La tv fa la sua comparsa, in Italia, nei primi anni ’50 e nell’80 ha il boom con le emittenti commerciali. Da quel momento gli altri media accusano un gran colpo e sono costretti a mutare pelle, a ristrutturarsi: pensiamo alla crisi del cinema (oggi comunque superata), al trionfo dei settimanali televisivi (Radiocorriere, Sorrisi e Canzoni, Onda Tv, ecc.), ai supplementi televisivi, ma non solo, dei quotidiani (“Venerdì” di Repubblica, “Specchio” della Stampa, “Sette” del Corriere della Sera), al successo in teatro di attori lanciati dagli schermi televisivi, a quello nelle serate di gala o strapaesane dei presentatori e persino delle annunciatrici televisive.
Oggi viviamo un momento delicato. Sta entrando sempre più in crisi un modello di tv generalizzata, anche quella esclusivamente generalizzata, a fronte di una domanda sempre più forte di interattività e di individualità. L’egemonia sembra voler passare ai cosiddetti new media (computer, internet in particolare); la tv si digitalizza, si moltiplicano le emittenti tematiche (del tipo Telepiù), le tecnologie si integrano sempre più massicciamente. Tuttavia, per quanto l’informatica ci faccia intravedere scenari più o meno vicini, nei quali la tv così come la conosciamo sembra non avere più spazio, essa resta tuttora il mezzo più diffuso e più apprezzato. Sicuramente, quello che ci intrattiene più a lungo e che magari ci fa discutere anche più accanitamente.
Il linguaggio che incanta
Tutti sanno guardare la tv. O meglio, tutti credono di saperla guardare. Eppure, anche fruire di un programma richiede alcune competenze, alcune “istruzioni per l’uso”, se non vogliamo che il “guardare” rimanga a un livello molto superficiale, che rischia di lasciare in una posizione fortemente passiva e condizionatrice. Sicché nessuno si sconvolga se si afferma che non sono solo i ragazzi ad aver bisogno di alfabetizzazione mediale, cioè di un’educazione alla lettura e al consumo dei programmi televisivi (la cosiddetta Media Education), ma anche gli adulti, perché nessuno di loro è stato mai alfabetizzato al linguaggio delle immagini: la “grammatica audiotelevisiva” non è stata diffusa. Eppure quella grammatica, cioè i segni elementari con i quali si costruisce un’immagine, esiste, come esiste una “sintassi”, cioè il modo in cui i segni più semplici vengono uniti e resi discorso più complesso e come esiste una “semantica”, cioè un significato di quel discorso. Capire i contenuti non è sufficiente: forma e contenuto non vanno mai separati; dunque, per comprenderli fino in fondo, bisogna conoscere anche il modo in cui si sono offerti. Infatti, è attraverso il linguaggio (grammaticale, sintattico, semantico) che la tv “incanta”.
Storia ed evoluzione
Il linguaggio televisivo ha una sua storia ed una sua evoluzione: la tv di oggi non è più quella degli anni ‘60. Che cosa è cambiato?
Nei primi tempi era il modello teatrale a prevalere. Si trattava della tv delle origini, o veterotelevisione. I programmi avevano testi rigorosamente marcati, con confini precisi, con una coerenza interna e con un ritmo regolare: lo spazio della rappresentazione era fortemente caratterizzato e immediatamente riconoscibile (ad esempio, il teatro, lo studio tv, l’inchiesta, ecc.) e i generi (informazione, cultura, e spettacolo) erano nettamente distinti uno dall’altro. Inoltre, il “mondo quotidiano” era distante e non veniva fatto rientrare nella maniera più assoluta negli argomenti dei programmi televisivi. Questo genere di tv (che dura dal ‘54 fino alla riforma degli ultimi anni ‘70 che cancella il monopolio di Stato, con l’emittente pubblica che mirava a rivestire funzioni di servizio sociale e di divulgazione culturale) instaurava un rapporto paternalistico – didascalico col telespettatore. Il palinsesto, cioè l’organizzazione dei programmi, era rigido e la sua fruizione era rivestita di festività e di ritualità (appuntamento del giovedì sera col quiz, del sabato col varietà, del venerdì col teatro, di un’altra sera con la mitica “Tv7” o con l’altrettanto mitico “Non è mai troppo tardi”, ecc.); ma era anche una tv “pacifica”, senza concorrenza, direi monocolore nel suo manifestarsi in bianco e nero e nel suo esprimersi entro i confini ideologici o ideali del partito di maggioranza relativa.
