di Augusto Benemeglio
Ritorno, per un paio di giorni, a Lecce, la città dello “Zimbarieddhu”, al secolo Giuseppe Zimbalo, il più grande esponente di una dinastia di capomastri e architetti salentini, che esprime il meglio del barocco leccese, categoria dello spirito…. “Qui è speciale il taglio delle ombre – mi disse padre Gonzales Martin, letterato, storico, meridionalista – , per la sua chiarezza, sono ombre calde. E’ il clima che fa crescere bene gli olivi e le palme, e poi quel che ti conquista è il vivere sulla strada, sulle porte di casa, sui marciapiedi, questo vivere in strada porta la gente a dialogare ad essere più loquace e quindi disposta ad accogliere (parliamo di una ventina di anni fa, ora le cose sono cambiate, n.d.r.). E infine quei ricami di pietra che sono le chiese. Il barocco leccese è ricco volubile fiorito stravagante, una sorta di liberty, un’esplosione di follìa, libertà, gioco… Lecce ha una sua bellezza fragile e armoniosa, aristocratica, una città che si sposa col colore della sabbia, della pietra, e col verde argentato degli ulivi…ma io m’incanto a guardare il romanico, così arioso, chiaro, scabro, nudo, essenziale, con una semplicità che è adesione all’innocenza e novità al mistero. Significa farsi puri e semplici di fronte a Dio. E’ come voler veramente farsi una casa di luce, la casa del sole e di Dio, con quella line geometrica, la pulizia, che trovi anche nelle architetture rurali…”.