Francesco Viva, come scrive Barrella, è nato a Lecce (1654) da Giacinto Barone di “Specchiarossa Specchiamezzana e Cucunule” (Cocumola, oggi frazione di Minervino di Lecce) e Francesca Bozzomo. Entrato in Compagnia il 20 maggio 1670, nel 1687 inviato in missione nel Marañón, nel 1695 è nominato superiore della missione Maragnone presso il popolo dei Piro (Perù); muore nel 1703 a Cuenca (Equador)[1]. Il fratello Domenico (1647-1726) fu anch’egli gesuita[2]. Dal profilo biografico redatto da Dovere apprendiamo che anche lo zio Girolamo (-1667) fu un gesuita[3]. Domenico “nacque il 19 ottobre 1647 a Lecce, seguendo l’esempio dello zio Girolamo, dopo aver studiato in famiglia fino ai quindici anni entrò fra i gesuiti, a Napoli, il 12 maggio 1663 ed emise i primi voti due anni dopo (14 maggio 1665). Fu rettore (1711-15) e prefetto degli studi del Collegio Massimo (1712). Il 19 marzo 1725 fu nominato preposito provinciale. Nell’arcidiocesi di Napoli Viva fu consultore del S. Uffizio ed esaminatore sinodale (1712-25). Godette della stima di Clemente XI e Benedetto XIV, che lo citò come un’autorità nel suo trattato De Synodo dioecesana (l. IX, cap. IV). Ebbe la fiducia dell’arcivescovo di Napoli, il cardinale Francesco Pignatelli, cui dedicò l’edizione patavina degli Opuscula theologico-moralia (1721)”[4]. Viva esordì nel 1708, con i tre volumi intitolati Damnatae theses ab Alexandro VII, Innocentio XI et Alexandro VII nec non Jansenii ad theologicam trutinam renovatae juxta pondus Sanctuarii (Neapoli 1708), e fu un deciso difensore delle tesi probabiliste[5]. Ricca è la bibliografia di Domenico. Tra le sue opere, il Cursus theologicus ad usum tyronum elucubratus, “benché non approntato per la pubblicazione dall’autore, fu edito dal nipote Ignazio Viva e stampato a Padova in otto volumi (1712), con parecchie ristampe. Nel 1723 ancora a Padova apparve il Cursus theologico-moralis, dedicato al principe Marco Antonio Borghese”[6].
Tornando a Francesco Viva, il suo operato si inquadra in quel fenomeno complesso ma affascinante che sono le riduzioni gesuitiche in America Latina.
Samir Boumediene illustra come i gesuiti si appropriarono della corteccia delle colonie dell’America latina per farne oggetto di un commercio internazionale con l’Europa e come significativo in questo fu proprio l’operato di Francesco Viva. Egli, che era all’epoca superiore della missione, elaborò un progetto per realizzare la conquista spirituale e militare della ricca regione del Manais. In quella parte dell’Ecuador, gli spagnoli trovarono importanti riserve di oro durante il XVI secolo, ma dovettero affrontare la resistenza degli indigeni Jívaros; il ricordo del sanguinoso assalto lanciato contro la città di Logroño era ancora forte nel 1680 e, secondo Viva, la provincia aveva bisogno di attrezzarsi con missionari e soldati ben addestrati[7]. Attraverso il commercio della corteccia di china in Europa si sarebbero potuti realizzare favolosi guadagni con i quali acquistare oro argento e armi per combattere contro i Jivaros e ridurli all’obbedienza; aveva anche inviato il prodotto a suo fratello Domenico, a Napoli, per farlo valutare. Infatti la richiesta era altissima ma non tutto il prodotto appariva di qualità soddisfacente e soprattutto di quantità bastevole rispetto alla domanda. Egli si piccava di aver trovato una foresta vergine nelle montagne intorno a Loja da cui si potevano estrarre delle quantità considerevoli per realizzare maggiori profitti. Chiese quindi ai suoi superiori di essere inviato in Europa per illustrare personalmente la questione ai regnanti di Spagna e soprattutto alla corte pontificia alla quale intendeva portare dei donativi per convincerli della bontà della causa. Tuttavia non gli fu permesso di partire. La missione fu compiuta da un altro gesuita. Rimaneva la motivazione certo non commendevole perseguita da Viva e dai gesuiti in Ecuador: l’utilità politica del commercio della corteccia, cioè, era quella di finanziare una guerra contro gli “Jívaros”[8].
Facciamo un passo indietro per descrivere più dettagliatamente la situazione. Nel 1599, i Jivaros di Quito, alleati con il popolo dei Macas e Huamboyas, si ribellarono al dominio spagnolo, le città di Logroño e parzialmente Sevilla de Oro furono rase al suolo, la popolazione spagnola della regione quasi estinta[9].
Da quella data fino quasi alla metà del diciannovesimo secolo, gli Jivaro ebbero solo contatti intermittenti e generalmente ostili con i bianchi, o missionari o militari[10].
Solo nel 1815 un gruppo di salesiani italiani riuscì a fondare una missione cattolica, con il consenso e il sostegno degli Jíbaros[11].
Nel 1680 fu concesso il permesso di trasferirsi nel Nuovo Regno a sette nuovi missionari. Tra questi erano quattro italiani: i padri Francesco Viva, Carlos France, Francesco Panigati e Domenico María Lanzamani[12], Scrive di Viva il gesuita padre de Velasco, in Historia moderna del Reino de Quito, 1789, prima opera sulla storia dell’Ecuador: “una de las familias más nobles y opulentas del Reino de Nápole”[13]. Padre Francisco Viva e Nicola Lanzamani, che muterà il suo nome in Durango da Napoli, si imbarcarono da Genova dove si aggiunsero altri due tedeschi e con loro raggiunsero la Spagna a fine anno[14]. La scelta missionaria, come riferisce sempre de Velasco, non fu ben accetta dai Viva; è bene però ricordare che l’opposizione della famiglia alla decisione del gesuita rientrava in un “topos” della letteratura gesuitica[15]. Scrive de Velasco: “suoi fratelli e parenti, conosciuta la destinazione con la quale era partito per Genova, lo maltrattarono […]; e, adducendo la sua debole costituzione, fecero sì che il generale lo facesse ritornare da Genova. L’ordine non ebbe effetto, perché Padre Francesco sapendo da dove proveniva la notizia […] consultò i medici, fece una richiesta e senza attendere la risposta proseguì il viaggio con i procuratori in Spagna, come detto. Vedendo vanificato il tentativo, i parenti ottennero dal Generale un severo secondo ordine affinché il Procuratore di Siviglia non permettesse al P. Francisco Viva di imbarcarsi per le Indie, per poi farlo ritornare nella Provincia di Napoli. Ma per disposizione divina quest’ordine arrivò a Siviglia due giorni dopo la partenza. I suoi parenti sapevano che quella era la disposizione del cielo contro i loro sforzi inutili e si attennero in questa opinione alle predette lettere da lui scritte […]. In seguito fecero sollecite raccomandazioni al Vicerè di Lima affinché a loro spese assistesse il Padre Francesco con tutto il necessario…”[16].
Nel 1682, P. Juan Lorenzo Lucero tentò una nuova missione presso i Shuar che ancora una volta risultò fallimentare; probabilmente Viva affiancò Lucero[17].