Dagli anni ‘80 in poi, con l’affermazione della tv commerciale, si entra nell’epoca della neotelevisione. Intanto, la presenza di cattolici e laici ha già da tempo “zebrato” le trasmissioni; poi si entra in regime di concorrenza e cambia il modo di impostare il palinsesto. Muta anche il rapporto col telespettatore. Vige la “logica del flusso”, cioè di contaminazione tra informazione e spettacolo, emerge la “logica della scheggia”, cioè il frammento decontestualizzato (Blob), trionfa il contenitore (tipo “Domenica in”, oppure “Buona domenica”, ecc.). Il palinsesto domina l’intera giornata, notte compresa, permea l’intera quotidianità delle famiglie e degli individui. Nei programmi entra la vita di tutti come contenuto (pensiamo al proliferare di programmi con la presenza di “persone comuni” in studio, i cosiddetti game show e talk show, da “Amici” a “Uomini e donne”, ad “Accadde domani”, o le trasmissioni della De Filippi nelle quali gli argomenti a tema toccano non solo la quotidianità, ma persino l’intimità delle persone). Siamo ormai nel campo della “programmazione feriale”, non più “festivo – rituale”, con reticoli incrociati e anche fusi di informazione e di intrattenimento, spesso indistinguibili, com’è nel caso emblematico di “Striscia la notizia”. Non si tratta più soltanto di uno spettacolo da vedere, ma di un grande gioco, cui il pubblico è chiamato a partecipare sempre più massicciamente, in studio o da casa. Il rapporto paternalistico e verticistico tra emittente e telespettatore, tipico della paleotelevisione, è sloggiato dalla ricerca di un rapporto di fiducia con la gente, essenziale in regime di concorrenza per assicurarsi fedeltà di ascolto, indici di ascolto, livello di vendita di spot.
Siamo alla tv dei nostri giorni. Quella che vede la spettacolarizzazione di tutto, l’enfatizzazione professionalmente usata in nome dello share e strumentalmente usata, in alcuni casi, anche in nome del versante politico di appartenenza.
È appena il caso di ricordare, ad esempio, le vicende di Tangentopoli e le polemiche tuttora in corso sulla negazione di una Commissione parlamentare che se ne occupi per l’esplorazione storica, almeno, delle zone grigie che furono abitate da tutte le forze politiche italiane, fino a poco fa soltanto. O quelle dell’art. 513, che squilibrando, ad avviso degli avvocati, la dialettica accusa-difesa in sede dibattimentale del processo, in pratica avrebbe reintrodotto quel formidabile cocktail che fu napoleonico, e che era rimasto a lungo italiano, di tre quarti di rito inquisitorio, di uno spruzzo di accusatorio, e il resto decisorio. Un argomento e l’altro poi tradotti in contenitori (“Porta a porta”, “Pinocchio”, “Moby Dick”) impostati su contenuti politici, economici, giudiziari correttamente interpretati.
Ma ci sono stati casi in cui la “meditazione” giornalistica è stata dispiegata sull’enfasi spettacolare distorta, cioè sulla spirale cronaca-fiction che, partendo da un dato confuso o ambiguo, è culminata sul piano di una tensione artificiosa che poteva essere smontata e rimontata, giornalisticamente, anche con una semplice operazione di ironia. Mi riferisco, per esempio, al cosiddetto “referendum” dei leghisti in Padania.
