di Antonio Errico
Il presente è un posto dove porta il passato. Non c’è un solo fatto, un solo evento che possiamo capire se non abbiamo idea di come ci si sia arrivati.
Così dice Amin Maalouf, lo scrittore francese premio Goncourt nel corso di un’intervista a Francesca Pierantozzi, pubblicata dal Messaggero del 5 marzo scorso.
Il passato come un luogo che abbiamo abitato, in cui abbiamo vissuto. In quel luogo abbiamo avuto felicità, abbiamo avuto dolori, sentimenti, esperienze, storie, passioni. In quel luogo abbiamo incontrato creature: volti, voci, parole, silenzi, stupori. Quello che siamo, il modo in cui siamo, è maturato nelle stagioni trascorse in quei luoghi. Lì abbiamo imparato a confrontarci con noi stessi, con gli altri, con quello che accade, con la realtà e l’immaginazione, con il progetto di una vita, il previsto e l’imprevisto, il caso, il destino. Chi non si confronta in continuazione con il passato, chi non lo interroga o non tiene in conto le risposte, non può sapere da quale luogo viene, né in quale luogo vive, in quale luogo va. E’ un estraneo alla propria storia di uomo. Non appartiene. Non ha radice.
Per una civiltà è la stessa cosa. Anche una civiltà proviene da un luogo chiamato passato. Poi, certo, quel luogo da cui viene nel tempo si modifica, somma le stratificazioni che lo conformano, integra elementi nuovi, intreccia i racconti, ma quasi sempre conserva il nucleo che lo ha generato. Senza una consapevolezza del luogo da cui proviene, una civiltà è costretta a subire crisi più o meno evidenti, più o meno profonde. Forse quando si manifestano i segni di una crisi significa che per quella civiltà sta cominciando un processo di snaturamento dell’identità, che si stanno sfilacciando le radici, che coloro che la abitano non avvertono più il sentimento di appartenenza.