“Ancora una volta, la spedizione nella terra dei Jíbaros, costata tante spese e sacrifici, fu un completo fallimento. La causa principale dell’insuccesso di padre Lucero fu senza dubbio il suo essere andato in compagnia dei soldati per invitarli ad abbracciare la religione cristiana. Ebbene, negli anni successivi accettarono l’invito, quando il missionario entrò nelle loro terre senza alcun accompagnamento. Tutti gli indiani infedeli odiavano i soldati per le loro ingiustizie e abusi. […] Il 15 luglio 1683 un Regio Decreto ordinava a don Antonio Munive, presidente della Corte Reale di Quito, che nessun missionario tentasse di entrare nella terra degli infedeli, senza essere accompagnato da militari che non potevano in nessun caso uccidere gli indios o depredarli”[18].
Riferisce Samuel Fritz da Quito il 17 settembre 1685: “Il suddetto Padre Superiore si è recato lo scorso agosto accompagnato da P. Viva nel paese dei Jíbaros i cui popoli sono stati raccolti e istruiti dai nostri Padri cinquant’anni fa, ma con il passare del tempo si sono persi di nuovo e cercano di scrollarsi di dosso il dolce giogo di Cristo”[19]. Padre Francesco Viva nel 1687 era già superiore della missione del Marañón[20]. Nel 1688, l’Audiencia di Quito ricevette un decreto reale, in cui si ordinava di cercare la riduzione dei Gívaros, che per un secolo avevano importunato gli spagnoli e gli indiani convertiti. Il presidente chiamò Viva, che governò le missioni dopo padre Lucero. Si presentò il Padre Superiore, gli fu letto il decreto reale e in nome di Sua Maestà l’udienza lo incaricò di ridurre i Givaros. Con questa formalità gli Auditori credevano senza dubbio di aver rispettato le indicazioni e di aver obbedito agli ordini del monarca. Padre Viva cominciò a discutere delle modalità da adottare per ridurre persone così ostinate. Da mezzo secolo infatti tutti i “mezzi gentili” della carità cristiana erano esauriti. Era evidente che gli indios potevano essere ridotti solo con la forza e, se non potevano essere portati sotto il dominio spagnolo, almeno costretti a vivere in pace con i cristiani. Alla fine P. Viva preparò una spedizione militare nella quale un piccolo nucleo di soldati spagnoli potesse essere affiancato da truppe di indigeni già convertiti[21]. Scrive un altro storico gesuita, Herrera, che si stavano molto diffondendo le voci dell’oro dei Gibaro anche in Spagna[22]. Viva, nel dicembre 1689, per giustificare la necessità di una spedizione militare, scrive che nei territori di Jívaros ci fosse quasi un El Dorado, ossia la presenza di tanto oro che in tutte le terre dell’India non vi era l’uguale[23]. Dai documenti d’archivio possiamo ricostruire le forniture della polvere da sparo che Viva ricevette per la sua campagna militare ovvero la “entrada”: Disposizione reale, a Quito il 10 luglio 1690, emessa dall’Udienza per il Corregidor di Latacunga[24], e inoltre, tra i documenti che nel 1767 la Real Audiencia di Quito acquisì dal soppresso Colegio Maximo di Quito, anche un anonimo “Resoconto sotto forma di diario di un’escursione effettuata nella provincia degli indios Jíbaro dal Governatore di Mainas Dn. Jerónimo Vaca y Vega con Padre Francisco Viva superiore delle missioni di Mainas per riconquistare questi ribelli negli anni 1690 e 91”[25]. Herrera riferisce che “Padre Francisco Altamirano, visitatore della provincia di Quito, dietro esortazione della Corte Reale e del più illustre prelato, con fermezza, come era giusto, ordinò a Padre Viva, superiore delle missioni, di accompagnare gli indigeni con canoe, provviste e tutto il necessario a D. Jerónimo Vaca, capitano generale di Mainas, a cui era affidata l’impresa di scoprire con la sua prudenza e sottomettere con il suo coraggio l’ardimentoso Givaros. Il superiore obbedì puntualmente, desideroso di dimostrare la fedeltà che la Compagnia sempre riservava agli ordini reali, e poi inviò avviso a tutte le parti delle missioni affinché potessero arruolare i terzi più abili e coraggiosi degli indiani trovati nelle riduzioni”[26]. Riferisce Astrain: “Ci sono voluti più di due anni per consultare e organizzare questa spedizione […] Nel 1691, Padre Viva poté lanciarsi nell’impresa di cui ha lasciato una cronaca: L’Iformación que hace el P. Francisco Viva, Superior de las misiones del Marañan, en la ciudad de Jaén de Bracamoros del Perú, ante Bernardo Nicolás Enriquez de la Peña, Vicario y Juez eclesiástico de la ciudad. Se conserva original en nuestro Colegio de Quito”[27]. Nell’Informaciòn, leggiamo direttamente da Viva: “Nell’estate [del 1691] raccolsi dalle missioni centotrenta canoe, ottocento Geveros[28], sessanta spagnoli e quattro Padri missionari e li portai a Gibaros, un viaggio di quaranta giorni di fiume estremamente pericoloso, passando il Pongo [….] dove scorre il Maranón[29] ed è terrificante vederlo e ancor più passarlo. Trascorsi due mesi a Gívaros con detto esercito equipaggiato di armi e di vettovaglie, distribuendo tutti gli indiani e gli spagnoli dell’accampamento che feci in mezzo ai Givaros, affinché potessero fare una ricognizione in tutto il paese e catturare detti Gívaros come cervi. Presi trecentosettantaquattro anime e le mandai su zattere lungo il fiume verso le nostre missioni. Riconobbi in quella prima annotazione che i Gívaro erano molti, che erano difesi non tanto dalle armi ma dai loro tradimenti notturni, e molto più dall’aspra catena montuosa attraverso la quale erano distribuiti nei punti più alti di essa, con che i nostri indios non poterono sopportare per lungo tempo quel cammino difficile, l’insonnia di ogni notte, durante la quale i Gívaros attaccavano i nostri accampamenti, e la fame, che di solito era il più grande nemico dei nostri indios”[30]. Chiosa Astrain: “de este modo empesò la infeliz campana contra lo Jivaros”. Come riferisce l’antropologo Karsten, “A Borja fu costruita una flotta regolare di canoe per il trasporto dell’esercito, che consisteva di non meno di 900 indios armati di diverse tribù […]. La flotta risalì il Santiago e le truppe si accamparono su un piccolo affluente di quel fiume. Poi è iniziata una vera e propria caccia all’uomo. I soldati hanno catturato 21 membri del gruppo Jivaro, che stavano partecipando alla celebrazione della festa della santa. Gli altri fuggirono e presto portarono la notizia dell’arrivo degli spagnoli alle vicine tribù Jívar, così che ebbero il tempo di prendere precauzioni. L’esercito spagnolo, diviso in due piccoli gruppi, perlustrò la giungla in tutte le direzioni cercando di catturare i Jívaro ovunque li trovassero e portando tutto ciò che potevano portare nel loro centro operativo. Gli indigeni fuggirono davanti alle truppe, confinandosi nel fitto della giungla e attaccandole ripetutamente con imboscate. Il risultato fu che in cinque mesi di spedizione riuscirono a catturare solo 372 persone, tra cui numerosi bambini. Questi ultimi furono subito battezzati e i prigionieri furono inviati nella cittadina di Borja e in altre stazioni missionarie. Tuttavia, molti di loro riuscirono a fuggire, rifugiandosi nella giungla, altri si suicidarono e furono viste madri addirittura strangolare i loro bambini per liberarli dal destino di schiavitù che li attendeva. Il risultato di questa spedizione, così accuratamente preparata, fu allora praticamente nullo, e si dice che il viceré del Perù, rendendosi conto dell’inutilità di tali tentativi, proibì simili incursioni in futuro”[31].