Questo è stato il termine usato da Bossi e ripreso acriticamente da giornali e telegiornali. Solo alcuni colleghi della carta stampata lo hanno messo tra virgolette. Infatti, non era una consultazione istituzionale, non aveva i crismi e le garanzie richieste da un vero e proprio referendum. Più precisamente, era un “sondaggio” organizzato da una parte politica. Ma questo termine, sondaggio, non è comparso su alcun quotidiano, né è stato pronunciato in alcun gr o tg, mezzi di comunicazione che comunque non sono in grado di far vedere le virgolette. Cioè: alla parola referendum nessuno si è preoccupato di dare una corretta cifra lessicale e semantica. Esso è stato all’origine di una grande kermesse, dapprima montante, con le ritualità pseudo-celtiche, i mascheramenti guerrieri, le ampolle con l’acqua sorgiva di un fiume che non è sacro (al modo del Giordano) né operaio (al modo del Reno o del Volga), ma che aveva ispirato indiscriminatamente Bacchelli e Guareschi, prima di essere incolpevolmente coinvolto nella parabola, in questo momento calante, della sottocultura valligiano-montana del leghismo.
Dal far cultura alla desertificazione delle coscienze
Da chi ha mutuato la tv l’intreccio cronaca-fiction e storia-fiction? Dal medium che l’ha preceduta, il cinema. Non c’è altra risposta, e non ci poteva essere, forse, una scelta diversa. Di fronte all’incalzare delle nuove tecnologie, l’estrema difesa sembra essere nelle continue mutazioni di pelle e della casa elettronica. Ma la sola “ispirazione” non la dice tutta. C’è anche il progress, c’è l’evoluzione in proprio, che non può essere del cinema o del teatro, e che può manifestarsi meno subdolamente, cioè più palesemente, semmai, sulla carta stampata. L’evoluzione televisiva è visibile, direi tattile, nella spirale fiction-cronaca-fiction. Vale a dire nella massima espansione nello spazio e nel tempo di un fatto, nelle sue espressioni spettacolari e in quelle replicanti, nell’indotto che crea, negli echi che suscita, e tutto questo è positivo; ma anche negli interessi che sottende, nel business che vela, nei condizionamenti che carsicamente impone, e questo è ilrisvolto negativo. Esempi, per capirci. Prima fiction possono essere dei documentari Istituto Luce, o tratti dagli archivi di altri Paesi, montati, attualizzati attraverso la mediazione della cronaca (come lo sono state la caduta del muro di Berlino, le guerre etniche, l’urto delle immigrazioni, la cattura di Pinochet, ecc.) e ri-veicolati in un dibattito a più voci. In un contesto analogo, ma più sintetico, si inseriscono i film-inchiesta, i film-dossier, che hanno la prima fiction e il montaggio già predisposti (e penso attualmente, orrido invisibile, a “La vita è bella”; oppure, orrido visibile, a “Salvate il soldato Ryan”; “Full metal jacket”). Qui siamo nel campo dell’alta pedagogia, della didascalia per chi è mediamente o altamente alfabetizzato, del far cultura, del diffondere conoscenza, del mettere il cittadino nelle condizioni di aver coscienza di sé, della propria storia e vicenda umana. È in questa direzione che vanno anche i dibattiti politici, quando politica significhi vita della città, dunque della comunità e quelli sulla salute, sulla qualità della vita, sul lavoro, sui diritti civili, sulle garanzie della libertà, e via di seguito.
Ben altra cosa sono le prime fiction, del tipo salottiero o in semicerchio, con l’articolazione di cronache fatue, persino fittizie, e l’esito di ulteriore fiction promozionale, anche by-passata nel corpo vivo della trasmissione. Si dirà che, in fondo, servono anche trasmissioni di questo tipo. Può darsi. Chi si siede la sera di fronte ad un apparecchio televisivo è in genere una persona che ha lavorato tutto il giorno, che è stanca, che ha bisogno di rilassarsi. Ma attenzione: una cosa è rilassarsi con un buon film, con una purtroppo sempre più rara pièce teatrale o di musica classica, con uno spettacolo leggero intelligente; un’altra è desertificare la propria coscienza critica, mortificare il proprio gusto e la propria intelligenza, suscitare aspettative risolutive per l’esistenza, facendo ricorso all’intervento di concorrenti per telefono che intravedono vincite persino miliardarie con rispostine banali a domande semplicemente idiote.
