Fra gli economisti più attivi nell’elaborazione della teoria della dipendenza si possono ricordare, pur con le dovute differenze di impostazione, il brasiliano Celso Furtado, Raul Prebish e Paul Rosenstein-Rodan. Furtado estese la categoria marxiana dello sfruttamento ai rapporti fra aree centrali e aree periferiche; Raul Prebish teorizzò lo scambio ineguale, ovvero l’esistenza di meccanismi spontanei di ridistribuzione del reddito a vantaggio delle aree ricche derivanti dal libero scambio; Rosenstein-Rodan individuò nel “big push” (la grande spinta a trazione pubblica) l’inizio dell’espansione delle aree periferiche da imputare al decollo verso lo sviluppo, da parte dei territori periferici, derivante da investimenti pubblici nel settore industriale. Nella definizione datane da Gunter Frank, il rapporto centro-periferie si struttura in questi termini: la periferia si può espandere solo a condizione che vi sia espansione delle aree centrali e, peraltro, non necessariamente questa condizione migliora le condizioni delle aree periferiche (per esempio, l’uso delle aree periferiche come mercati di sbocco distrugge le produzioni locali).
Si teorizzò la programmazione industriale, sulla base della convinzione per la quale l’intervento pubblico è complementare agli investimenti privati. Si trattava, cioè, di inibire i meccanismi della dipendenza agendo sulla struttura produttiva e sull’assetto tecnologico. Fu criticata la logica degli aiuti allo sviluppo (perché – si disse – funzionale alla subordinazione delle aree periferiche) e, nell’applicazione al Mezzogiorno di queste teorie, furono criticate le politiche basate sui trasferimenti monetari. Questi ultimi, in particolare, avrebbero unicamente comportato un aumento dei consumi derivante da effetti imitativi: i modelli di consumo sono, infatti, prodotti nelle aree centrali dello sviluppo capitalistico. I sussidi erogati al Mezzogiorno, in questa interpretazione, avrebbero dunque impedito l’affrancarsi da traiettorie tecnologiche decise esogenamente.
È stato documentato (da Salvatore Romeo, nel libro “Acciaio in fumo”) che ILVA fu il risultato della convergenza di due interessi: l’esigenza, da un lato, di aumentare la base produttiva in vista della creazione della comunità europea del carbone e dell’acciaio e, dall’altro, la necessità di orientare l’azione delle imprese a partecipazione statale per l’attuazione di politiche industriali nel Mezzogiorno. L’industrializzazione di Stato del Mezzogiorno si realizzò con la massima accelerazione nel periodo compreso fra il 1958 e il 1963, ovvero nella fase più intensa del cosiddetto miracolo economico.
Resta aperta, fra gli storici economici, la questione delle “cattedrali nel deserto”, secondo la definizione di Sturzo, ovvero il problema dell’eredità che l’industria pubblica lascia in loco per quanto attiene alle trasformazioni sociali che induce (soprattutto tramite la creazione di nuclei di classe operaia al Sud) e per quanto riguarda gli effetti di spillover in termini di creazione di un sistema di imprese in grado di attivare endogenamente sviluppo.
[“La Gazzetta del Mezzogiorno”, 21 maggio 2024]