I Xeveros in particolare furono affiancati ai soldati per “pacificare” o catturare altri gruppi indigeni; li troviamo al fianco di Viva nella spedizione del 1691, ma il religioso non li ricompensò con gli utensili promessi e ciò li fece rientrare nei loro villaggi profondamente amareggiati[32].
Nel suo diario, il gesuita boemo Samuel Fritz riporta che il 25 febbraio del 1692 padre Viva stava progettando “il temuto ingresso tra i Xeberos”[33]. Nel 1693 Viva decise un cambio di strategia e “pensò di fondare una città tra i Gívaro, accogliendo qualche elemento della popolazione spagnola. Per questo pensò di prelevare un centinaio di famiglie da Quito, che potrebbe essere il centro della città progettata, che si chiamerà Logroño, e ottenne per ciò l’autorizzazione delle autorità di Quito”[34]: Un altro pensiero molto opportuno mosse Padre Viva, e cioè quello di facilitare il più possibile le comunicazioni tra la terra di Gívaros e le città spagnole. A questo scopo, come scrive nell’Información,“mi recai nella città di Cuenca e mi accordai con gli indigeni delle nostre missioni che portavo con lo scopo di aprire la strada da Cuenca a Cívaros, nella parte dove si trova la città di Logroño, così nominata come quella che sorgeva centodieci anni fa”[35].
Diventava chiaro ora che la missione di Viva fosse stata fallimentare, come gli stessi storici della Compagnia ammettono. Il progetto nasceva da un sincero desiderio per il miglioramento temporale e spirituale degli indiani. Ma aveva il grandissimo inconveniente di essere poco praticabile e disdicevole per una persona religiosa. Purtroppo Padre Viva sembrava non riconoscerlo[36]. Traspare dallo scritto dello storico Jouanen una aperta critica nei confronti dell’operato del gesuita salentino che se pur retoricamente attenuata circa le modalità di realizzazione di questo progetto e l’agire “imprenditoriale” del religioso, tuttavia non ritiene il fare di Viva conforme alla prassi della Compagnia. Comunque, convinto del da farsi, Viva, cominciò a predisporre i preparativi per la spedizione. Innanzitutto era necessario reperire i fondi, sia per pagare i soldati, sia per acquistare gli strumenti, i tessuti e i gioielli necessari per ricompensare gli indios. Avendo ricevuto l’incarico di Procuratore delle Missioni, approfittò dell’occasione che il suo compito gli offriva per raccogliere una buona quantità di mallo e di cacao, insieme ad un po’ di vaniglia. Sebbene non riservasse un solo centesimo a sé né a nessun altro membro della Compagnia, la condotta di Padre Viva non fu conforme alla prassi e alle leggi della Compagnia stessa. Se non si può essere sicuri che agisse in buona fede, però, gli si può almeno concedere il beneficio del dubbio. Fu così nominato Superiore delle missioni e comunicò il suo progetto al Vescovo e Presidente dell’Audiencia, Don Antonio de Munive[37]. Viva però sebbene non supportato dalla Compagnia, poteva vantare un incarico diretto dalla Corona spagnola, tanto che il Re di Spagna emana in data 13 dicembre 1694 la cedula regia che autorizza Viva ad essere affiancato dai soldati per “ridurre” i Jivaros / shuar[38].
Non mancarono da subito delle perplessità circa il progetto del gesuita tra cui quelle del padre visitatore Diego Francisco Altamirano (Madrid,1625-Lima, Perú, 1715) che non era a Quito quando fu dato il placet dalle autorità secolari. Sconsolate le conclusioni scritte il 16 novembre 1696 da padre Gaspar Vidal, che prese parte alla missione di Viva e ne constatava l’insuccesso. Dopo mezzo decennio di infruttuosi combattimenti, dice Vidal, “non è possibile obbedire a quanto comandato, vedendo e toccando lo stato attuale delle missioni, così tumultuose, stanche, smarrite ed esasperate dai Jivaro… In 5 anni, 1.360 Jivaro sono stati fatti uscire dal nascondiglio, ma quale beneficio spirituale è stato ricevuto? … Di questi prigionieri, molti si sono impiccati e si disperano, altri, disgraziati, si sdraiano per morire, non volendo mangiare e bere, altri, si infilano dei bastoncini in gola e annegano. Alla fine, i Jivaro sono come animali bruti”[39].Altrettanto sconsolata è la riflessione di padre Lucero che abbiamo visto tentare per primo di persuadere i Jivaro: “I Jíbaros sono sulle loro montagne, più difficile che mai da conquistare, a causa dei rancori che hanno ricevuto con il pretesto di conquistarli. E sebbene più di 700 persone sono state portate via con la forza delle armi, morti la maggior parte dei prigionieri nelle mani dei soldati che li ricevevano come compenso per il loro lavoro […] in questo si è risolto l’impegno del padre Viva, che promise la conquista ma che a conclusione del suo mandato ci ha portato sul punto di perdere le missioni”[40]. La fallimentare
campagna e dappiù l’età avanzata di Viva avevano portato nel 1695 il visitatore Padre Altamirano, che annunciava la visita ai missionari in una lettera del 10 ottobre di quell’anno, a nominare allo stesso tempo Padre Enrique Richter Superiore al posto di Padre Francisco Viva[41]. Di fronte al risultato praticamente nullo di questa spedizione, così accuratamente preparata, si dice che il viceré del Perù, rendendosi conto dell’inefficacia di tali tentativi, proibì simili incursioni per il futuro[42]. Il “giovane quanto entusiasta gesuita napoletano”, come lo definisce Livi Bacci[43], aveva in cuor suo lo scopo di convertire i Shuar, consapevole che l’entrada aveva anche dei costi economici ed aveva pensato alle modalità di autofinanziamento della missione, come lo stesso riferisce, attraverso il commercio della corteccia di china, la “cascarilla de Loja”[44]. Nell’ultimo decennio del XVII secolo il commercio della corteccia era così elevato che nessun mercante disponeva di un prodotto di buona qualità. Grazie alla scoperta di un nuovo bosco, Viva era il solo sul mercato a poter disporre di “50 muli di cascarilla”[45]: “Haviendo embiado a Napoles por medio del P. Juan Martinez Rubio una mula de Cascarilla de Loja a mi hermano par regalos a los amigos”, dice[46]. Con il commercio della china si sarebbero potuti realizzare favolosi guadagni con i quali reclutare le forze militari e acquistare oro argento e armi per combattere contro i Jivaros e ridurli all’obbedienza: “Ho mandato caballeros de Loja e alcuni indios sulle montagne per raccogliere circa 50 mula di corteccia, che valgono in Italia 20.000 libbre e col permesso di V[ostra] R[everenza] li ridurrò in zurrones e li porto a Paita […] invio al P. rettore di Panama che con l’Armada li invia a Cadiz al fratello Lorenzo Hortiz […] e lui a mio fratello a Napoli[47] […] e mio fratello di Napoli li convertirà in plata…Con tutte queste disposizioni… avrò il necessario per reclutare 40 missionari e contrattare due barche e cédulas, ed avrò corteccia, cacao, vaniglia e altre cose da offrire ai consiglieri…E per la trattativa a Madrid con Sua Maestà e il Consiglio ho un’altra disposizione: sappi che vicino alle nostre Missioni ci sono i Jibaros, una nazione che si ribella da 90 anni in quelle montagne dove c’è è tanto oro”[48].