L’audience
Fin qui, per lo più, ciò che accade nelle “reti”, cioè nell’intero palinsesto, all’interno del quale, però, ci sono gli spazi canonici e obbligatori, non solo per il servizio pubblico, dell’informazione. E poiché, nel bene e nel male, io ho sempre fatto parte di questo mondo, e mai di quello dello spettacolo, credo che debba rispondere alla domanda: che cosa sta accadendo, oggi, all’informazione? È in crisi.
Una serie di rapporti e di indagini mirate individua tre cause fondamentali della crisi dell’informazione: i gadget, le tecnologie, le concentrazioni. Si tratta di aspetti patologici paralleli, che stanno determinando una vera e propria “trasformazione genetica” dell’informazione. Se si dovesse fare un raffronto con quanto accadeva in epoca classica, si potrebbe dire che il “media system”, il sistema di comunicazione di massa, è al centro di una sorta di “guerra tribale” che ricorda molto da vicino le lotte per il controllo degli oracoli e degli aruspici.
Dunque, sta accadendo che anziché essere in sintonia con le esigenze di un Paese in trasformazione, l’attuale sistema informativo, condizionato da spinte e interessi convergenti con le élite dirigenti, si è indirizzato sempre più visibilmente verso il by-pass dell’interpretazione e del punto di vista, alieno dallo stato reale delle vicende e dei problemi. È un’antica, sotterranea e mai morta consuetudine italiana, tant’è che i grandi direttori della nostra storia, i Frassati, i Bergamini, gli Albertini, i Missiroli, i Benedetti, non cessavano di minacciare i propri giornalisti, anche i più seguiti dai lettori, affermando: “Se invece di un articolo pieno di fatti scrivi un articolo pieno di fondo, ritieniti licenziato!”.
Patologia tutta italiana, dicevo. Perché l’interpretazione, il punto di vista è divenuto un dato teorico in letteratura e nell’arte come ermeneutica, in psicologia come “stati dell’io”, persino in politica, col valore aggiunto o sottratto di chi il potere ce l’ha, oppure no.
In questo modo si ha una scissione tra realtà civile e la sua rappresentazione, nel senso che questa tende a imbrigliare l’altra. Non si media più. E non si media anche perché non si è più attenti al delicato e vitale rapporto tra realtà del Paese e fedeltà nella descrizione di questa realtà.
Perché è saltato questo rapporto? Perché, più che informare, oggi si tende a creare consenso. E il consenso si crea innalzando il più possibile e con qualsiasi mezzo gli indici di audience. In tal modo viene derubricata una larga fetta di realtà sociale. L’esito di questa operazione è immediato: la società civile viene affidata a una comunicazione che – come afferma Eurispes – gioca all’inganno. Esempio: la disoccupazione italiana è al 12,5 per cento. Non è vero perché al nord è quasi irrisoria (l’1 o il 2 per cento), mentre al sud supera abbondantemente il 30 per cento.
