ISTAT registra che in Italia è molto presente la posticipazione del distacco dalla famiglia d’origine, che risulta significativamente più marcata nelle aree con più elevata disoccupazione e con basso Pil pro-capite e che ovviamente si associa alla dilatazione del percorso verso l’età adulta e al calo della fecondità. L’Italia è, inoltre, fra i Paesi europei quello con il maggior divario di genere nei tassi di occupazione.
L’evidenza empirica mostra che la denatalità dipende in modo cruciale dal tasso di disoccupazione e dalla precarizzazione del lavoro, essendo maggiore nelle aree – come il Mezzogiorno – nelle quali la probabilità di trovare impiego è minore e nelle quali sono peggiori le condizioni di lavoro. Le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro sono state attuate, con intensità variabile, in tutti i Paesi OCSE. L’Italia ha dato a queste una rilevante accelerazione nel corso degli ultimi decenni, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Novanta (dal pacchetto Treu alla Legge Biagi al Jobs Act alla recente reintroduzione dei voucher da parte del Governo Meloni). La precarizzazione del lavoro agisce, infatti, sulla denatalità per due canali: innanzitutto, accresce l’incertezza sui redditi futuri; in secondo luogo, è di norma associata a bassi salari reali (ISTAT comunica anche il dato per il quale, dal 1990, i salari reali in Italia si sono ridotti – unico fra i Paesi europei – del 2.9%, a fronte di un aumento del 33.7% della Germania e del 31.1% della Francia). La coesistenza di queste condizioni rende, con ogni evidenza, più costosa la riproduzione.
Il Governo vanta un aumento dell’occupazione, che pure si è verificato, ma quasi esclusivamente – per le donne – per la fascia d’età 55-64 anni, facendo, peraltro, registrare un calo per la fascia d’età 35-54 anni. Per inquadrare correttamente il fenomeno, nella sua dinamica di lungo periodo, occorre partire da una considerazione spesso dimenticata nel dibattito politico: l’andamento della partecipazione femminile al mercato del lavoro risente del cosiddetto effetto del lavoratore aggiunto, ovvero del fatto che quando aumenta il tasso di disoccupazione maschile (particolarmente quello delle fasce centrali di età) o si riducono le retribuzioni, l’offerta di lavoro da parte delle donne tende ad aumentare per compensare la riduzione del reddito dell’unità familiare.
ISTAT certifica che, negli ultimi venti anni, i contratti precari hanno riguardato circa 1 milione di lavoratori e che soprattutto gli incrementi di occupazione, in una tendenza di lungo periodo, si sono manifestati prevalentemente per la forza-lavoro in età adulta. Il Jobs Act fu approvato con la promessa di migliorare la condizione dei giovani nel mercato del lavoro: si tratta, con ogni evidenza, di una promessa mancata, alla luce del peggioramento della condizione giovanile certificata da tutti gli Istituti di ricerca.
[“La Gazzetta del Mezzogiorno”, 25 maggio 2024]