

Giacomo Giardina (Godrano, Palermo, 30 luglio 1903 – Bagheria, Palermo, 24 settembre 1994) rappresenta senza dubbio un “caso” nella storia del futurismo. Nella sua poesia non figurano, infatti, i temi tipici del movimento, cioè quelli ispirati alla civiltà moderna, alla macchina, alla velocità, al progresso scientifico, ma c’è piuttosto un’esaltazione dell’ambiente naturale e campagnolo in cui l’autore era pienamente inserito a causa del suo lavoro. Eppure il fondatore del futurismo, F.T. Marinetti, a Napoli, nel 1929 lo proclamò “poeta record meridionale”, incoronandolo col “casco d’alluminio”.
Mi misi in contatto con lui perché, durante le mie ricerche sul futurismo nel Salento, seguendo le tracce del diciottenne Vittorio Bodini, avevo trovato alcune sue composizioni, in versi e in prosa, sulle pagine dei settimanali leccesi dei primi anni Trenta, “La Voce del Salento”, diretta da Pietro Marti, e “Vecchio e Nuovo”, di Ernesto Alvino. Fino alla fine degli anni Settanta, del movimento marinettiano si conoscevano soprattutto le vicende fino alla prima guerra mondiale, mentre si ignorava quasi del tutto ciò che era avvenuto dopo. Quindi anche gli esponenti che avevano operato nei decenni successivi erano nomi sconosciuti, per la maggior parte, anche agli studiosi. Per questo cercai di saperne qualcosa di più rivolgendomi direttamente a lui che mi rispose con la sorprendente lettera, che qui pubblico, datata “Bagheria Genn. ‘83”. Essa è vergata con grafia irregolare, a volte di difficile decifrazione, e in stile quasi “parolibero” (con scorciature e spesso senza gli articoli) su due fogli (il secondo sul recto e sul verso) di colore arancione.
Questa lettera, oltre a fornirmi qualche notizia sulla sua attività, mi permise di scoprire il legame di Giardina con Lecce non solo per le collaborazioni ai periodici summenzionati, ma anche per una relazione sentimentale con una “giovanissima e bella poetessa”, che ovviamente ignoravo. Non a caso, la lettera terminava col disegnino di un campanile piegato a rappresentare forse un ideale collegamento tra Godrano e Lecce che si conclude con una sorta di omaggio floreale-musicale. Contemporaneamente mi mandò anche un volume di poesie, Dante ambulante al mio paese (Palermo, Ila Palma, 1982), che si fregiava di un suo ritratto in copertina realizzato da Renato Guttuso, suo amico. A esso appose la seguente dedica, altrettanto inaspettata: “All’amico immediato | Lucio Giannone | e al “barocco leccese | questo nuovo DANTE | AMBULANTE | sradicato e mostruoso | carico d’antichi ricordi | sentimentali | con affettuosa | simpatia || Giacomo Giardina | Palermo Genn. | 1983”. In alto aveva tracciato la sagoma della catena montuosa di Palermo. Anche qui, come nella lettera, faceva riferimento al rapporto con Lecce attraverso l’espressione “antichi ricordi sentimentali”.
Ma chi era Giacomo Giardina? La sua è una storia particolare che merita di essere conosciuta. Dopo aver frequentato, con scarso profitto, le prime due classi delle scuole elementari, viene mandato dal padre, maestro elementare e poeta dialettale, a fare il guardiano di pecore e a coltivare a mezzadria un campicello alle porte di Godrano. Durante il lavoro nei campi, conosce il poeta conterraneo Castrense Civello, citato nella lettera, che lo avvia alla lettura di Pascoli, d’Annunzio, Marinetti, Palazzeschi. Incomincia a scrivere così le prime poesie e insieme a Civello si mette in contatto epistolare con il fondatore del futurismo che lo esorta a continuare. Nel 1928, in occasione di una sua visita a Palermo dove era in corso una mostra di pittura futurista, conosce direttamente Marinetti che l’anno successivo, a Napoli, come s’è detto, lo proclamò “poeta record meridionale”.