Viva aveva chiesto ai suoi superiori nel 1689 di essere inviato come procuratore in Europa per illustrare personalmente la questione ai regnanti di Spagna e soprattutto alla corte pontificia alla quale intendeva portare dei donativi per convincerli della bontà della causa, ottenendone però un diniego. La missione fu compiuta da un altro gesuita, il già citato Diego Francisco Altamirano. Per ironia della sorte, dalla pianta sul cui commercio il gesuita basava la sua strategia, nell’Ottocento verrà estratto il chinino come rimedio più efficace proprio contro la malaria che colpì lo stesso Viva alla vigilia di una entrada, costringendolo temporaneamente a ritirarsi nella città di Jaén per curarsi. Ai missionari gesuiti erano note le proprietà della corteccia della chinoa ridotta in polvere, ossia il chinino o la china, tanto conosciuta già nel XVII secolo per le sue proprietà febbrifughe e per questo anche conosciuta come “polvere dei gesuiti”. Molto probabilmente a introdurla in Italia fu il gesuita procuratore del Peru Bartolomé Tafur (1589-1665) che nel 1646 la portò a Roma, dove Pietro Paolo Pucciarini (o Puccierini), speziale del Collegio Romano, la somministrò al gesuita cardinale Juan de Lugo (1583-1660) con effetti altamente positivi, tanto che è pure altrimenti nota come “polvere del Cardinale”[49]. Numerose sono le implicazioni di carattere storico-antropologico che potrebbero essere chiamate in causa. Come scrive Cantù, «i gesuiti non si fecero assertori di una conversione imposta con la forza militare; tuttavia non rifuggirono dal concepire il ricorso al timore delle armi come possibile e utile strumento nei territori ostili”[50]. Gli stessi storici della Compagnia, come già documentato, se pur riconoscono in Viva “il desiderio di miglioramento temporale e spirituale degli indiani” devono constatare il totale fallimento della sua iniziativa. In effetti, in una impostazione genericamente apologetica se non agiografica propria delle fonte ecclesiastiche, gli stessi ignaziani non hanno mancato di criticare il suo l’operato. Possiamo concludere che quella di Viva, per citare Muratori, non fu certo una pagina di cristianesimo felice nelle missioni de’ padri della Compagnia di Gesù.
APPENDICE
Traduzione di Benedetta Vincenti
Risposta al Tribunale di Quito riguardo gli indios jivaros (barbari)
Il re: “Presidente e ascoltatori del mio Tribunale della città di S. Francisco della provincia di Quito; nella lettera del 25 gennaio dello scorso anno, 1691, dando seguito a ciò che vi avevo ordinato nella Cedola del 26 novembre del 1687, ovvero conferire con il vescovo di questa città circa i mezzi che fossero più convenienti affinché si attuasse la riduzione e la pacificazione degli indios jivaros, richiedeste un rapporto ai religiosi della Compagnia di Gesù che svolgono le missioni più vicine ad essi, e specialmente a Francisco Viva, Prefetto di queste missioni, che in precedenza avevate richiesto a Juan Alonso Luzero, missionario che fu a capo della riduzione degli indios per più di 30 anni, esprimendo dettagliatamente quello che dissero tali religiosi, nonché l’impossibilità della pacificazione e riduzione degli indios a causa della loro natura selvaggia, rudezza e incapacità di controllare quella terra.
Sulla base dei rapporti e dello stato delle cose, vi incontraste con il vescovo e con il summenzionato Francisco Viva, e dopo aver stabilito questo affare, sembrò che l’unico modo per attuare la pacificazione fosse esiliare le famiglie dei jivaros con il fine di attuare le missioni apostoliche attraverso quelle che la Compagnia svolge nel Marañón. In merito a ciò, il suddetto Francisco Viva, in quanto sovraintendente di tali missioni, chiese che gli si desse l’autorizzazione per esiliare questi ultimi e l’ordine affinché il dottore Geronimo Baca de Vega, governatore di Maynas e Marañón, lo aiutasse con della gente per l’entrada. Con tale disposizione avrebbe svolto il suo compito a sue spese, senza nessun costo per il mio Tesoro, fino a quando non si fosse raggiunta la riduzione ad un anno e mezzo.
Convenuta l’Assemblea, sembrò che gli si dette l’autorizzazione che chiedeva, e si ordinò al suddetto governatore di Maynas e Marañón che lo aiutasse con gente che non avrebbe dovuto ricorrere all’uso delle armi, né avrebbe ecceduto nel diritto alla difesa personale, come stabilito dalla legge.
Vi mandai tutto per mezzo della citata autorizzazione, poiché ciò era contenuto nei documenti che avevate inviato e dei quali mi diede conto il vescovo di questa città nella lettera dell’8 novembre 1860.
Ed ora don Pedro de Cismeros, che ho nominato governatore di Quijos, mi ha informato che gli indios jivaros si trovano vicino al confine con quel governo, e che, per anticipare il tutto, inizierà con la pacificazione di questi e fonderà nuovamente la città di Logroño. Per portare a termine tale obiettivo, costituirà e lavorerà al fianco di una compagnia di 100 uomini nella città di Cuenca e Riobamba, poiché queste sono le popolazioni più vicine. Con tale fine, si invierà il governatore del Maynas, affinché la sua giurisdizione, che confina con tali indios jivaros, entri contemporaneamente alla compagnia per ostacolare la ritirata, che è stata tentata in altre occasioni.
Avendomi supplicato che gli concedessi l’autorizzazione per costituire tale compagnia, vi ordino di prestare il sostegno e l’assistenza richiesta. Avendo visto presso il Consejo de las Indias gli atti e i rapporti che mi avevate inviato in precedenza, considerando il vescovo della cattedrale di questa città e ciò che il mio Procuratore disse e chiese, sembra essere stato approvato, come approvo io stesso ora, il mezzo che voi sceglieste per incaricare Francisco Viva della Compagnia di Gesù di esiliare tali indios attraverso la missione che questa religione svolge a Marañón.
Vi ordino di prestare molta attenzione agli effetti che ciò produrrà. E poiché nei suddetti rapporti si riconosce l’impossibilità di raggiungere l’obiettivo con mezzi gentili, e inoltre a causa di imprevisti il tale Francisco Viva potrebbe non portare assolutamente a termine la missione di riduzione degli indios jivaros, vi ordino che, tenendo presente tutto ciò che offre don Pedro de Cismeros, consultiate e vi confrontiate con il mio viceré di tali provincie circa il modo di eseguire quanto sopra detto. Una volta che il viceré avrà approvato il tutto, istruirete don Pedro de Cismeros circa quanto è stato deciso e circa le modalità per realizzarlo. E nel caso in cui Francisco Viva continui con la riduzione, tratterete con lui per capire se sia conveniente che il governo di Quijos lo doti di una scorta, come accadde per il governatore dei Maynas. In tal caso, permetterete a don Pedro de Cismeros di riunire 100 uomini, o quelli che fossero necessari per tale scorta, dando, nell’uno e nell’atro caso, l’aiuto richiesto e affinché si faciliti questa riduzione e si scorti Francisco Viva per le due entradas della provincia dei jivaros.
