Una lettera di… 6: Una lettera (e tre libri) di Ercole Ugo D’Andrea

Dopo la morte, Ercole Ugo D’Andrea (Galatone, 26 giugno 1937 – ivi, 8 agosto 2002) è stato un po’ dimenticato dagli studiosi e dai lettori di poesia. Eppure, in vita, ha ricevuto l’attenzione di critici e poeti autorevoli tra i quali ricordiamo: Oreste Macrì, Mario Luzi, Mario Marti, Donato Valli, Silvio Ramat, Francesco Tentori, Luigi Scorrano. E i suoi libri di versi sono stati pubblicati da case editrici importanti, come Vallecchi, Garzanti, Rebellato, Lacaita, Passigli, oltre che da editori salentini.

Incominciò nel 1964, dando alle stampe Rosario di stagioni, che uscì nella gloriosa collana dei “Quaderni del Critone” diretta da Vittorio Pagano, uno dei punti di riferimento per la sua formazione in campo locale insieme a Girolamo Comi che andava a trovare spesso nel suo palazzo di Lucugnano. Accanto a Comi e Pagano, fondamentale è stato per lui il rapporto con l’ambiente letterario fiorentino, in particolare con Carlo Betocchi, Mario Luzi e il più giovane Silvio Ramat, poeta e critico. Lo stesso D’Andrea rievocò il primo incontro con questi ed altri letterati fiorentini o residenti nel capoluogo toscano, come il magliese Oreste Macrì, in un articolo dal titolo Al caffè Paszkowsi come agli Orti Oricellari, pubblicato sul settimanale leccese “La Tribuna del Salento” nel 1966. Ad essi, in quell’occasione, D’Andrea consegnò il suo secondo libretto, La bruna sorella, pubblicato sempre nel ’66 dall’editore Rebellato di Padova. Ma egli ha instaurato un ideale, intenso colloquio con alcuni dei maggiori rappresentanti della “lirica moderna”, italiani, da Ungaretti a Rebora, da Sbarbaro a Montale a Sinisgalli, e stranieri, da Hölderlin a Rilke, da Esenin a Blok, da Machado a Guillén, da Aleixandre a Valverde. E anche da tutti questi nomi si rivela la sua ascendenza simbolista-ermetica.

La bibliografia di D’Andrea conta numerosi titoli  tra i quali ricordiamo. Spazio domestico (Padova, Rebellato, 1967), Ozi, negozi e nuove poesie, con un prologo di M. Luzi (Firenze, Nuovedizioni Enrico Valleccchi, 1973), Bellezza della madre (Cavallino di Lecce, Capone, 1981), La confettiera di Sèvres, con una prefazione di S. Ramat (Manduria, Lacaita, 1989), Fra grata e gelsomino (Milano, Garzanti, 1990), Il bosco di melograni (Firenze, Passigli, 1996), L’orto dei ribes di corallo (Manduria, Lacaita, 1999).

Nel corso della sua attività, ha dimostrato un’assoluta dedizione alla poesia, che per lui rappresentava un interesse esclusivo e totalizzante. I temi ricorrenti di essa rientrano quasi tutti nella categoria dello “spazio domestico” individuato da Macrì come caratterizzante e quasi emblematico della sua opera: gli affetti familiari (la madre innanzitutto, il padre, la sorella, il fratello, le nonne, lo zio), l’infanzia, l’abitazione col giardino e gli alberi da frutto (il nespolo, il mandorlo, il pero, il melograno), le stagioni (il “sentimento del tempo” per dirla con Ungaretti). Ma in D’Andrea c’è sempre un rapporto costante tra effimero ed eterno, tra quotidiano e assoluto, tra microcosmo e macrocosmo. Voglio dire che gli umili oggetti della realtà, i minimi gesti quotidiani non valgono mai per se stessi, come per i poeti crepuscolari del primo Novecento (la “poesia di tutti i giorni” di Marino Moretti), ma sono sempre messi in rapporto con qualcosa che li trascende e che fa assumere a quei gesti, a quegli oggetti una valenza molto più ampia e di sapore universale.