Gli stessi operatori della comunicazione si vedono così, più o meno consapevolmente, sottoposti a vassallaggi d’ogni tipo. Vediamo un po’ le cifre. Le aorte informative, che sono le agenzie di stampa Ansa, Italia, AdnKronos, più quelle economiche come Radiocor, quelle delle forze politiche che possono permettersele, i comunicati-stampa che inondano le redazioni con i fax e con i pony-express, riversano in media 7.000 informazioni al giorno: il 70 per cento nell’arco orario che va dalle 6 alle 23, e il resto, specie per via dei fusi orari, nel corso della notte. Questa slavina quotidiana limita quanto mai la possibilità di riflessione e di scelta, impedisce l’intercettazione e la selezione più attenta dei segnali più autentici che salgono dalla società. Le arterie sono intasate, e per questo motivo hanno il sopravvento l’omologazione e la massificazione dei messaggi. L’interpretazione della realtà civile non si fa più in tutto e per tutto in base a informazioni raccolte sul campo, magari direttamente vissute e verificate, se non dagli ultimi, superstiti, eroici inviati speciali, ma in base a informazioni già mediate e standardizzate altrove. Il punto di riferimento non è più tutta la realtà, ma il “desk”, l’incontro-confronto tra direttore e responsabile di settore nel corso del quale si progettano pagine e titoli di politica, economia, cronaca, spettacolo, cultura, sempre meno differenziate tra giornale e giornale. L’industria editoriale, cioè, rincorre un mercato “basso”, indistinto, distorcente. Prendete tre o quattro quotidiani e confrontate le prime pagine; ascoltate un tg e verificate i titoli: raramente vi troverete di fronte a sconvolgenti divaricazioni di servizi. Spesso sono simili anche i titoli. Corre voce, maliziosa ma non del tutto infondata, che alcuni tra i direttori dei maggiori quotidiani italiani si consultino, poco prima del nulla osta per il passaggio nelle rotative, per concordare insieme argomenti e temi da evidenziare in prima pagina.
Parliamo dei gadget. Da valore aggiunto, stanno diventando il prodotto che incrementa vendite e attrae pubblicità. La competizione è ricercata attraverso i libri, i compact disc, i film, i profumi, la bigiotteria e quant’altro. I ruoli stanno per essere invertiti: l’informazione diventa valore aggiunto e i lettori sono trasformati in consumatori. Cioè: l’informazione rischia di divenire un fatto residuale.
Le nuove tecnologie distribuiscono servizi pre-confezionati su giornali anche distanti geograficamente. Giustamente è stato scritto che in questo caso i giornalisti hanno il ruolo di “terminali stupidi”.
Le concentrazioni. Gli editori puri sono ridotti al minimo, sono il 10 percento. Trionfano gli assi finanziario-informativi e pubblicitario-informativi sia al livello di carta stampata che di radio-tv. Grandi trust, grandi oligopoli, grandi idrovore di risorse pubblicitarie, tecnologiche e di fonti informative possiedono catene di giornali quotidiani e periodici e network radiotelevisivi. Per non parlare poi dei “panini”. I quotidiani che contengono altri quotidiani.
Le tecnologie dell’ informazione
Ma allora, se cosi stanno le cose, avevano ragione Huxley e Orwell?
Huxley è autore de “Il nuovo mondo”, una fantasia del futuro che descrive la vita come l’autore la immaginava qualche centinaio di anni “dopo Ford”, perché l’inventore della catena automatica di montaggio è venerato come padre spirituale della prossima società standardizzata. Nel passato c’era stata una cosa chiamata “liberalismo” quando si era “ liberi di essere inefficienti e infelici”. Nel nostro imminente futuro c’è un nuovo mondo tecnologico fatto di bambini in provetta, di orge pianificate dello Stato, di gioventù artificialmente prolungata, di tele-dipendenza che a volte eccita e placa i sensi, un mondo di soddisfazione immediata e di felicità indotta da una droga, il “soma”: tutto questo pare aver molto a che vedere con l’eccesso di sensazioni e intrattenimento offerti dal mondo virtuale dell’informazione e della comunicazione.
Il romanzo di Orwell, “1984”, appartiene anch’esso a quel genere così caratteristico del XX secolo, la storia di un’utopia finita male, lanciato proprio da Huxley nel 1932. Ebbene: “1984” è il locus classicus in materia di pericoli delle nuove tecnologie dell’informazione per la libertà politica. Lascia nella mente di chi lo legge un’immagine indelebile di una società nella quale tali tecnologie rappresentano uno strumento di oppressione così potente nelle mani dell’Autorità da distruggere in maniera definitiva l’individualità umana.
