veda per la prima volta e le ha già imparate… Il guaio è che non vuole proseguire oltre, non vuole crescere, vuole rimanere eternamente  fanciullo e quando raggiunge la maturità – se ci riesce – è già vecchio…Insomma, “i  gallipolini  son tutti poeti… e ardentissimo in loro è il genio per la  musica, che in ogni età  coltivano con vera passione…”.

Tutte queste cose le avrei apprese dai libri e dagli studiosi locali, Cataldini Barbino, Verona, Coluccia, Natali, Paone, Albahari, Schirosi, Mosco, Perrella, Rima, Caridi, con alcuni dei quali avremmo fondato  l’Associazione Culturale “L’uomo e il Mare” con sede in via Gian Giacomo Russo. Ma allora, io mi recavo a  Gallipoli solo per lavoro, per  le riviste ai marinai al mattino nella Capitaneria, i briefing, le riunioni, le ispezioni sul demanio marittimo, e nel porto,- bellissimo, da passeggiata panoramica, o romantica (sarà poi teatro e scenario del Premio Barocco), ma  per nulla efficiente  e produttivo. Il porto  era un tutt’uno con la città, con la storia della città e  con  la sua gente, con i pescatori e i fabbricanti di nasse,  lavorate a fil di canna sui gradini del Canneto, antico Santuario della Madonna, da vecchi dalle dita  di ragno, maestri pazienti, lucidi e perfetti sotto un cielo viola, di bambini appena  nati.   Nasse meravigliose , uniche ,  così grandi da parere  “lo scheletro di un mappamondo gigantesco , e leggere come una bolla di sapone”.

Man mano avrei cominciato a sentirmi  come un  Odisseo  che  riapproda alla sua Itaca definitiva  e ha sotto i suoi piedi  il mare poderoso  che fa  da cornice, da clarino e da grancassa,  il vecchio  mare Jonio dal sale greco, il mare di Omero e di Idomeneo,  mitico fondatore di Gallipoli, ma poteva essere anche il mare di Alixias, l’antica Alezio, o dei tarantini, o addirittura dei gallipolini, intendendo per  tali  gli esuli della Gallipoli sicula o turca.  Insomma, quel  mare, a interrogarlo, mi avrebbe  raccontato tante e poi tante  cose, avrebbe parlato per ore  di miti leggende, scenari di guerra e sangue con incursioni, espugnazioni, assedi, conquiste, svelando chissà quanti misteri. Ma quel mare era  (ed è) anche scenario esistenziale,  ponte di civiltà fra due terre, due popoli, contesto commerciale, fonte di vita quotidiana per moltissime famiglie, realtà geostorica  di tutti gli ieri  e  trampolino di lancio di tutti i domani. Da queste considerazioni nacque  ,poi,  l’idea  di creare la Rivista “L’uomo e il Mare”, fin da allora diretta da Giuseppe Albahari.  Era l’anno di grazia 1985, ed ormai io ero diventato “gallipolino”  a tutti gli effetti.

Questa è la  terra di nessuno , io  l’ho esplorata,  per trent’anni della mia vita  e ora che ne sto lontano  continuo a farlo perché non so fare altro. Scrivo insieme ai Galateo, Ravenna, Castiglione,  Patitari ,Pipinu,  Antonietta De Pace, Sofia Stevens, Lucia Solidoro, Luigi Sansò, Aldino De Vittorio, Uccio Piro, Giuseppe Leopizzi, Giorgio Barba, Carmelo Scorrano,  un libretto d’opera  fatto solo di parole . La musica la scrive il vento con le sue mille dita, la musica è  quella striscia di luce rosa  che colora l’orizzonte di Gallipoli dall’alba al tramonto. Il resto, tutto il resto non serve).