Sempre nel 1929, presso l’editore Vallecchi di Firenze, esce il suo libro, Quand’ero pecoraio, con la prefazione-“collaudo” di Marinetti. Per tutti gli anni Trenta collabora a numerosi periodici futuristi e viene inserito anche in antologie ufficiali del movimento. Nel 1938, a Bagheria pubblica il poema Marinetti primo poeta. Dopo la guerra e la morte di Marinetti abbandona l’attività letteraria per fare il venditore ambulante a Godrano. Nel 1971 ritorna alla poesia con il volumetto Guttuso nel mio quadro, e nel 1982, con Dante ambulante al suo paese, offrì una scelta della sua produzione poetica dal 1929 fino a quell’anno.
Di questo libro feci una recensione che uscì sul n 3 (settembre 1983) della rivista salentina “Contributi”, e poi nel mio volume Futurismo e dintorni (Galatina, Congedo, 1993). Qui facevo notare che uno dei temi principali delle sue composizioni più antiche è la contrapposizione tra la campagna e la città. “Questo confronto – scrivevo ‒ si risolve immancabilmente a favore della campagna, anche se egli, da buon futurista non rimane insensibile nemmeno al fascino del mondo cittadino, con il suo vorticoso gioco di luci colori rumori e la vita frenetica che vi si conduce”. E portavo come esempio questi versi di Città di sera, del 1932: “Luce, luce, luce… / fantasia elettrica di colori / e rombar di motori / giù per le vie di sera, / jazz-bands folleggianti / di musica, / voci di giornalai / aggrappati alle orecchie: / gente frettolosa che si urta, / gente nervosa che attende / l’appuntamento…”.
Più avanti osservavo che talvolta il poeta riesce a ricreare la metropoli nella campagna attraverso il fulmineo accostamento analogico, “ma ‒ continuavo ‒ è solo a diretto contato con i luoghi selvaggi, con gli animali, con la folta e aspra vegetazione della Rocca Busambra che Giardina raggiunge i momenti di più intensa pienezza vitale, in una sorta di intima compenetrazione con tutto ciò che lo circonda”. Dal lato formale, le sue composizioni sono caratterizzate dall’uso accentuato dell’analogia e della sinestesia, da uno stile fortemente ellittico, che alterna in rapida successione immagini del mondo esterno, sensazioni, riflessioni.
Anche nelle composizioni degli anni Settanta il vero protagonista resta sempre il paesaggio naturale al punto che il ritorno del poeta ai luoghi nativi coincide automaticamente con il ritorno dell’ispirazione e del canto. In queste, però, è soprattutto il ricordo che balza in primo piano a mettere in rapporto la realtà attuale con quella passata. L’autore ripercorre le molteplici esperienze di vita e di lavoro (quelle di pecoraio, di contadino, di venditore ambulante), in una sorta di consuntivo della propria travagliata esistenza. Particolarmente felici sono le rievocazioni della solitaria adolescenza come pure dei genitori, in particolare della figura del padre. Nelle ultime poesie c’è anche un’attenzione ai problemi sociali e collettivi della gente siciliana, che giunge fino all’auspicio di un riscatto generale di tutta l’umanità oppressa.
Dopo la lettera non ebbi più contatti epistolari con Giardina, ma nel dicembre di quell’anno mi arrivarono i suoi ringraziamenti per la recensione attraverso il biglietto dell’artista palermitano Nicolò D’Alessandro, suo collaboratore, che successivamente, nel settembre del 1988, mi mandò i saluti suoi e quelli dell’anziano poeta. Nel 2001, infine, insieme a numerose altre voci, compilai anche quella riguardante Giardina per il monumentale Dizionario del Futurismo, in due tomi, curato da Ezio Godoli per Vallecchi di Firenze (I tomo, pp. 532-533), lo stesso storico, prestigioso editore che settantadue anni prima aveva pubblicato il primo libro di versi del poeta siciliano.


