Pertanto, la prospettiva filosofica che deriva in modo coerente da questo assunto è individuabile nel superamento dell’antropocentrismo, che moltissimi danni ha portato alla natura e all’uomo stesso. Al centro della scena non vi può essere più l’uomo, ma la tecnica, e dunque la vita non sarà più organizzata dall’arte suprema degli antichi, la politica (politiké téchne), ma dalla stessa tecnica che è sfuggita al controllo umano ed anzi essa stessa controlla e disciplina l’operato dell’uomo: “… oggi è la tecnica ad impiegare l’uomo per le sue esigenze di funzionalità. Questo capovolgimento (…) fa dell’uomo un funzionario dell’apparato tecnico, dove la sua identità è completamente risolta nella sua funzionalità, e dove il mondo-della-vita è per intero generato e reso possibile dall’apparato tecnico (…)”. (p. 171). Se ne deduce che “… non avremo più, come nell’età pre-tecnologica, il dominio dell’uomo sull’uomo, ma il dominio della razionalità del calcolo (economico e tecnico) su tutti gli uomini.” (p. 174)
Galimberti mette in atto una strategia mistificante, che svia la comprensione da parte del lettore dei processi reali in atto nel mondo, nel quale la tecnica rimane ancor oggi un mezzo potentissimo nelle mani di chi disciplina la vita dell’Occidente, ovvero una ristretta oligarchia finanzcapitalistica, che ha cercato e cerca di mettere le mani sul mondo, portando guerra e distruzione ovunque. Proprio come avveniva nella polis greca, dove, attraverso la politica, i pochi politai disciplinavano la vita della massa degli schiavi, delle donne e degli stranieri, che non potevano prendere parte alla vita politica. Non è cambiato nulla, solo la dimensione del problema è diventata planetaria. Mistificante è infatti ipostatizzare la tecnica spacciandola per un assoluto, dal momento che essa è pur sempre il risultato di una precisa logica, fondata sullo sfruttamento da parte di coloro che detengono i mezzi di produzione, di riproduzione e di incremento di una tecnica che richiede la sottomissione dell’uomo, il suo essere semplice funzionario efficiente e disciplinato, meglio se orientato da un algoritmo. Le attuali oligarchie sanno bene qual è il loro fine e quali i mezzi per raggiungerlo attraverso il mondo della tecnica, ma di tutto questo Galimberti sembra del tutto dimentico. Così, la ulteriore deduzione logica è la seguente: “A questo punto nessuna rivoluzione è possibile, perché sia il servo sia il signore non sono più l’uno la controparte dell’altro, ma entrambi si trovano dalla stessa parte e hanno come controparte la razionalità del sistema economico e tecnico che nessuno dei due mette in questione, perché non si dà altro mondo che non sia quello dischiuso da questa razionalità che, essendo da entrambi condivisa, annulla le differenze.” (pp. 174-175)
Ecco come, individuato il nemico dell’umanità, la tecnica, sulla scena della storia si riaffaccia l’interclassismo umanitario, che tutti unisce e affratella, poveri e ricchi, sfruttati e sfruttatori, i veri detentori del potere tecnologico e gli innumerevoli funzionari dell’apparato tecnico, in un abbraccio fraterno che nega la possibilità di ogni cambiamento reale.