E confidando nel vostro zelo nell’essere al mio servizio, provvederete a far sì che si attui tale riduzione, affinché convenga al servizio di Dio e mio, ricondurre al gregge della nostra Santa Fede tutti coloro che sono apostati, così che si possa andare avanti con le missioni di riduzione degli indios gentili che verranno.
Tuttavia, sarete avvertiti del fatto che, qualsiasi mezzo impiegherete per formare la scorta, o le scorte, si impiegherà solo per guerre difensive, con l’obiettivo di proteggere la predicazione evangelica, senza infliggere torture agli indios che si vogliono ridurre, ma attraverso mezzi gentili di persuasione permessi dalla Chiesa.
Se rimanessero vivi alcuni degli apostati, si potrà obbligarli a riavvicinarsi alla Chiesa. Mi informerete di tutto ciò che farete e degli effetti che produrranno i mezzi scelti tra quelli sopraindicati, affinché io sia aggiornato, nonché delle disposizioni che convengano; e incarico, attraverso la cedola di tale data, il vescovo della Cattedrale di questa città affinché assista e contribuisca per quanto gli compete.
In
data 13 dicembre 1694, Madrid. Io, il re, cedolario del Tribunale di Quito,
tom. 4°, — p. 293.
[1] G. Barrella, I Gesuiti nel Salento. Appunti di storia religiosa da documenti editi ed inediti pubblicati in occasione del III Centenario dalla morte del B. Bernardino Realino apostolo e compatrono di Lecce (1616-1916), pt. I, Lecce, Tipografia Giurdignano, 1918, p.77; Idem, I Gesuiti nel Salento, in M. Volpe, I gesuiti nel Napoletano. Note ed appunti contemporanei da documenti inediti e con larghe illustrazioni (1814-1914), Vol. III, Napoli, Tipografia editrice Pontificia M. D’Auria, 1914-1915, p. 424; “HS50 64r Quit.”, in J. Fejér S.I., Defuncti secundi saeculi, Societatis Jesu 1641-1740, Volumen V, S-Z, Roma, 1990, p. 284.
[2] G. Barrella, I Gesuiti nel Salento, cit.; Idem, Profili Gesuitico-salentini, in M.Volpe, I gesuiti nel Napoletano, cit.;“HS50 119v Neap.”, in J. Fejér S.I., Defuncti secundi saeculi, cit. Francesco si riferisce a lui in una lettera, scrivendo “mio fratello a Napoli”: Arsi, N.R.- Q. [sta per Archivium Romanum Societatis Iesu, Novo Regno et Quito]15, doc. 31, f. 231r. Sui lasciti pii di Francesca Bozomo ai Celestini si veda Aldo Caputo, I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, Galatina, ediPan, 2008, p.51 e dello stesso autore, In umbelico Civitatis. Profilo storico e note archivistiche dei Teatini di Lecce, Castiglione, Giorgiani Editore, 2018, p. 87.
[3] U. Dovere, Domenico Viva, in Dizionario biografico degli Italiani, Volume 100, 2020 (on line), e “Neapo1i 24 aug 1667 HS48 6lv Neap”, in J. Fejér S.I., Defuncti secundi saeculi, cit. Girolamo Viva, come scrive Gino Pisanò, fu tra i gesuiti “pretoriani della riforma tridentina” che collaborarono attivamente con il vescovo leccese Pappacoda come Esaminatori nel processo di tridentinizzazione delle diocesi salentine: G. Pisanò, La cultura a Lecce nell’età del Pappacoda (1639-1670), in L. Cosi e M. Spedicato, Vescovi e città nell’epoca barocca, Volume II, Una capitale di periferia. Lecce al tempo del Pappacoda, Atti del Convegno Internazionale di studi Lecce 26-29 Settembre 1991,Galatina, Congedo, 1995, pp. 103-104.
[4] U. Dovere, Dizionario biografico degli Italiani, cit. Il 20 novembre del 1711 è tra i firmatari in qualità di “Procurator Neapolitane” della “Dichiarazione del Generale Tamburini a papa Clemente XI, come sottomissione di tutta la Compagnia per la questione dei riti cinesi (Tipi Reverenda Camera Apostolica, 1711)”: F. Martelli, Michelangelo Tamburini XIV Generale dei Gesuiti, Formiggine, Golinelli Editore, 1994, p. 94.
[5] J. P. Gay, Jesuit Civil Wars: Theology, Politics and Government Under Tirso González (1687–1705), Rouledge, London and New York, 2012, pp. 283-288. E. Colombo, Un gesuita inquieto. Carlo Antonio Casnedi (1643-1725) e il suo tempo, Soveria Mannelli, Rubettino, 2006, p. 199; inoltre si veda E.
Narciso, Illuminismo e cultura cattolica sannita nel secolo XVIII, in Illuminismo meridionale e comunità locali, a cura di Enrico Narciso, Napoli, Guida editori 1988, pp. 26-37.
[6] U. Dovere, Dizionario biografico degli Italiani, cit. Ignazio Viva è segnalato tra gli Arcadi come “Verino Agroterco” in Raccolta di componimenti in lode di sua eminenza il cardinale d. Arrigo Enriquez per la di lui promozione al cardinalato indiritta al medesimo da Giacinto Viva consolo dell’Accademia de’ Spioni di Lecce, Lecce: dalla stamp. di Domenico Viverito, 1754, p. G. M. Crescimbeni, Dell’istoria della volgar poesia, scritta da Giovanni Mario Crescimbeni Volume sesto, in Venetia MDCCXXX Presso Lorenzo Basegio, p. 416. Su di lui anche A. Polito, Gli Arcadi di Terra d’Otranto: Ignazio Viva di Lecce, https://www.fondazioneterradotranto.it/. Su Domenico, Giacinto e Ignazio Viva si vedano anche le relative voci in C. Stasi, Dizionario enciclopedico dei salentini, Tomo 2, M-Z, Lecce, Edizioni Grifo, 2018, pp. 1141-1142. Sul casato dei Viva si veda la relativa vocein L. Montefusco, Nobiltà nel Salento. Vol IV (Q-Z),Lecce, Istituto Araldico Salentino “Amilcare Foscarini”, testo a stampa, 2002, pp. 264-268.
[7] S. Boumediene, Jesuit recipes, Jesuit receipts: the Society of Jesus and the introduction of exotic materia medica into Europe, in Cultural Worlds of the Jesuits in Colonial Latin America, a cura di Linda A. Newson, Institute of Latin American Studies, University of London Press, 2020, pp. 244-245.
[8] Ibidem.
