Oreste Macrì (Maglie, 10 febbraio 1913 – Firenze, 14 febbraio 1998) è stato, senza dubbio, un personaggio di primo piano delle lettere italiane del secolo scorso. Ispanista, italianista, comparatista, il suo nome viene associato di solito al fenomeno del cosiddetto “ermetismo” degli anni Trenta, di cui, insieme a Carlo Bo, è stato uno dei principali teorici, ma la sua attività è andata ben al di là di quella pur feconda stagione letteraria. La sua bibliografia è sterminata e sarebbe difficile indicarne in questa sede anche soltanto le principali linee di ricerca. Vissuto per buona parte della sua vita a Firenze, dove ha insegnato Lingua e letteratura spagnola presso la locale Università, non troncò mai i legami col Salento che contribuì anzi a collegare, in campo culturale, col resto della nazione attraverso un rapporto privilegiato col raffinato ambiente letterario del capoluogo toscano.
Con Vittorio Bodini, nel 1941, curò la terza pagina, di netta impostazione ermetica, del settimanale leccese “Vedetta mediterranea” che durò soltanto per i primi dodici numeri. Fece parte dell’Accademia salentina fondata da Girolamo Comi nel 1948 e collaborò alla rivista “L’Albero” che nei primi anni ne costituiva il Bollettino ufficiale. Infine, nel 1970, dopo la scomparsa di Comi, avvenuta nel 1968, con Donato Valli riprese “L’Albero” che andò avanti fino al 1985, anche se l’ultimo numero risulta “finito di stampare” nell’87. Anche per questo in quegli anni veniva spesso a Lecce dove lo conobbi quando ancora frequentavo la facoltà di Lettere. In particolare, ricordo di aver seguito alcuni suoi seminari nell’ambito dei corsi di Letteratura italiana contemporanea, tenuti da Valli. Inoltre, con lo stesso Valli, Mario Marti e altri due illustri studiosi e amici, Gino Rizzo e Antonio Mangione, lo andavamo a trovare spesso a Otranto dove villeggiava. E per me, appena laureato, fu un onore, oltre che una grande fortuna, assistere alle discussioni fra due maestri come Marti e Macrì, divisi da formazione, interessi, metodo, ma accomunati dalla medesima passione per la ricerca, oltre che dal rispetto reciproco.
Dopo la laurea, incominciai a occuparmi di Vittorio Bodini, che a Macrì fu legato da una lunga amicizia, interrotta per alcuni anni a causa di divergenze di natura letteraria e da qualche incomprensione. Per questo motivo andavo a consultare, presso la Biblioteca provinciale “N. Bernardini” di Lecce, i settimanali degli anni Trenta, “La Voce del Salento”, fondato e diretto da Pietro Marti, avo materno di Bodini, e “Vecchio e Nuovo” di Ernesto Alvino sui quali egli aveva fatto il suo esordio. E mentre la collaborazione di Bodini a quest’ultimo settimanale era già nota, del tutto sconosciuta era quella a “La Voce del Salento”, dove scoprii numerosi articoli, recensioni, poesie e prose creative del giovane scrittore che nel 1932 aderì al futurismo, fondando un piccolo gruppo locale, il Futurblocco leccese, e vivacizzando con polemiche e manifestazioni varie la sonnacchiosa vita culturale del capoluogo salentino.
Nel 1979, sul n. 1-2 della rivista “Sallentum” pubblicai un articolo, dal titolo Breve storia del futurismo nel Salento, in cui ricostruivo le vicende del movimento marinettiano nel territorio e pubblicavo, in Appendice, testi, in versi e in prosa, di Bodini che avevo rintracciato su quei settimanali. Mandai l’estratto a Macrì, che mi rispose con una lettera datata «Firenze, 20 ottobre 1979», complimentandosi con me per aver «finalmente riuniti gli scritti specifici di Bodini». Quando, nel 1983, il critico magliese curò l’edizione di Tutte le poesie (1932-1970) dello scrittore leccese negli Oscar Mondadori, in Appendice raccolse alcuni di quegli scritti, in particolare le composizioni in versi, completamente dimenticate, rinviando, nella sua Introduzione (p. 13), per la “preistoria” bodiniana ai miei contributi.
In quegli anni continuai a lavorare sull’opera di Bodini che per me ha rappresentato non solo un oggetto di studio, ma una sorta di guida per conoscere meglio tanti aspetti della realtà salentina, della storia, della società, della civiltà del Salento. Lo ritengo tuttora uno dei poeti più originali del Novecento, anche se il suo valore non è stato ancora riconosciuto completamente a causa dei pregiudizi e del conformismo che dominano la società letteraria italiana nelle sue varie articolazioni (università, case editrici, grandi giornali). Nel 1983 pubblicai nella collana “Minima” dell’editore Milella, diretta da Mario Marti, un volumetto dal titolo Bodini prima della “Luna”, in cui ricostruivo la sua attività prima della pubblicazione della Luna dei Borboni, del 1952, attraverso le varie fasi della sua vita dopo la prima giovinezza: la fase fiorentina, quella leccese, quella romana e quella spagnola. Macrì, che contemporaneamente in quel periodo stava lavorando, come s’è detto, all’edizione di Tutte le poesie, quando ricevette questo volume mi scrisse un’altra lettera, datata «Firenze, 12 – 7 – 1982», compiacendosi del mio «fervido bodinismo» (così lo definiva) e dei «risultati del mio lavoro», che fra l’altro elencava nella bibliografia.
Nel 1984, Anna Grazia D’Oria e Piero Manni fondarono a Lecce una rivista letteraria, “l’immaginazione”, che continua a uscire ancora oggi, a distanza di quaranta anni esatti da allora, sotto l’abile guida di Anna Grazia. Essa, all’inizio, aveva una periodicità mensile e una singolare struttura modulare, a sistemazione decimale Dewey, dovuta a Francesco Saverio Dodaro che l’aveva già applicata alla rivista da lui fondata nel 1977, “Ghen”, organo del Movimento arte genetica. Questo tipo di impostazione, in effetti, suscitò non poche polemiche perché costringeva a cercare affannosamente la pagina seguente interrompendo il piacere della lettura. All’“immaginazione” incominciai a collaborare già da quel primo anno, mentre dal 1985 venni invitato a far parte del comitato di direzione del periodico insieme a Giovanni Pellegrino e Marcello Strazzeri. Sul numero di dicembre dell’84 diedi alla luce un racconto inedito di Bodini, Il gobbo Rosario, poi entrato a far parte del volume da me curato, Barocco del Sud (Nardò, Besa, 2003), con una Nota introduttiva.
La lettera di Macrì, che qui pubblico, manoscritta su un’unica facciata su foglio intestato “Università – Magistero | Istituto Ispanico”, si riferisce proprio a questo numero (nel trascriverla ho messo in grassetto una parola sottolineata due volte per evidenziarla). In essa, lo studioso, manifestando ancora una volta la sua ben nota vis polemica, dichiara senza mezzi termini tutta la sua insofferenza, per non dire l’irritazione, nei riguardi dell’impostazione grafica della rivista, che definisce «un’offesa alla ragion pratica e critica del giudizio». Per quanto riguarda il compianto Piero Manni, del quale Macrì si chiedeva chi fosse, ma solo per fare una battuta, aveva steso soltanto una breve nota di carattere generale sulle linee programmatiche del foglio da lui diretto.