Quanto detto della tecnica, Galimberti lo ripete per il mercato e l’economia. Quest’ultima, “divenuta forma del mondo, non concede all’individuo altro modo di essere al mondo se non come funzionario del mercato” (p. 237). “Oggi, con l’economia di mercato globalizzata, le condizioni d’esistenza dei singoli individui, che come atomi isolati riproducono la razionalità del sistema economico in cui si trovano inseriti attraverso il loro fare produttivo, appaiono come il destino generale dell’intera società, anzi l’universalità di questo destino appare come la premessa indispensabile perché l’economia di mercato possa realizzarsi e funzionare.” (pp. 248-249)
Come si vede, la conclusione è la medesima rispetto a quella già vista a proposito della tecnica: “A questo punto non possiamo più parlare di oppressione, ma di sistema, perché non siamo più in presenza del dominio dell’uomo sull’uomo, ma del dominio della razionalità del mercato su tutti gli uomini, servi o signori che siano, i quali non si trovano più contrapposti l’uno all’altro, ma entrambi dalla stessa parte, avendo come controparte la razionalità che regola le leggi del mercato, contro cui ogni rivoluzione è impraticabile.” (p. 249)
Tecnica e mercato diventano dunque termini strettamente congiunti e trattati alla stregua di sinonimi. Entrambi sono entità assolute in cui l’uomo non esprime e non realizza alcuna volontà, bensì ad essi è costretto a sottostare per destino, contro il quale nessuno può opporsi. Galimberti sa bene che, per esempio, muovere con un click masse monetarie multimiliardarie da una parte all’altra del mondo, determinando la vita economica di uno Stato, risanandolo o facendolo fallire, è il frutto di precise scelte politiche che uomini in carne ed ossa prendono quotidianamente seduti ai loro tavoli, essendo i padroni della tecnica e del mercato (pp. 274-276). Egli sa che nel mondo ci sono disparità scandalose fra l’1 per cento dei privilegiati super ricchi e il 99 per cento della restante popolazione, e ne parla anche alle pp. 245-248, sa bene che l’attuale modello di sviluppo capitalistico è diventato insostenibile, ma il destino è destino e nessuna rivoluzione potrà cambiarlo. Ad un certo punto della storia, dice Galimberti, solo la tecnica potrà salvarci: “… non resta che affidarci alla tecnica, che però è indifferente a qualsiasi ideologia che si proponga di realizzare un certo mondo piuttosto che un altro, e quindi è indifferente anche al mondo che l’economia di mercato, nella sua espressione capitalista, si propone di realizzare.” (p. 252). Conclusione che non convince dal momento che poco sopra l’economia di mercato era considerata come destino e, dunque, immodificabile. Insomma, se l’uomo non può modificare il sistema tecnico e di mercato nel quale è intrappolato, essendo questo svincolato totalmente dalla sua volontà, come potrà, essendo ridotto a mero funzionario, cambiare la sua sorte e quella del pianeta sul quale vive?
Essere un funzionario vuol dire sottostare alla “tirannia dell’algoritmo”, scrive Galimberti citando Benasayag, cioè del mondo digitale e dell’intelligenza artificiale, a cui non interessa “sapere chi è l’uomo, ma unicamente (…) come funziona” (p. 283). Galimberti sa che a questo non può essere ridotto l’essere umano. “Che cosa vuol dire funzionare? Acquisire le competenze utili alla vita adulta che, essendo per noi occidentali regolata dall’economia che, come abbiamo visto nel capitolo 18, detta le leggi alla politica, funzionare significa rispondere all’efficienza economica anche con le “risorse umane”, dove già nella definizione dell’uomo come “risorsa” si vede a cosa l’algoritmo riduce l’uomo” (p. 283)
Come si desume da queste parole, rimane in Galimberti un residuo di perplessità relativo al dominio della tecnica che riduce l’uomo a mera “risorsa”. E tuttavia a questo stato di cose sarebbe da stolti opporsi, perché “Questo è il nostro destino di occidentali avanzati.” (p. 318).
Come si vede, ritorna il concetto di “destino” a significare l’immutabilità della nostra condizione; che, a guardar bene, proprio immutabile non è perché la tecnica ha a tal punto sopraffatto la natura da mettere in pericolo non solo la vita dell’uomo, ma anche quella dell’intero pianeta. Salvare il pianeta significa salvare noi stessi. Ma per far questo occorre una nuova etica, non più geocentrica, come per gli antichi greci, per i quali “sia il fare tecnico sia l’agire etico” si inscrivevano “nell’ordine immutabile della natura che l’uomo non può dominare” (p. 330); e neppure varrà un’etica antropocentrica, che, inaugurata dalla cultura ebraico-cristiana, è giunta sempre più potenziata fino all’età moderna. La nuova etica sarà l’etica del viandante, come da titolo, ovvero un’etica che si prenderà cura della Terra e dunque dell’uomo stesso: “Perché quando ci si prende cura della Terra in vista degli interessi umani, allora l’antropocentrismo fa di nuovo la sua comparsa nel proteggere la Terra non per sé, ma per noi.” (p. 328).
Non si comprende bene come l’uomo ridotto a funzionario nel mondo della tecnica possa maturare questa volontà, che appare del tutto aliena rispetto ai compiti assegnatigli da qualche algoritmo. Per preparare questo salto logico Galimberti deve ammettere che, davanti agli scenari naturali devastati dalla tecnica, questa “non può più essere regolata da un’etica antropocentrica” (p. 339); il che vuol dire che la tecnica non è mai stata un assoluto, come il filosofo ha finora sostenuto, bensì è stata subordinata ad una precisa etica antropocentrica, fondata sull’agire dell’uomo, che l’ha utilizzata in quanto strumento per i suoi fini di dominio. Ma ora è tempo di cambiare e, dice Galimberti, bisogna passare da un’etica antropocentrica ad un’etica biocentrica, ovvero con al centro non più l’uomo, ma la vita (dal gr. -βίος «che vive»). È l’etica del viandante, “che percorre la Terra senza possederla, conosce, perché sa che la vita appartiene alla natura che preesisteva alla comparsa dell’uomo e potrebbe continuare ad esistere anche dopo la sua scomparsa” (p. 340).