[9] A.C. Taylor, P. Descola, El conjunto jívaro en los comienzos de la conquista española del Alto Amazonas, in «Bulletin de l’Institut Français d’Études Andines», tome 10, n.3-4, 1981, pp. 7-54. C. Lane, Quito 1599: City and Colony in Transition, Albuquerque, University of New Mexico Press, 2002, pp. 146-149. Nel 1542 Francisco de Orellana fu il primo dei conquistadores ad entrare in contatto con i Jivaros i quali pur vivendo in gruppi separati si compattavano nel momento di attaccare, come successe nel 1599. J. P. Costa, Indiens Jivaro. Histoire d’une morte programmée, Monaco, Edition du Rocher, 1997, pp. 24-27. M. J. Harner, The Jivaro, People of the Sacred Waterfalls, Berkeley, University of California Press, 1972, p. 25. «Probabilmente dal XVII secolo fu imposta la variante “Jíbaro”, che ha le sue origini nello spagnolo-portoricano. Qui il significato del termine è “selvaggio” o “barbaro” ed ha chiaramente un carattere peggiorativo», spiega Anna Meiser in El indígena cristiano: estrategias de la apropiación, in Antropologías hechas en Ecuador. Antología-volumen II, a cura di S. Fernando García, B. José, E. Juncosa, I. Catalina Campo, R. Tania González, Asociación Latinoamericana de Antropología Editorial Abya-Yala, Universidad Politécnica Salesiana, Quito Ecuador, 2022, p. 137. Per le fonti d’epoca relative alle rivolte indigene si rinvia allo studio dello storico ecuadoregno C. Landázuri, La Gobernación de los Quijos (1559-1621), Quito, Marka, Instituto de Historia y AntropologíaAndina, 1989. Varie le denominazioni di questo popolo che si incontrano fra i diversi autori: Jibaro, jivaro, Jvaro, Xivaro, Givaro; tuttavia l’etnonimo corretto è Shuar. Essi sono stati quelli che più di altri hanno resistito all’occidentalizzazione, nonostante i ripetuti tentativi di sottometterli e ridurli da parte delle missioni cattoliche, anche manu militari. Nel presente scritto viene riportata la denominazione usata dai vari autori, diversamente Shuar. I Shuarsono oggi confinati nel sud ovest della foresta Amazzonica, nella zona dell’Ecuador e in una parte del Perù. Luis Sepúlveda è stato un appassionato difensore della loro cultura tanto da fare protagonista de Il vecchio che leggeva romanzi d’amore uno shuar, Antonio José Bolívar Proaño, e il libro stesso è dedicato “Al mio amico lontano Miguel Tzenke, sindaco shuar di Sumbi, nell’alto Nangaritza, grande difensore dell’Amazzonia”.L. Sepùlveda, Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, Parma, Guanda editore, 1989.
[10] M. J. Harner, The Jivaro, People of the Sacred Waterfalls, cit., p. IX.
[11] P. T. Conde, Los yaguarzongos: Historia De Los Shuar De Ecclesiatici, Edicion Mondo Shuar, 1981, p. 49. J. Bottasso, Los salesianos y la educación de los Shuar 1893-1920. Mirando más allá de los fracasos y los éxitos, in L’educazione salesiana dal 1880 al 1922. Istanze ed attuazioni in diversi contesti, Volume II, Relazioni regionali: America, a cura di Jesús Graciliano González, Grazia Loparco, Francesco Motto, Stanisław Zimniak, Atti del 4° Convegno Internazionale di Storia dell’Opera salesiana Città del México, 12-18 febbraio 2006, Roma, Libreria Ateneo Salesiano, 2007, pp. 237-249. Cfr. J. P. Costa, Indiens Jivaros Historie d’un morte programmé, cit., p. 27 I nuovi missionari portavano con sè il risultato di un approccio più attento della Chiesa in America latina. Nel 1858, per volere di Papa Pio IX, venne fondato a Roma il Collegio Latinoamericano. B. Juncosa, E. José, Civilizaciones en disputa: Educación y evangelización en el territorio Shuar, Quito, Editorial Abya-Yala, 2020, p. 86. Per iniziativa dei salesiani dell’Ecuador nel 1977 nasce la collana editoriale “Mondo Shuar” da cui prende le mosse la casa editrice “Abya-Yala”. A. Colajanni, L’attività missionaria salesiana tra gli shuar dell’Ecuador. Interessi antropologici e strategie di promozione del cambiamento socio-culturale, in In nome di Dio. L’impresa missionaria di fronte all’alterità, a cura di Flavia Cuturi,Roma, Meltemi, 2004, pp. 167-169.
[12] Su Nicola Lanzamani (Napoli 1659 – San Javier de Gayes – Loreto, Perú 1707), si veda la voce a cura di J. Villalba, in Diccionario histórico de la Compañía de Jesús:Biográfico-temático. T.II, a cura diDomínguez, Joaquín María, e Charles E. O’Neill, Costa Rossetti-Industrias, Roma, Institutum historicum S. I., Madrid, Universidad pontificia Comillas, 2001, p. 1170.
[13]J. de Velasco, Historia moderna del Reyno de Quito y crónica de la Provincia de la Compañía de Jesús del mismo Reyno, Tomo I 1550-1685, Quito, Imprenta Caja de Seguro, 1941, p. 382.
[14]Ivi, p. 370.
[15] Come sottolinea Prosperi, “Di padri e intere famiglie in guerra contro la scelta dei giovani è piena la tradizione di racconti di vocazione”: A. Prosperi, La vocazione. Storie di gesuiti tra Cinquecento e Seicento, Torino, Einaudi, 2016, p. 149. Inoltre si vedano G. Roscioni, Il desiderio delle Indie. Storie, sogni e fughe di giovani gesuiti italiani, Torino, Einaudi, 2001, p. 154 e E. Colombo, M. Massimi, In viaggio – Gesuiti italiani candidati alle missioni tra Antica e Nuova Compagnia, Milano, Ed Il sole 24 ore, 2014, p. 117.
[16] J. de Velasco, Historia moderna del Reyno de Quito y crónica de la Provincia de la Compañía de Jesús del mismo Reyno, cit.,p. 382.
[17] “Giovane di carattere ardente e intraprendente, aveva chiesto di accompagnare padre Lucero”, afferma J. Jouanen, in Historia moderna del Reyno de Quito y crónica de la Provincia de la Compañía de Jesús del mismo Reyno Tomo I 1570-1774, Quito, Imprenta Caja de Seguro, 1941, pp. 512-513. Su Padre Gaspar Lucero (1620-1693), la voce a cura di José del Rey Fajardo, S. J., in Nomenclátor biográfico de los jesuitas neogranadinos:1604-1831 Vol A- L tomo I, Bogotà, Pontificia Universidad Javeriana, 2020, p. 959. https://ucab.academia.edu/Jos%C3%A9delReyFajardo
[18] Ivi, pp. 483-484.
[19] A. Alvarez López, En busca de la memoria perdida. Samuel Fritz y la fundación de Yurimaguas, Segunda edición, Iquitos Perú, Editora La Región SAC, 2015, p. 134.
[20] Catálogo de la provincia del Nuevo Reino y Quito de 1687, n. 222; ARSI, N. R. et Q. 4., cit. in J. Manuel Pacheco, S. I., Los jesuitas en Colombia, Bogotá, D.E., Editorial “San Juan Eudes”, 1959-1989, p. 478, nota 40. ARSI, NR et Q, 15, i, f.133v “El P. Francisco Viva al P. Renteriale da quenta del estado de la misión del Marañón”, Jeberos, 15 set.1687, f. 133v., cit. in F.A. Lopes de Carvalho, Entradas missionárias e processos étnicos na Amazônia: o caso das missões jesuíticas de Maynas (1638-1767), in «Anos 90», Porto Alegre, V. 23, n. 43, p. 357, nota 54.
[21] A. Astrain, Historia de La Compania de Jesus En La Asistencia de Espana, Volume 6, 1652-1705, Madrid, Administración de Razón y Fe, 1920, p. 626.
[22] J. Chantre y Herrera, Historia de las misiones de la Compañia de Jesús en el Marañón español, Madrid, Imp. de A. Avrial, 1901, p. 303.
