di Augusto Benemeglio
Ho cominciato veramente a scrivere quando venni per la prima volta a Gallipoli, il 25 febbraio 1977, dopo quattordici ore di treno, in una giornata di libeccio sanguinario, e sbarcai alla stazione centrale della Sud-Est, alle 14,30, dove non trovai nessuno ad aspettarmi (ci doveva essere il mio collega Tenente Scarlino, ma forse non c’eravamo intesi, e allora non esistevano i cellulari). Il vento era gelido, impetuoso, cattivo, e le strade deserte. (Gallipoli è la terra di nessuno, una città invisibile, inesistente, un continente sconosciuto, un luogo da esplorare, pura immaginazione, letteratura insomma, qualcosa di simile ad un testo dentro un testo, o innumerevoli testi dentro il testo, oppure, un paesaggio dentro altri paesaggi, un’immagine dentro altre immagini, suoni dentro altri suoni, colori dentro altri colori: fantasmi inafferrabili, ma non meno oggettivi, forse, del testo in sé, del paesaggio in sé, dell’immagine in sé, delle note musicali in sé).
Non conoscevo, né sapevo nulla di questa città. Ero completamente ignaro della “Serra di Nardò”, del Borgo, della Fontana Greca, del Castello, della Cattedrale, del Malladrone, della città storica, lo “Scoglio”, con l’ombra costante del mitico re messapico Artas, che cavalcava, insieme, due cavalli di rame. Non conoscevo nulla di questa “Gibilterra d Puglia”, nulla dei bastioni, non più fortificati, ma ridotti “a giardino d’infanzia”, dove mi sarei presto dondolato ammaliato da quella “bara di freschezza” che era il mare, pigro, indolente, percorso da correnti deboli, né delle piazzette, dei vicoli e i labirinti da “casbah araba”, con panni stesi ad asciugare, dove mi sarei sperduto annusando il salnitro, l’odore dei limoni, la salvia e l’olio fritto. Non sapevo che mi sarei lasciato andare pigramente, finalmente ignaro del dio tempo, lungo le strade strette e tortuose fiancheggiate, di tanto in tanto, da sorprendenti facciate barocche di palazzi patrizi o illuminate dal fresco latte di calce, o da altre case “dalla fronte liscia e dai colori rosei e giallini”. Un impianto urbanistico che richiamava alla mente un architetto bizantino o un matematico arabo, che sapevano tutto dei segreti della volta e dell’arcata, dei labirinti, dei teoremi delle nuvole e dei giochi di vento.