Tutto questo sarà possibile, prosegue Galimberti, se la scienza provvederà ad autolimitarsi volontariamente: “…gli scienziati … dovrebbero essere loro a imporsi una volontaria autolimitazione, perché le conoscenze di cui dispongono non concedono più loro una comoda neutralità…” (p. 351). Il presupposto di una simile affermazione è che lo scienziato possa sottrarsi alle logiche di dominio proprie della tecnica, il che appare alquanto velleitario.
Uno spirito irenico pervade l’etica del viandante, che Galimberti delinea nell’ultima parte del volume. È l’altra faccia della medaglia del suo pensiero, la pars costruens di una visione del mondo destinata a rassicurare il lettore sulle possibilità che l’età della tecnica lascia all’uomo. V’è una “Terra senza il male”, che i Guaranì, popolo precolombiano abitante nella foresta uruguaiana, secondo il racconto di Mircea Eliade, ricercano (capitolo 29). In fondo è quello che dovremmo fare tutti noi, dice Galimberti, cercare una Terra senza il male, una volta trasformati in viandanti. Altro che rivoluzione! Qui si approda all’isola che non c’è! Nel frattempo, però, un pubblico di lettori interclassista è stato accontentato perché questo potrà sempre credere che l’uomo sottomesso dalla tecnica non è del tutto spacciato come sembrava: “una via d’uscita c’è” (p. 415), dice il filosofo, anzi l’uomo ha diverse chance che gli permetteranno di cambiare le sorti del mondo, basta stabilire una <<“Nuova Alleanza” tra uomo e natura>>, secondo i principi di una “nuova etica planetaria”: “… il viandante trova così una patria: la Terra, che è poi l’habitat del suo vagabondare a stretto contatto con la natura, a cui l’uomo è legato da una simbiosi organica e perciò è da questa invitato a conservarne la diversità, guidarne lo sviluppo, custodirne i viventi…(p. 416). Non varrà più il diritto degli Stati, ma quello della Terra, che dobbiamo aiutare a sopravvivere. E per far questo Galimberti non trova nulla di meglio, a parte lo spirito francescano, che rivolgersi al mercato e alla tecnica (quando invece sa bene che proprio il mercato e la tecnica hanno messo in pericolo la Terra: “Mercato e tecnica operano infatti nel segno della deterritorializzazione, perché sia l’uno che l’altro operano misconoscendo i confini dei territori su cui si orienta la nostra geografia e, dissolvendo recinti e confini, oltre a depotenziare la forza degli Stati, riconoscono alle diverse etnie la loro identità radicata nella differenza dei loro valori delimitati dai loro confini, dove un’intesa comune per un’etica planetaria non era pensabile.” (p. 426). Parole che suonano irridenti, stanti i numerosi genocidi di cui la civiltà occidentale della tecnica e del mercato si è macchiata nel corso degli ultimi secoli. Il fatto è che l’ottimo programma di Galimberti non ha nessuna chance di realizzarsi neppure da un punto di vista logico, perché del mondo del dominio della tecnica e del mercato come “assoluto” non si vogliono riconoscere e denunciare i responsabili. Pertanto, il pensiero del filosofo è destinato a muoversi in andirivieni tra questo “assoluto” presunto e non dimostrato e l’isola che non c’è, ovvero tra il mondo della tecnica e lo spirito francescano che dovrebbe muovere tutti gli uomini; due poli di un discorso che, a dispetto di tutta la tradizione filosofica occidentale mobilitata con una congerie di citazioni spesso ripetitive di autori antichi, moderni e contemporanei, chiamati a suffragare i vari passaggi della tesi, alla fine potrà anche consolare il lettore-funzionario, che deve presto tornare al lavoro, ma certo non dà ragione all’uomo delle reali possibilità di costruire un mondo migliore.
Gentile Annie, ti ringrazio per aver letto il mio scritto, che dimostri di aver compreso pienamente, e ti ringrazio anche per aver voluto condividere con i lettori di Iuncturae il tuo giudizio. Con l’auspicio che esso sia l’inizio di una discussione tra i lettori, ti saluto caramente. Gianluca