La pastorale gallipolina: Come avrete capito, m’innamorai subito  di quella “fanciulla azzurra”, “Venere di Japigia”, ”Isola della Luce”,  che è Gallipoli  e imparai presto molte cose, grazie  alla certosina pazienza del mio amico e maestro  Oliviero Cataldini, che di tanto in tanto andavo a trovare ai villini in via Torino e  mi mostrava, tra il compiaciuto e il rammaricato (per non poter  dar loro la luce)  montagne di suoi manoscritti  frutto di faticose ricerche su Gallipoli, usi, costumi, tradizioni, favole, leggende , tutto materiale  che teneva nei cassetti  della sua scrivania di ex professore di Italiano. Non sapevo ancora nulla della “pastorale gallipolina”, quella nenia dolcissima e struggente   che sapeva di violini e clarini, mandolini e chitarre. L’avevo già udita questa grandiosa ninna-nanna , questa solenne armonia celeste, che il popolo gallipolino ha creato per la nascita di Gesù Bambino durante le notti dell’Avvento,  ma non avevo mai visto la  mistica processione  notturna per le vie della città,  né la banda dei musici, di cui faceva parte –dicevano – un vero e proprio funambolo del violino, il barbiere cerusico  Mesciu Ninu Trumbetta, sulle orme, per celebrità, del mitico Sebastianu Campa.  In   Francia avevo veduto  i cantori di  Noel,  ragazzi che girano di casa in casa  a partire dal 25 novembre, cantando ogni giorno un canto diverso in cambio di qualche moneta o un pezzo di legna per il camino. Invece i suonatori di Gallipoli non  li avevo mai veduti e  quasi quasi  mi stavo facendo dell’idea che fossero fantasmi  musicali, e che fosse in realtà  il  vento  a trasportare  nell’aria,   da lontanissimo,  da epoche anteriori,  quel suono magico  da  nuova Palestina.   Erano dita invisibili e colorate,  voci melodiose  che lodavano la nascita del Divino Bambino,  in quella nenia azzurra da  mezzaluna  araba,  così ricca di nostalgie  e tappeti volanti,  così struggente  come un’onda del mare  ferita.

Erano  voci di  vele antiche,  con  memorie di  bonacce , tempeste e naufragi ; ma c’erano anche le dita bianche e profumate di  fanciulle saracene che si  destano  dal sonno e si sporgono dai balconi  di gerani rossi  della casbah di Gallipoli , coi loro sogni e desideri…  Insomma, c’era  qualcosa d’antichissimo e vitale,  simile a un frammento, a una scheggia di luce,  che  improvvisamente appare  come meteora  ed evoca  ricordi lontani, dimenticati,  abbandonati in fondo all’anima  e che ora magicamente  riapparivano.  L’aveva composta   un Anonimo del settecento che forse nulla sapeva di musica  “colta” e delle  varie pastorali di  Corelli, Torelli, Purcell, Handel e Bach,   era   un misto di  stupore   barocco  e di romanticismo,  pathos,  passione corale,  espressione autentica dell’animo popolare,  con la gioia  dell’attesa,  la  spontaneità, la semplicità, la  fantasia, il gusto della rappresentazione  e il senso del mistero divino, tutto un caleidoscopio di sensazioni e emozioni che vengono rivissuti in un momento  intensamente lirico  malinconico  e straziante, pur nella sua purissima dolcezza  espressiva … Ma chi  poteva aver composto  una cosa del genere?  Forse solo  il  vento  di tramontana che “lu core te sana”, il vento fresco,  che carezza la gota di un bimbo,  o di una madre;  o   l’anima ingenua  e devotissima, spirituale, ma allo stesso tempo calda, fraterna,  di un intero  popolo che crede alle favole e a distanza di duemila anni   con  flauti  clarini e zampogne rinnova la processione dei pastori verso la grotta di Betlemme.

E’  in questo elogio costante della luce, e della musica, in questo libretto d’opera infinito   che è forse  possibile trovare una via di salvezza, un punto di incontro tra la fantasia e il controllo, la generosità, lo sperpero  e l’oculatezza, l’indole tragica e taciturna con il sentimento giocoso e funambolico, tutti contrapposti tipicamente salentini; forse è possibile  mettere  in equilibrio la piuma e il vento, i colori veri con quelli del sogno, la città apparente, che va sempre più  slabbrandosi,  omologandosi  a tante isole periferiche  kitsch e pattumiere del nostro meridione, con quella vera,  invisibile, fatta di  ombre luminose, di  tracce  e segni che si sovrappongono. E’ un’impresa difficilissima, forse superiore alle nostre forze,  in cui nessuno finora  è riuscito. Ma  forse una sola vita non basta, e più che un Messia occorre una generazione nuova, una sorta di holding di menti illuminate e  anime belle che faccia breccia lungo la striscia di luce rosa, e s’affacci sul proscenio della  “Città bella”, terra di nessuno. 

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