[23] ARSI, NR et Q, 15, i, f. 231v, “Propuesta del P. Fracesco Viva hecha en la ciudad de Pasto al P. Diego Fra.co Altamirano, visitador del Nuevo Reyno, en diciembre de 1689”, cit. in F.A. Lopes de Carvalho, Entradas missionárias e processos étnicos na Amazônia: o caso das missões jesuíticas de Maynas, cit.,p. 358, nota 59. Delle ricchezze nelle terre dei Shuar ancora si favoleggiava nel XIX secolo; è del 10 agosto1817 la “Carta del marqués de la Concordia, Virrey que fué del Perú, a José García de León y Pizarro, Secretario de Estado, dando cuenta de las medidas que tomó para catequizar a los indios jivaros confinantes con la provincia de Cuenca de Quito, que hacía 200 años se alzaron acabando con todos los españales varones y con la ciudad de Logroño, cabeza de partido. Habla también de los ricos productos del país que habitan”, in ES.41091.AGI [sta per Archivio General de Indias – Siviglia]/22//ESTADO,74, N.50 https://pares.mcu.es/ParesBusquedas20/catalogo/description/66652?nm
[24] Documento n. 373, 1690, Indices-extractos de los documentos nos. 249 a 462 desde 1670 a 1699 del Archivo Nacional de Historia, in «Boletino del Archivo Nacional de Historia»,Quito,Casa de la Cultura Ecuatoriana, Anno dicembre 1950, n. 2, p. 315. Latacunga è una città a 90 Km da Quito. Il Corregidor de indios amministrava la giustizia e proteggeva i nativi dai soprusi esterni; il doctrinero era il parroco o missionario che doveva invece trasmettere la dottrina cristiana e rendere possibile l’evangelizzazione. Cfr. L. Guarnieri Calò Carducci, La società coloniale, inIdentità del Nuovo Mondo, a cura di Francesca Cantù, Roma, Viella, 2007, p. 124.
[25] Cit. in F. Piñas Rubio S. I., Resumen del Archivo de los Jesuitas del Colegio Máximo en la Real Audiencia de Quito, Alicante, Biblioteca Virtual Miguel de Cervantes, 2011, p. 75.
[26] J. Chantre y Herrera, Historia de las misiones, cit., p. 304.
[27] A. Astrain, Historia de La Compania de Jesus En La Asistencia de Espana, cit., p. 627, nota 1.
[28] Popolazione diversa dai Jivaros
[29] Il Pongo de Manseriche è una gola lunga 2 km e larga in qualche punto solo 50 m, attraverso cui il Rio Maranon scorre in pianura segnando la fine delle Ande e l’inizio del bacino amazonico.
[30] A. Astrain, Historia de La Compania de Jesus En La Asistencia de Espana, cit., p. 627.
[31] R. Karsten, La vida y la cultura de los Shuar. Cazadores de cabezas en el Amazonas occidental. La vida y cultura de los jíbaros del este delEcuador, Quito, Ediciones Abya-Yala, 2000, p. 20.
[32] M. Livi Bacci, Amazzonia. L’impero dell’acqua 1500-1800, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 119 e 122.
Nella regione di Maynas tra Ecuador e Perù l’esperienza delle riduzioni non ebbe successo come in Brasile e Paraguay. Quella delle reducciones fu una forma di “violenza protettiva” perché gli indios se da una parte furono costretti a vivere nelle missioni, cristianizzati con la forza, d’altro canto venivano con ciò sottratti alle grinfie dello schiavismo di spagnoli e portoghesi. F. Cuturi, Reductium ad unam linguam, la violenza protettiva delle riduzioni gesuitche, in Adattarsi, modellare e convertire in nome di Dio. L’impresa missionaria di fronte all’alterità, a cura di Flavia Cuturi, Roma, Meltemi editore, 2004, pp. 77-89. L’opera missionaria, al netto della bontà o meno dei singoli, è stata, come scrive Cantù per il Perù, una “deculturazione della popolazione nativa”. F. Cantù, La conquista spirituale. Studi sull’evangelizzazione del Nuovo Mondo, Roma, Viella, 2007, p. 224.
La regia cedula del 26 novembre1687 aveva già conferito al Vescovo di Quito i mezzi che erano più convenienti per la “riduzione e la pacificazione” degli indios Jivaro. Questo documento è citato a sua volta nella cedula del 13 dicembre1694 che come vedremo conferisce pieno titolo a Viva di ridurre i jivaro.
[33] S. Fritz, Journal of the travels and labours of Father Samuel Fritz in the river of the Amazons between 1686 and 1723 Translated from the Evora ms and edited by the rev dr George Edmundson, London, Printed for the Hakluyt Society, 1922, p.78. Fritz ebbe un importante incarico affidatogli dall’ignaziano leccese il quale scriveva a padre Renteria: «sapendo con certezza che i portoghesi del Brasile hanno conquistato molte nazioni gentili, e che sono già vicini alle nostre missioni, per questo ho deciso di inviare padre Samuel Fritz con l’ordine di impossessarsi in nome del re di Spagna e della Compagnia [di Gesù] di una o due nazioni [indigene] tra noi e i portoghesi, prima che vadano a prenderle nel nome del re del Portogallo»: ARSI, NR et Q, 15, i, ff. 133-134,“El P. Francisco Viva al P. Rentería” Jeberos, 15 September 1687, cit. in F.A. Lopes De Carvalho, Between Captivity and Conversion: Spanish Jesuits, Portuguese Carmelites, and Indigenous Peoples in Eighteenth-Century Amazonia, in Rivers and Shores:‘Fluviality’ and the Occupation of Colonial Amazonia, a cura di R. Chambouleyron, L. Costa e Sousa, Peterborough, Ontario, Canada: Baywolf Press, 2019, pp. 140-141. Viva agisce anche come garante degli interessi geo-politici spagnoli lungo il limes dei dominios iberico- lusitani e secondo questa chiave di lettura va vista anche la campagna per la pacificazione e riduzione dei Shuar, come fa S. G. González, Frontera selvática. Españoles, portugueses y su disputa por el noroccidente amazónico, siglo XVIII, Bogotà, Instituto Colombiano de Antropología e Historia, 2014, pp. 86-92.
[34] A. Astrain, Historia de La Compania de Jesus En La Asistencia de Espana, cit., p. 628.
[35] Cit. in Ivi, p. 628
[36] Cfr. J. Jouanen, Historia de la Compañía de Jesús en la antigua provincia de Quito, cit., p. 514.
[37] Ivi, p. 514.
[38] Cedulario de la Audencia de Quitto tomo 4, p. 293, Francisco Javier Hernaez, Coleccion de Bulas, Breves y otros Documentos relativos a la Iglesia de America y Filipinas dispuesta, anotada e ilustrada por el P. Francisco Javier Hernaez, Volume 1, Brusellas 1879, pp. 31-32. Si veda all’Appendice per la versione integrale.
[39] Arch. del Col. de. Quito, Informe del F. Gaspar Vidal sobre Givaros, 16 Noviembre 1696, cit. in A. Astrain, Historia de La Compania de Jesus, cit., pp. 627-628.
[40] Carta do padre Juan Lorenzo Lucero, 30 jun. 1697, cit. in J. Jouanen, Historia moderna del Reyno de Quito y crónica de la Provincia de la Compañía de Jesús del mismo Reyno, cit.,Tomo II, 1943, p. 390.
[41] J. Jouanen, S.I, Historia de la Compañía de Jesús en la antigua provincia de Quito, cit., Tomo I, Quito, Editorial Ecuatoriana, 1941, p. 518.
[42] R. Karsten, La vida y la cultura de los Shuar, cit., p. 20.