Io lo conobbi all’inizio degli anni Settanta nei corridoi di Palazzo Codacci Pisanelli, sede delle facoltà umanistiche dell’Università di Lecce, dove veniva a trovare Marti con cui s’era laureato e Valli che con Macrì aveva ripreso “L’Albero” di Girolamo Comi, su cui D’Andrea pubblicò anche alcune liriche. Proprio nelle Edizioni dell’Albero apparve la prima edizione di Ozi, negozi, fatta oggetto di un esame accurato sulla rivista (n. 48, 1972) da parte di Macrì in un saggio intitolato Lo “spazio domestico” di E.U. D’Andrea. Poi lo incontrai qualche volta di sera, in compagnia della moglie Silvana, per le strade di Lecce, da lui definita in una poesia la “morta città” e in un’altra Lecce la morta, che riprende il titolo di un romanzo di Georges Rodenbach, Bruges la morte.

La lettera, che qui pubblico, vergata sul recto e sul verso di due cartoncini, è un documento significativo della sua personalità, una sorta di confessione aperta e sincera sulle sue condizioni di salute e i malanni veri o presunti, che lo affliggevano («ansia e depressione […], calcolosi (nel caso mio, alla cistifellea); colesterolo alto, tabagismo, ecc…»). Ma da essa traspare anche il desiderio di maggiore attenzione verso la sua opera, nonché un velato rimprovero nei confronti di chi, come lo scrivente, non se ne era ancora occupato («Lasciate riposare un poco le anime care di Pagano Comi Bodini e pensiamo ai vivi, o no?»). Ma soprattutto colpisce la definizione, che è anche una fulminante autodefinizione, che dà del poeta: «Il poeta è solo un malato, un nevropatico, un narcisista».

Insieme alla lettera, mi inviò anche tre suoi volumetti, due dei quali già citati. Al primo, La confettiera di Sèvres, appose la seguente dedica: «al caro e valente | Amico | professor Lucio Giannone | studioso insigne | della poesia del secolo | salentino-europeo, | con viva simpatia | di |Ercole Ugo D’Andrea | da Galàtone | 7 febbraio ‘92». Sul secondo, Fra grata e gelsomino, invece, così scriveva: «ad A. Lucio Giannone | con stima e amicizia | ab antiquo | Ercole Ugo D’Andrea | da Galatone | 7. 2. ‘92». Il terzo,  a me dedicato con il semplice nome e cognome e la sua firma, era una piccola pubblicazione un po’ speciale, a firma Luzi ‒ D’Andrea, dal titolo Album poesia, pubblicata a Lecce dall’Adriatica Editrice Salentina nel 1988. Essa deriva da una occasione particolare, cioè la visita compiuta il 16 gennaio 1988 da Mario Luzi allo “spazio domestico”  di D’Andrea. Nell’esile plaquette si avvicendano versi dell’illustre ospite, tratti da alcuni dei suoi libri, con altri del padrone di casa. Le poesie, a loro volta, si alternano alle foto scattate in casa del poeta salentino che ritraggono Luzi in compagnia sua e di altri familiari.

Anche successivamente D’Andrea mi inviò, apponendovi affettuose dediche, le sue raccolte poetiche fino alle ultime: Scardanelli, con una prefazione di Silvio Ramat (Firenze, Passigli, 1999) e I colombi d’Urbino (Urbino,  QuattroVenti, 2001), l’anno prima della sua scomparsa.


Mario Luzi e Ercole Ugo D’Andrea

Ma, per concludere, occorre aggiungere che Mario Luzi fu legato a D’Andrea fino alla fine, tanto è vero che nel 2004 accolse nella collana di “Poesia”, da lui diretta presso l’editore Passigli di Firenze, una Antologia personale, intitolata Dove la poesia, a cura e con una prefazione di D. Valli e un ricordo dello stesso Luzi. Valli, nel suo scritto, passava in rassegna le varie fasi della poesia di D’Andrea, sostenendo a un certo punto che i «punti di forza» di essa sono: «la domesticità, l’elegia, l’eleganza aristocratica della scrittura, la fede» (p. 11). Nel risvolto di copertina, invece, così Luzi riassumeva mirabilmente i temi e, più in generale, il senso stesso della sua produzione: «La vita della madre, della casa, del giardino – era tutto questo per Ercole Ugo una eternità quotidiana. In tal modo l’ha vissuto e scritto. Non so bene se ho ammirato prima il poeta che pareva comporre con la sua vita elettiva e destinata o l’autore che aveva dato vita con la sua  rinuncia a quel mondo grave, tenero e amabile… Certo è che non si trattava solo di idillio o di elegia. Questi idoli provenivano forse da una delusione preliminare? A queste ragioni e a questi interrogativi ci riporta l’insieme della sua poesia».

Forse è giunto il momento di rileggere la poesia di Ercole Ugo D’Andrea!

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