di Adele Errico
“Delitto e castigo” fu il fulmine che si abbatté dal cielo e lo mandò in frantumi, e quando riuscì a riprendersi Ferguson non ebbe più dubbi sul futuro, se un libro poteva essere questo, se un romanzo poteva fare questo al tuo cuore, alla tua mente e ai tuoi sentimenti più profondi sul mondo, allora scrivere romanzi era senz’altro la cosa migliore che potevi fare nella vita, perché Dostoevskij gli aveva insegnato che le storie inventate potevano andare ben oltre il semplice divertimento e lo svago, potevano rivoltarti come un calzino e scoperchiarti il cervello, potevano scottarti e gelarti e metterti completamente a nudo e scaraventarti tra i venti furiosi dell’universo e da quel giorno in poi, dopo aver annaspato per tutta l’infanzia, perso nei miasmi sempre più fitti dello smarrimento, finalmente Ferguson capì dove stava andando.
(Paul Auster, 4321)
Lo scorso 30 aprile Paul Auster è morto nella sua casa di Brooklyn. Aveva 77 anni. È stato uno dei maggiori autori del postmodernismo americano ma, prima di essere scrittore, è stato uomo che si è aggrappato, resistendo, a un’esistenza che, alle volte, sa essere spietata: la morte del padre, la morte del figlio e della nipotina di dieci mesi per overdose, l’ammalarsi di cancro. Ma chi scrive si salva molte volte grazie alla scrittura e la scrittura ha salvato molte volte Paul Auster. Chi scrive può inventare la vita che non ha e Paul Auster, di vite, ne ha inventate molte. Ha persino scritto un romanzo, 4321 (Einaudi 2019), in cui vengono narrate le quattro possibili svolte che l’esistenza di un personaggio può prendere. Quattro Archie Ferguson identici – con gli stessi genitori, lo stesso corpo, lo stesso corredo genetico, un Archie Ferguson nato a Newark nel 1947, come lui – i quali, tuttavia, vivono circostanze di vita diverse.