[43] M. Livi Bacci, Amazzonia. L’impero dell’acqua 1500-1800, cit., p. 125.
[44] ARSI, N.R.-Q. 15, doc. 31, f. 231r. Loja è una località dell’Ecuador il cui corregidor nel 1638 su indicazione di un indio si curò con la cascarilla che poi inviò a Lima alla moglie del vicerè Francisca Enriquez de Rivera la quale a sua volta portò in Spagna il medicamento: da qui il suo nome di “polvere della contessa”. S. M. Acosta, La Cinchona o quina. Planta nacional del Ecuador. 17 (65): 305-311, 1989. Revista De La Academia Colombiana De Ciencias Exactas, Físicas Y Naturales, 43 (Supl), 214–220. https://doi.org/10.18257/raccefyn.1077 , p. 307.
[45] APQ, VI/526; ARSI, N.R.-Q. 15, doc. 31, f. 231v., cit. in S. Boumediene, Jesuit recipes, Jesuit receipts: the Society of Jesus and the introduction of exotic materia medica into Europe, cit., p. 245.
[46] ARSI, N.R.-Q. 15, doc. 31, f. 231r. Non possiamo escludere che Viva abbia fatto arrivare la china anche ai correligionari e familiari a Lecce.
[47] La corteccia era inviata al porto di Paita, da qui a Lima, e quindi imbarcata per la Spagna. S. Boumediene, La colonisation du savoir. Une histoire des plantes médicinales du «Nouveau Monde» (1492-1750), Parigi,Gallimard, 2016, p. 208.
[48] ARSI, N.R.-Q. 15, doc. 31, f. 231r., cit. in S. Boumediene, Jesuit recipes, Jesuit receipts: the Society of Jesus and the introduction ofexotic materia medica into Europe, cit., pp. 244-245. Juan Martinez Rubio (1627-1709), nel settembre 1695 fu eletto Procuratore e inviato a Roma e Madrid. AGI. Santafé, 33. Carta del P. Altamirano al Presidente Cabrera y Dávalos, septiembre 1695, cit. in Juan Martinez Rubio, a cura di José del Rey Fajardo, S. J., in Nomenclátor biográfico de los jesuitas neogranadinos: 1604-1831, vol A- Z tomo II, Bogotà, Pontificia Universidad Javeriana, 2020, pp. 69-73.
[49] M. B. M. Italiani, Malaria china-china e P.P. Puccierini «Speziale del Collegio Romano», in Lunario Romano Seicento e Settecento nel Lazio, a cura di Renato Lefevre, Roma, F.lli Palombi Editore, 1980, p. 82. Cfr. R.G. Villoslada, Storia del Collegio Romano dal suo inizio (1551) alla soppressione della Compagnia di Gesù (1773), in «Analecta Gregoriana», v. 66, Roma, 1954, p. 220. Come scrive Cosmacini, a Roma di fatto la Compagnia di Gesù deteneva il monopolio del commercio della corteccia peruviana. G. Cosmacini, La medicina dei Papi, Bari, Laterza, 2018, p. 114. Come fa notare Romano, nel sistema economico coloniale dell’America Latina in età moderna gli ignaziani hanno rappresentato un “organismo economicamente ponderoso”: R. Romano, America latina. Elementi e meccanismi del sistema economico coloniale (secoli XVI-XVIII), a cura di Marcello Carmagnani, Torino, Utet, 2007, p. 312. Brevaglieri spiega che nella Roma barocca l’apporto economico di spezie e piante esotiche provenienti dalle terre missionarie aveva rilanciato il ruolo degli speziali “aromatari” negli istituti religiosi: “la manipolazione dell’exotica e interventi di cura si intrecciavano poi strettamente con lo slancio missionario”: S. Brevaglieri, Naturale desiderio di sapere, Roma Barocca fra vecchi e nuovi mondi, Roma, Viella, 2019, p. 157.
L’uso della polvere fu oggetto di dibattito nel mondo medico-accademico tra posizioni contrastanti; non mancò chi assunse un atteggiamento pragmaticamente più moderato, come appunto lo scienziato armeno e salentino d’adozione Giorgio Baglivi (1668-1707) che non considerava il medicamento come un panacea, mettendone in discussione l’efficacia, per la cura delle febbri malariche (paludismo): Georgii Baglivi, Opera omnia medico-practica et anatomica, Sumptibus Anisson, & Joannis Posuel, Lugduni (Lyon), 1704, pp.51-59. Poiché la pulvis era stata connotata appunto come “gesuitica”, questo alimentava certi pregiudizi; per esempio si narra che Talbor, l’archiatra di Carlo II d’Inghilterra, si rifiutasse di somministrare al sovrano il medicamento “papista”: F. Rocco, The Miraculous Fever-Tree, London, HarperCollins, 2003, p. 102. Per un sintetico quadro sulla diffusione della chinoa officinalis e sul dibattito circa l’uso della stessa, si rinvia a Storia delle scienze – Storia della biologia e medicina,a cura di Giuseppe Montalenti, Volume Terzo, Tomo I, Torino, Utet, pp.229-230. Montalenti evidenza che “I Gesuiti importarono in Europa il prezioso farmaco traendo dal suo commercio lauti guadagni”: Ivi, p. 230, e Giorgio Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia Dalla peste nera ai giorni nostri, Bari, Laterza, 1987, pp.129-132. Per la stesura di questa nota gli autori ringraziano la Prof.ssa Gabriella Sava (Unisalento).
L’uso della polvere fu oggetto di dibattito nel mondo medico-accademico tra posizioni contrastanti non mancò chi assunse un atteggiamento pragmaticamente più moderata alla luce delle constatazioni pratica come fa appunto lo scienziato armeno e salentino d’adozione Giorgio Baglivi ( ) che non di certo considerava il medicamento come un panacea, pur riconoscendone l’efficacia per la cura delle febbri malariche ( paludismo) Georgii Baglivi, Opera omnia medico-practica et anatomica, Sumptibus Georgii Baglivi, Opera omnia medico-practica et anatomica, Sumptibus Anisson, & Joannis Posuel, Lugduni (Lyon) 1704. cfr pp., Poiché la pulvis era stata connotata appunto come “gesuitica”, questo alimentava certi pregiudizi; per esempio si narra che Talbor, l’archiatra di Carlo II d’Inghilterra, si rifiutasse di somministrare al sovrano il medicamento “papista”: F. Rocco, The Miraculous Fever -Tree, London, HarperCollins, 2003, p. 102 .
Per una sintetico quadro sulla diffusione del chinoa officinalis e sul dibattito circa l’uso della stessa si rinvia a Giuseppe Montalenti ( a cura di ) Storia delle scienze.- Storia della biologia e medicina, Volume Terzo, Tomo I, Torino, UTET, cfr, pp.229-230 . Montalenti e evidenza che “I Gesuiti importarono in Europa il prezioso farmaco (traendo dal suo commercio lauti guadagni)” ivi p 230 e Giorgio Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia Dalla peste nera ai giorni nostri, Bari, Laterza 2016, pp. Per la stesura di questa nota gli autori ringraziano la Prof.ssa Gabriella Sava ( Unisalento) .
[50] F. Cantù, La conquista spirituale Studi sull’evangelizzazione del Nuovo Mondo, Roma, Viella, 2007, p. 323.
[in Non omnis moriar. Studi in memoria di Giacomo Filippo Cerfeda, a cura di Mario Spedicato, Società Storia Patria Sezione Lecce, Castiglione, Giorgiani Editore, 2024]