Orwell scriveva nel 1948 dopo essere stato testimone oculare della selvaggia eliminazione del partito anarchico per mano dei comunisti a Barcellona, durante la guerra civile spagnola, e dell’abuso della propaganda che entrambe le parti in conflitto avevano compiuto nella seconda guerra mondiale, appena conclusa. Lo scrittore inglese era uno dei pochi a comprendere il vero significato delle notizie che filtravano dalla Cortina di Ferro, a interpretare correttamente i sintomi della costruzione in Urss di un nuovo regime oppressivo, in nome della libertà e dell’umanità.
La caduta del Muro di Berlino e il superamento dell’ideologia fordista hanno dimostrato che la storia è stata più clemente nei confronti dell’umanità di quanto Huxley e Orwell temessero. Invece di trasformarci tutti in vegetali da divano, le tecnologie dell’informazione, malgrado tutte le spirali verso il basso imposte dalla fiction, ci danno la possibilità di conoscere meglio noi stessi e il mondo; invece di funzionare come puro strumento nelle mani di un’Autorità, malgrado le vocazioni al servilismo di tanti adepti e di altrettanti conversi, le nuove tecnologie hanno già ridotto la sovranità degli Stati, rafforzato il controllo democratico, soprattutto consentito che si dispiegasse l’ordine spontaneo della Società Aperta.
L’idea nuova
Infine, l’idea nuova, Internet, nata negli Stati Uniti per fini militari e diffusa nel mondo con sorprendente rapidità.
Si dice che Internet fagociterà tutto, dal telefono al fax e alle stesse fonti tradizionali d’informazione. Si allunga dunque, da dietro l’angolo, il cono d’ombra di Huxley e Orwell? Non proprio. Certo, tutti gli utenti hanno necessità di supporti razionali anche nell’informazione; ma anche di bisogni emozionali, nobili o meschini, ma pur sempre sul reticolo e sulla lunghezza d’onda dei contatti umani.
Ciò non significa che le famiglie e gli individui non debbano coltivare attivamente la propria autonomia e il proprio self-control nell’uso delle opportunità offerte dalle nuove tecnologie. Ma una società da queste guidata, come ad esempio quella americana, è pur sempre ricca di varietà e di curiosità, ed è remota dalle terrorizzanti utopie di Huxley e di Orwell. È una società che ha dei difetti, certo; ma sarebbero necessarie ben altre prove per attribuirli tutti ai nuovi media, i quali a loro volta rappresentano solo una piccola parte di ciò che gli orizzonti delle nuove tecnologie possono offrire ad una società democratica.
L’inviato speciale
Concludo con una notazione che coinvolge anche la mia passata esperienza, la mia presente nostalgia.
Riguarda la figura dell’inviato speciale, che è direttore di se stesso, con grande libertà d’azione e di proposta: una specie di anarchico creativo, originale, un po’ eccentrico, se volete, ma con capacità predittive, percettive, di scrittura, di sensibilità e di cultura che non possono che essere ogni volta nuove, diverse, anche sorprendenti, comunque inedite, comunque irripetibili. È una figura in via di estinzione, da affidare a qualche santo per il suo linguaggio, le idee, le scoperte, la letteratura che ha messo in campo a servizio dell’uomo. È l’occhio lungo che liberamente indaga e riferisce agli altri uomini, oltre ogni confine. È il fotografo della realtà, non della fiction; dell’originalità, e non dell’omologazione. È la proiezione della nostra sete di conoscenza gettata nella mischia tecnologica, informatica, telematica, a ricordarci che al centro di tutto c’è solo e sempre l’uomo. È il nostro passepartout culturale salvifico.
Leggiamoli, ascoltiamoli, vediamoli i servizi degli inviati speciali come Guatelli, Mo, Alichieri, Viola. Vi troveremo sicuramente una nostra tranche de vie. Un nostro pezzo di anima.
[Lectio magistralis tenuta da Aldo Bello per l’inaugurazione dell’anno accademico 1998-1999 dell’Università Popolare Aldo Vallone di Galatina, già pubblicato ne “Il Galatino” di venerdì 11 dicembre 2013, pp. 7-10]